Il mondo musica di David Byrne

3 Aprile 2024

Già leggendo la prefazione di questo volume, si può capire intorno a cosa ruotino le appassionate ma sempre “lucide” riflessioni di uno dei più rilevanti protagonisti della musica contemporanea – che sarebbe quanto mai riduttivo definire esponente del rock o della pop music. Nel volume intitolato “Come funziona la musica” (Giunti 2023 – prima edizione Bompiani 2013) David Byrne riflette sulla natura di un’arte alquanto strana, se non addirittura paradossale. E lo fa senza accademismi, senza reticenze; e soprattutto senza preoccuparsi di trovare il consenso del lettore. Lo fa ragionando sulla musica come fenomeno emblematico, utilissimo per comprendere come il senso dell’arte sia mutato, e come si sia radicalmente modificata la percezione che potevamo averne anche solo venti anni fa. David Byrne sa bene che la musica ha segnato e continua a segnare i momenti topici dell’esistenza di ogni essere umano, spesso anche modificando con grande impatto emotivo il nostro sguardo sul mondo; soprattutto con una potenza quasi sempre sconosciuta alle altre forme d’arte, legate prevalentemente al ‘vedere’. Sì, perché, l’opera musicale non si presenta come oggetto, più o meno stabile, fermo o mobile, in grado di catturare in toto la nostra attenzione, sottraendola al mondo che ci sta intorno. No, essa non mette in scena nulla di visibile; puro “tempo” che scandisce il ritmo di ogni più o meno interessato attraversamento del mondo e dei suoi spazi; assolutamente “effimera”, la musica non si può neppure toccare. Esiste solo nell’istante in cui viene percepita, eppure “è in grado di mutare profondamente il modo in cui vediamo il mondo e il nostro posto al suo interno” (p. 11). Essa ci accompagna, più che imporsi; ci accompagna mentre passeggiamo, se possediamo uno smartphone. Ma già con il walkman poteva accompagnarci in treno, al lavoro, o mentre osservavamo i passanti sotto la finestra di casa. La musica, peraltro, dipende in modo ‘intrinseco’ da ciò che la circonda – ci dice sempre Byrne –; dipendendo sempre dal modo in cui viene suonata, da chi la sta ascoltando, da come viene distribuita e dai luoghi in cui viene suonata. Il nostro compositore, infatti, ricorda bene come era strutturato il locale che ebbe la fortuna di ospitare le sue prime performances concertistiche. Si trattava di un club newyorkese: il Tootsie. Le pareti irregolari, la quantità di ciarpame sparso ovunque, i mobili, il bar… tutto era perfetto “per quel particolare tipo di musica” (p. 16). In primis per una assoluta mancanza di riverbero. 

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Una cosa, però, David Byrne ci tiene a precisare: che il contesto non determina la musica solamente in relazione al suo “funzionamento”; ma anche e soprattutto in relazione a quel che essa più propriamente “è”, in senso addirittura ontologico.  D’altro canto, la musica non è mai stata una “cosa”. Non è quello che è, una volta per tutte (una volta uscita dal laboratorio in cui sia stata prodotta), come forse accade a quasi tutte le opere d’arte visiva, come i libri di poesia e di narrativa (ma anche rispetto a questa affermazione, vi sarebbero comunque molti interrogativi da porre…). Tutte opere che in qualche modo rimangono quello che sono; che erano più o meno uguali anche un secolo fa. Che erano già quegli oggetti lì anche quattro o cinque secoli fa. Per quanto tutti gli oggetti d’arte vengano recepiti in modo sempre diverso; per quanto possa essere stato di gran lunga diverso guardare un affresco all’interno di una cattedrale nel corso quindicesimo secolo rispetto alla contemplazione non di rado puramente intellettuale dell’orinatoio di Duchamp negli spazi di un museo di arte contemporanea. Funzioni, aspettative e processi ermeneutici spesso incomparabili; che, soprattutto, rendono quanto mai difficile anche solo capire perché si sia deciso di raccogliere tutti questi oggetti all’interno di una medesima disciplina definita appunto “storia dell’arte”. 

Ad ogni modo, solo la musica sembra capace di mettere veramente in questione la supposta stabilità dell’oggetto fisico, la sua prepotente consistenza oggettuale; facendo deflagrare finanche la semplice esperibilità di qualcosa come un’opera musicale. E proprio la storia della musica – ci mostra molto bene David Byrne – ne costituisce la prova inconfutabile. 

Mostrandoci come, da ultimo, sia stata proprio la scomparsa di ogni oggettualità (anche di quelle deputate solo a “conservare” e “contenere” la musica – dai vinili alle cassette, sino ai più recenti cd), a consentirci di ritrovare , come per magìa, la purezza di un lontano e dimenticato inizio; sì che potesse tornare a farsi riconoscere l’importanza del concerto, ossia di quel rapporto insieme fisico e intellettuale, ma sempre anche sentimentale, legato all’istante di un’esperienza irriducibilmente unica e irripetibile – che, o c’eri, o mai potrai tornare a provare nella sua potentissima “inconsistenza”. Neppure se ti sforzi di capire cosa possa essere stata ascoltando una registrazione di quel determinato concerto su vinile, su cd o su un file MP3. 

Ma soprattutto la musica non è mai uguale a sé per definizione; anzitutto perché il ‘soggetto’ musica, che forse ci piacerebbe potesse rimanere sempre uguale a sé, “propriamente non esiste”. In quanto entità radicalmente effimera, inconsistente, quasi puro soffio di vento; destinato a cambiare fin nel suo stesso costituirsi. 

Il fatto è che ogni brano musicale è presente solo nel corso di uno svolgersi in relazione a cui mai ci si rapporta davvero all’opera considerata “nella sua interezza”. Insomma, quello che ascoltiamo, dopo aver appoggiato la testina sul vinile, è sempre un ‘frammento d’opera’; mentre quando l’ascolto giunge a compimento e la puntina torna ad alzarsi dal vinile (quando cioè si potrebbe auspicare di avere finalmente davanti a noi l’opera “nella sua interezza”), il brano non c’è più; e veniamo ineludibilmente riconsegnati al silenzio. Anche se di un silenzio solo apparente si tratta; ché, in verità, il mondo intero è musica. Suono, ritmo, fatto di ricorrenze, scarti, accentuazioni, salti di tono… David Byrne se ne accorge in modo sempre più preciso: che la musica è destinata ad “evadere dal posto cui era stata relegata nella cultura occidentale” (p. 362). Se ne sarebbe accorto sulla scia di Erik Satie, ma poi anche di John Cage, e da ultimo di Terry Riley con i suoi concerti-fiume, che potevano durare addirittura una notte intera. Certo, Byrne, sulla scia di queste esperienze ‘radicali’, sarebbe giunto a farsi anche un’altra domanda: dato che la musica è forse inerente a tutte le cose e a tutti i luoghi, “perché non lasciare che la musica si suoni da sé?” (p. 367). 

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In fondo, se la musica è quella dei pianeti e delle cose tutte (anche se la sua percezione è spesso quanto mai complessa per il nostro apparato uditivo), il “musicista potrebbe anche non essere più necessario” (p. 367). 

Insomma, che David Byrne sia un vero e proprio “filosofo della musica” lo capiamo anzitutto dal fatto che non viene minimamente scosso neppure dalla sempre più lucida presa di coscienza della progressiva “liberazione della musica dalla prigione della melodia, delle strutture rigide e dell’armonia” (p. 368). D’altro canto, tutti i musicisti lo sanno bene; tutti coloro che si sono esibiti in concerti, che hanno registrato dischi, sanno bene che, tra musicisti, si comunica spesso senza riferirsi a notazioni musicali sul ‘rigo’, ossia alle partiture e al loro spesso troppo vago linguaggio. 

Spesso, infatti, per comunicare con i propri compagni di viaggio, i musicisti usano espressioni come “più tagliente”, “più spinto”, “più rilassato”, “più funky”; o “più swingante”, meno “rigido”, “più cattivo”. Insomma, si ricorre quasi sempre a metafore e analogie che, per quanto anch’esse vaghe e indeterminate, finiscono per essere sempre più efficaci di una “precisa” notazione sulla partitura. Consentendoci di formare una vera e propria ‘tessitura’ musicale; come quelle di molti tappeti orientali e di buona parte dei tessuti africani. Dove i moduli costruttivi si ripetono, si intrecciano, si trasformano… dando vita a un vero e proprio concerto di forme e suoni che “si organizzano e diventano evidenti” (p. 210). Dando vita a un vero e proprio “tessuto sonoro”. Che può accompagnare le varie azioni della nostra vita, come l’andare in bicicletta o il lavare i piatti. Consentendoci di resettare il nostro rapporto con tutto quello che ci circonda e ci determina. Senza che questo debba essere necessariamente vissuto come una sorta di degrado rispetto ai tempi in cui l’opera musicale la si poteva esperire solo in certi luoghi: come le sale da concerto o i teatri d’opera. Luoghi sacri in cui non ci si sarebbe potuti comportare come ci si comporta ogni giorno; in cui si doveva cioè stare zitti e fermi, in “religioso silenzio”. Certo, è pur vero, rileva Byrne, che il buon vecchio Adorno “considerava i jukebox come una macchina per attirare i babbei nei bar con la promessa della gioia e della felicità… ma come una droga, invece di dar una vera felicità, la musica dei jukebox non creava che un’ulteriore desiderio di se stessa” (p. 142). Ma, con ammirevole ironia, il nostro musicista-pensante osserva che forse si trattava solo “di una persona che non si era mai divertita in una sala da ballo” (p. 142). 

Forse, se quella cui ci educano l’ascolto o la pratica musicale è un’esperienza di scambio volta a farci sempre più concretamente “toccare con mano” il fatto che le classiche contrapposizioni di esterno ed interno, individuo e società, tecnologia e sentimento, lasciano il tempo che trovano, allora anche il fatto che, se per un verso “amiamo rivendicare la nostra unicità, sempre più spesso veniamo messi di fronte alla nostra prevedibilità” (p. 152), va tenuto insieme a un altro fatto: che “la musica è una moltitudine di collegamenti con altri eventi delle nostre vite” (p. 156). E che, dunque, se “sembra ormai possibile che parte di quella che consideriamo produzione artistica sarà presto plasmata dalle macchine” (p. 154), non è affatto certo che tutto questo sia una cosa negativa, dato che “non fa male a nessuno e comunque ci dà piacere” (p. 154).

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