Il giallo secondo Dürrenmatt

8 Agosto 2022

Nel romanzo Il sospetto del 1953 (ripubblicato da Adelphi, Milano, 2022) Friederich Dürrenmatt narra un episodio accaduto al commissario Bärlach di Berna. Questi, malato e ricoverato in ospedale, sfoglia la rivista “Life” e si imbatte in una foto di inaudita efferatezza: nel lager di Stutthof il medico, certo Nehle, sta operando un prigioniero senza anestesia. La guerra è da poco terminata, le ferite non si sono ancora cicatrizzate e Bärlach rimane ancor più sconvolto. «Erano bestie … Tu sei un medico e puoi renderti conto. Guarda questa fotografia» dice all’amico medico Hungertobel porgendogli la rivista. Questi impallidisce perché gli pare di riconoscere il suo antico compagno di studi Emmenberger, ora proprietario di una clinica rinomata, un luminare amato dai pazienti che «credono in lui come in un dio». E replica: “Non si può sospettare di una persona alla leggera solo sulla base di una fotografia. E poi lui era in Cile”. 

Però “niente è più difficile che far annegare un sospetto che torna di continuo a galla, suggerito dal demonio” e il commissario, pur vecchio e stanco, inizia ad indagare. Il sospetto, però, sembra rivelarsi «una follia» in quanto si viene a sapere che il medico del lager si è tolto la vita alla fine della guerra, in Cile. Qualcosa però non torna a Bärlach che individua alcune discrepanze, ad esempio la presenza di una cicatrice sul corpo di Nehle riconosciuta dall’amico medico, ed è indotto a ritenere che le figure di Nehle e Emmenberger si sovrappongano. Egli è convinto che vi sia stato uno scambio di persone, e non si sbaglia. Il vero Nehle, mediocre studente, era riuscito a concludere il percorso scolastico grazie ad Emmenberger che ne prese l’identità. Così Nehle ricambiò il favore recandosi in Cile fino alla fine della guerra fornendo il proprio nome all’amico Emmenberger che con il nome di Nehle durante la permanenza del lager sfogò il suo sadismo. Liberatosi dell’‘alter ego’ morto in Cile, riprese la sua identità divenendo il prestigioso chirurgo della città. 

Bärlach convince l’amico Hungertobel a farlo trasferire nella clinica di Emmenberger come paziente e sotto falso nome, ma viene scoperto. Rinchiuso in un’ala dell’ospedale dialoga con Emmenberger che si esibisce in una arringa megalomane. Confessa il suo passato, si candida a rappresentante del male radicale, si smaschera come sadico, non nasconde l’intenzione di ucciderlo. Filosofeggia affermando che: “si cerca di vivere così, lasciandosi trascinare dalla corrente. Il bene e il male cadono in tasca alla gente per caso, come ad una lotteria e per caso uno diventa giusto e per caso uno diventa malvagio”. Su questi temi si sofferma anche un personaggio secondario, la dottoressa Marlock, ex comunista, prigioniera nel lager salvata per essere divenuta l’amante di Emmenberger ed aver appoggiato la sua ideologia. “La legge è il potere, la ricchezza, i cannoni, i trust, i partiti … quello che Emmenberger ha fatto a Stutthof lo fa anche qui, nel bel mezzo della Svizzera, al riparo della polizia e dalle leggi, anzi in nome della scienza e dell’umanità”.

La decostruzione del giallo. Come sempre per Dürrenmatt il giallo è un veicolo di conoscenza, non lineare, né razionale o consolatorio ma denso di problemi, come già propose Glauser, altro svizzero di lingua tedesca morto nel 1938 (vedi su doppiozero “Friedrich Glauser: le vacanze di Studer”). Gli schemi tradizionali vengono usati per essere stravolti, tanto da inserire “Requiem per il romanzo giallo” come sottotitolo di La promessa (uno dei cinque polizieschi con Il giudice e il suo boia, Il sospetto, La panne, Giustizia). In questo percorso egli ha avuto seguaci, alcuni nascosti altri palesi come i fratelli russi Strugackij, deceduti da pochi anni e noti al pubblico per i loro scritti di fantascienza e investigazione.

Costoro in L’albergo dell’alpinista morto (Carbonio, Milano, 2022) si dichiarano seguaci di Dürrenmatt e a lui dedicano il romanzo con il sottotitolo “Ancora un requiem per il romanzo giallo”. Lo schema del giallo tradizionale poggia su regole precostituite e nulla e nessuno può interferire con le indagini che si snodano con passaggi logici. È il trionfo del razionalismo e dell’individualismo alimentato dalle condizioni storiche, dalla nascita e consolidamento dello stato borghese, dal crescente interesse per i casi giudiziari, dal rifiuto di una giustizia arbitraria quale quella feudale.

Il denominatore comune è il “fair play”: l’autore assicura al lettore le stesse possibilità di risolvere il mistero che assegna all’investigatore, ponendoli sullo stesso piano con uguali strumenti. Si parte dal crimine e si procede a ritroso per individuare il movente, cercar di capire come si sono svolti i fatti e chi ne è responsabile. Si costruiscono così le celebri due storie teorizzate da Todorov (Tipologia del romanzo poliziesco, Einaudi 1990), quella esterna allo sviluppo dell’indagine e quella interna che ha condotto al delitto. Il finale celebra il trionfo della giustizia: il colpevole è individuato e punito, il cielo torna sereno, il bene ha sconfitto le lacerazioni prodotte dal male e le ansie originate dal crimine sono superate. 

Dürrenmatt ribalta i caratteri sopradetti e li destruttura, come fece proprio nel 1953 Robbe Grillet con La gomme. Nel commentare quel testo Roland Barthes (Edizioni Nonostante, Trieste, 2017) parla di circolarità e suggerisce che la mente dell'autore sia un labirinto estraneo ad ogni psicologia. I personaggi di “La gomme”, come l’agente speciale Wallas, il commissario Laurent o il finto assassinato Dupont, si collocano all’esterno della storia. L’interesse dell’autore non è per loro, ma per come le modalità di un evento si sviluppano in un tempo che non procede linearmente, ma si ripiega su se stesso. Moltiplicando le ipotesi e circoscrivendole in un tempo compresso, la scrittura si chiude in se stessa e si autoalimenta in un presente perpetuo. 

In Il sospetto la razionalità si sfarina e viene surclassata dal caso, lo “zufall”, che assume il ruolo di protagonista. “Le nostre leggi si fondano sulla probabilità e sulla statistica, non sulla causalità. Esse si realizzano in generale, non in particolare, e il caso singolo ne resta fuori […] La realtà torna ogni volta a sfuggire di mano: questo universo non è perfetto perché “un fatto non può ‘tornare’ come torna un conto. Non conosciamo tutti i fattori necessari, ma soltanto pochi elementi per lo più secondari”.

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Nel romanzo infatti, dopo aver scoperto per caso la foto che incrimina il medico, dopo che questi è stato riconosciuto per caso dall’amico, il commissario dopo essere stato condannato a morte dal medico sadico si salva per caso grazie all’intervento di qualcuno che uccide il medico. Questo qualcuno è Gulliver, il gigante ebreo sopravvissuto, sfigurato dalle operazioni senza narcosi, che forma una coppia stramba con il nano Lilliput, legati dalla solidarietà per un dolore insuperabile. Quest’ultimo, costretto ai tempi del lager ad eseguire gli ordini sanguinari del medico, ha ucciso uno scrittore e stava per eliminare l’amico medico del commissario che aveva riconosciuto il boia nella foto scattata proprio da Gulliver. 

In linea con la decostruzione del genere, il criminale, in questo caso il medico sadico, diventa la figura mitica del male che attrae Bärlach come la preda attrae il cacciatore. Questi, cioè il delinquente, assume le forme del personaggio lucido, audace ed efferato, non viene consegnato alla polizia ma ucciso, in un’atmosfera misteriosa in cui l’identità delle vittime rimane perlopiù in secondo piano. Fin dall’inizio, dopo qualche capitolo, i sospetti si addensano su di lui per cui il lettore intuisce che non sarà complicato smascherarlo.

Egli tenta di giustificare il proprio sadismo con una sorta di filosofia materialistica, con la fede nella materia e nell’io dove ciascuno è svincolato dalle leggi godendo di una libertà assoluta. Il torturare diviene un atto coraggioso nello sfondo nazionalsocialista che fa lievitare nella società la responsabilità dei crimini. Quel medico diviene espressione di un mondo corrotto, privo di riferimenti dove nessuno può essere assolto.

La figura dell’Investigatore, secondo Dürrenmatt, rimane anch’essa impigliata in questi nuovi schemi, carica di problematicità. Costui è un solitario, quasi disorientato perché privo di certezze cui affidarsi, non sorretto dalla immunità, cioè da quell’infallibilità che ne costituisce da sempre un tratto distintivo. È umano forse troppo, fragile, debole, come Bärlach alle soglie della pensione e con un cancro che lo ha condannato a morte.

Però si trova ad agire in una situazione drammatica, che appare quasi senza speranza come nota lo stesso Bärlach: “Tutti dobbiamo essere dei Don Chisciotte se appena abbiamo un briciolo di cuore e un po’ di cervello nella zucca. Ma non dobbiamo combattere contro i mulini a vento perché… oggi si combatte contro mostri giganteschi, brutali e scaltri, veri e propri vampiri […]. È questo il nostro compito, combattere la disumanità sotto tutte le forme”. L’avversario è infido, tentacolare, gigantesco, quasi impossibile da sconfiggere.

La Svizzera in questo senso insegna. I romanzi polizieschi di Dürrenmatt sono tutti ambientati in quel paese nascosto, silenzioso, vietato, anche se le cartoline turistiche lo mostrano disinfettato, tendente all’ordine e al suo mantenimento. E in Il sospetto il commissario non usa mezzi termini: “La Svizzera ha fatto di me un folle, uno svitato. Ci si dovrebbe schierare dalla parte della libertà e della giustizia… e magnificare una società che ti costringe a condurre l’esistenza di un pelandrone, di un mendicante se vuoi votarti allo spirito invece che agli affari. Tutti vogliono godersi la vita, ma non vogliono mollare neanche un millesimo di questo godimento.” In quella nazione non esiste giustizia e “i peggiori farabutti vengono lasciati in circolazione e i pesci piccoli finiscono in galera” e il poliziotto si imbatte in un’atmosfera in apparenza rassicurante, ma dominata da affarismo e immoralità, in cui l’assassino è ovunque senza essere scoperto. 

Purtuttavia occorre stanare i mostri, sempre e comunque in una battaglia esistenziale. L’individuo-commissario è animato sempre dal desiderio di giustizia e sollecitato dall’etica della responsabilità sa scegliere tra bene e male, tra giusto ed ingiusto. Il romanzo riporta la filosofia di Durrenmatt “Io non scrivo gialli, scrivo filosofia…. appartiene alle menzogne consacrate la circostanza che i criminali trovino la punizione che si meritano, come pure il pio detto che il delitto non paga. … Basta semplicemente considerare la società umana per capire dove stia la verità a questo proposito.” 

E allora, nell’inefficacia della giustizia istituzionale per lo strapotere dell’avversario, l’investigatore è un singolo (Spedicato, Dürrenmatt e il singolo, Padova 2020) che cerca di sbrogliare la matassa diventando coraggioso, quasi un ribelle che con responsabilità rincorre la giustizia quando essa si inabissa. Egli sceglie metodi poco ortodossi, adotta un ‘diritto di eccezione’ basato su una ‘concezione privatistica della giustizia”, del ‘farsi giustizia da sé’ (Cazzola, Giochi di sponda, Giustizia e letteratura, Milano, vol. I). Sembra confidare in una giustizia superiore, trascendente, quella veterotestamentaria del sangue che chiama il sangue, come ricorda un sopravvissuto ai lager in Il sospetto: “Me ne stavo accucciato nella miseria della mia carne e dello spirito nel capo di sterminio. Jehova era lontano, occupato con altri pianeti, oppure stava studiando qualche problema di teodicea”

Questo avviene ne ’Il giudice ed il suo boia” dove Bärlach non si crea scrupoli nel liquidare il vecchio nemico Gastmann usando come strumento per uccidere un suo sottoposto, facendo ricadere la responsabilità sul nemico di sempre, in questo caso invece estraneo. È il caso anche del vendicatore in Giustizia e del commissario Matthai in La promessa e altrettanto dicasi per I complici (Einaudi,1977), in cui Bill è travolto da un delirio terroristico e con le sue ricchezze vuole comprare la giustizia ed eliminare, a suon di milioni, un presidente dopo l’altro. Compare ancora una volta un poliziotto, Cop, all’apparenza corrotto ma in realtà un infiltrato, in una sorta di missione suicida, un giocatore d’azzardo come Bärlach che cerca la giustizia pur consapevole delle scarse possibilità di successo. 

Compito arduo vincere il male assoluto. Non è un caso che Bärlach nell’attesa della propria esecuzione capitale chieda di appendere alla parete la stampa “Il cavaliere, la morte e il diavolo” di Durer. Questi tre elementi si fronteggiano in un duello decisivo: il cavaliere-commissario mosso dal suo ideale ma fragile, caduco; il diavolo-male incarnato nel chirurgo che sevizia le vittime per far trionfare gli istinti e la libertà illimitata; la morte spettrale e minacciosa verso uno dei due contendenti sullo sfondo. Dal confronto il cavaliere non esce vincitore di fronte alla follia razionale in quanto ogni idealismo non può che uscire sconfitto. Lo stesso quadro sarà scelto da Sciascia nell’ufficio del commissario Vice, anch’egli affetto dal cancro, per riflettere sulla giustizia, sul male, sulla violenza, sulla malattia e la morte (Il cavaliere e la morte, Adelphi, 1988). Il diavolo, stanco, scompare perché l’uomo è così diabolico da agire da solo, addirittura con una maggiore cattiveria. Il male è il cancro della società, provoca un dolore analogo a quello fisico di Vice, ed è incurabile.

Spesso apparentato a Brecht e Grass per la vena satirica e la critica sociale, a Kafka per l’assurdità delle situazioni, a Böll e Frisch per lo sguardo ironicamente feroce e persino divertito, Dürrenmatt è assurto al prestigio internazionale tanto da essere candidato al Nobel, vinto poi da Sartre. Appannata la sua notorietà negli ultimi anni, occorre ricordare che alcune sue opere sono state l’ispirazione per registi autorevoli come Scola in La serata più bella della mia vita del 1972 da La panne, come Sean Penn in La promessa del 2001 con Nicholson tratto dal romanzo analogo. E Paolo Stoppa non poteva essere che il commissario Bärlach negli sceneggiati televisivi, tra cui proprio Il sospetto del 1972.

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