Le metafisiche geometrie di Rodney Smith

5 Novembre 2025

“Penso che la composizione in fotografia sia molto simile al ritmo in musica. Se si dispone di grande ritmo si ha anche un grande senso della composizione”, così si esprimeva Rodney Smith – il grande fotografo newyorkese cui Palazzo Roverella a Rovigo ha dedicato una grande mostra, curata egregiamente, con grande sensibilità e accuratezza da Anne Morin. Il titolo della mostra è anche quello dell’elegante e raffinatissimo catalogo pubblicato da Silvana Editoriale: Rodney Smith. Fotografia tra reale e surreale. Una mostra che ci fa scoprire un ‘grande artista’, testardamente intento a guardare il mondo cercando di estrarre l’ordine dal caos, la conoscenza dalla confusone, la saggezza dall’ignoranza, e, in ultimo, la bellezza dalla disperazione.

Smith, infatti, ha sempre cercato di riscrivere l’ordine del mondo al fine di consegnare le cose tutte a un ritmo inedito, ben diverso da quello incerto, confuso, zoppicante e impreciso che caratterizza l’esperienza quotidiana.

Convinto del fatto che fosse necessario scegliere se perdersi nell’oscuro labirinto della vita o elevarsi verso Dio, Smith ha cercato di carpire il ‘vero’ sotteso alla complessità del reale, e di farlo attraverso la ‘luce’; quella catturata dal fugace clic con cui alla macchina fotografica è consentito eternare l’istante e far emergere una perfezione ignota all’esperienza degli umani. La stessa che consente a quell’essere ‘mediano’ che è ognuno di noi – invitato in questo senso a farsi vero e proprio orafo cesellatore – di restituire l’immagine di un ordine geometrico forgiato dal pensiero in atto, e dunque concepito quale vera e propria immagine metafisica.

Insomma, Rodney Smith è sempre stato anche vero e proprio filosofo. Ha sempre voluto esserlo: filosofo, ma anche teologo (si è infatti anche laureato in teologia). Un filosofo impegnato a liberare la fotografia dai secolari equivoci connessi alla sua supposta vocazione mimetica. Quasi volesse dirci (al modo di Joyce): chiudi gli occhi e vedi! Non è questo, infatti, il mondo che il nostro fotografo consegna alle proprie opere – più o meno fedelmente riprodotto. Lo sottolinea con ammirevole piglio ermeneutico la curatrice della mostra, che scrive anche un bel saggio nel catalogo, insieme a Susan Brigh e alla moglie del fotografo: Leslie Smolan.

Il fatto è che le proporzioni cui dovremmo ambire non sono quelle della quotidianità; il mondo, per lui, va infatti trasfigurato e consegnato a una nascosta ma costitutiva infinitudine. Questo continua infatti a dirci il fotografo newyorkese, mirando alla ‘qualità’ sottesa a un reale ormai quasi irrimediabilmente quantificato.

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Leaning House, Alberta, Canada, 2004.

Da cui la rara qualità delle sue sorprendenti immagini; resa possibile da perfette e inconsuete ‘geometrie’ mentali, sempre puramente qualitative, come quelle disegnate appunto dai suoi scatti. Protese a liberare le immagini medesime dal rumore di fondo che le abbruttisce nel contesto dell’esperienza.

Sempre caparbiamente impegnato, dunque, il nostro fotografo, a restituirci forme in grado di farsi carico dell’opposizione assoluta; quella che si dice sì in molti modi, ma mai riesce a manifestarsi come tale là dove bene e male, bello e brutto, essere e non essere sono sempre malauguratamente confusi e resi empiricamente indistinguibili.

Per questo Rodney ha scelto il bianco e nero; con solo qualche eccezione (dove i colori sono comunque ridotti ‘ai minimi termini’). Perché solo così riteneva di poter dire il mondo che non c’è; un mondo depurato dalle impurità e dalle imprecisioni inficianti ogni atto della nostra esistenza empirica. Un mondo riconsegnato quindi al puro “essere”.

Da cui la natura fondamentalmente metafisica dei suoi sguardi. Sempre rigorosamente estranei alla vaghezza ed all’equivocità connaturate alla vista sensibile.

Rodney Smith, insomma, guarda al mondo con gli occhi della mente; mettendo a fuoco il suo (del mondo) puro ‘esistere’. Come fa ogni vero ‘metafisico’, peraltro; lo faceva già Platone e avrebbe continuato a farlo anche Heidegger. Riuscendo a silenziare l’inutile chiacchiericcio che domina la vita di ogni giorno. Là dove si è troppo spesso convinti di aver a che fare solo con l’urgenza del presente.

Un presente che Rodney Smith vede come pura illusione – stante che, ad esistere (come insegnava già Agostino d’Ippona), sono sempre e solamente il presente-passato e il presente-futuro. Ovvero, quel che (ora) non è più e quello che (ora) non è ancora. Ovvero, cose e persone che non sono ancora o non sono più. Cose del tutto inutilizzabili, dunque, e costitutivamente inafferrabili; veri e propri fantasmi della mente abbracciati da un silenzio spettrale ma nello stesso tempo, e non di rado, provvidenzialmente rigeneratore. In grado di sottrarre l’esistenza ai troppi e sempre incerti attributi cui facciamo normalmente riferimento. Consentendoci così di riconoscere le parole di quella “lingua delle cose mute” cui anelava già Hugo von Hofmannsthal nel suo capolavoro; la Lettera di Lord Chandos.

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Skyline, Hudson River, New York, 1995.

Rodney Smith è dunque perfettamente consapevole del fatto che il linguaggio del “vero” dovrà essere rigorosamente silenzioso. Mai riferendosi esso alle cose o ai loro predicati; perché mai parla delle cose con l’intento di rappresentarle.

Piuttosto, le fa emergere per quel che le medesime non-sono, per l’appunto.

E proprio in questo modo ci consente di incontrare gli opposti assoluti (quelli che da nessun essente sono resi manifesti nella loro purezza). Di là dal deleterio offuscamento generato da sempre troppo confuse mescolanze. Di cui sono vittime tutti i giudizi con cui riteniamo di poter nominare le realtà di questo mondo. Giudicandole e determinandole.

Ecco, Smith ci invita a fare epoché: ossia, a compiere il gesto per eccellenza della filosofia. Ci invita a sospendere i giudizi; quelli attraverso cui ci sentiamo troppo spesso autorizzati a qualificare le cose come ‘giuste’, ‘buone’, ‘belle’, ‘malvagie’, ‘brutte’… esistenti o inesistenti. Come se, ad esistere, non fosse sempre e solamente l’inesistente (e dunque il passato o il futuro; ovvero, quel che non-è, più o ancora).

Smith, insomma, mette il mondo reale tra parentesi; ma al “silenzio” che ne consegue corrisponde anche una vera e propria sospensione dell’azione. Non è un caso che i protagonisti delle sue foto non siano mai colti nell’atto di compierla, la loro azione; in esse, infatti, nessuno “agisce” in senso proprio. Spesso, piuttosto, i protagonisti delle sue foto vengono colti mentre guardano attoniti qualcosa che noi spettatori fatichiamo, e non poco, a riconoscere. Anche il saltatore, immortalato mentre si eleva sopra una palla di fieno, in realtà non sta agendo; il suo salto è palesemente sospeso. O interrotto. Come per l’eternizzazione di un singolo istante; quello di cui nessuno avrebbe potuto fare in alcun modo esperienza (d’altronde, chi fa mai esperienza degli istanti di cui riteniamo sia fatta ogni successione temporale?). Quello che solo il clic della macchina fotografica poteva cogliere, risolvendolo in un vero e proprio “frammento d’eternità”. Frequentato in primis dalla “fantasia”; di cui sono intrise, non a caso, tutte le magiche immagini di questa straordinaria esposizione. Una facoltà che ci consente di attraversare un mondo che non è se non il rovescio (la negazione) dell’esistente. Come quello in cui si sarebbe ritrovata Alice attraversando lo specchio; ma anche l’Orfeo di Jean Cocteau. Che va al mondo degli Inferi penetrando nella dimensione rovesciata custodita dallo specchio – nel cui orizzonte tutto ciò che è mostra di non-essere.

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Don Jumping over Hay Roll No. 1, Monkton, Maryland, 1999.

Così fa anche Rodney Smith, dunque; invitando il visitatore di questa bellissima mostra a entrare nel mondo rovesciato in cui l’imperfezione della quotidianità viene ogni volta trasformata… e trasfigurata, sino a farle assumere le fattezze di una perfezione assolutamente inedita; che coincide da ultimo con il “poetico”. In relazione a cui siamo tutti costretti a sospendere il giudizio; sì che le nostre azioni non possano fare a meno di arrestarsi; affinché possa irrompere, appunto, il poetico. Ossia, ciò che non ha nome; e si limita a disegnare un altro ritmo. Che sarà forse in grado di rivelare insospettabili corrispondenze e risonanze mai avvertite precedentemente.

Come ogni grande artista surrealista aveva già cercato di fare, insomma, anche Rodney Smith sembra volerci far ‘capire’ che quella scala non è una scala, che quella finestra non è una finestra e che quello sciatore non è uno sciatore…

Qualcuno aveva già cercato di ammonirci, nella prima metà del secolo scorso; avvertendoci del fatto che… quella disegnata dall’artista non è mai una pipa.

Allo stesso modo, quello fotografato da Smith davanti allo skyline di New York (il riferimento è all’immagine che campeggia nella locandina della mostra rodigina) non è un gruppo di amici o di colleghi, e neppure di persone che si siano incontrate casualmente.

Si tratta piuttosto di una semplice geometria, fatta di corrispondenze ideali e sorprendentemente perfette – come quella tra l’ombrello della seconda donna da sinistra e la cima di un grattacielo, oppure quella tra le persone ritratte di spalle e i grattacieli che si stagliano oltre la striscia d’acqua. Ma neppure l’uomo che ci guarda (che guarda lo spettatore) attraverso un cannocchiale, seduto sopra una scala sospesa nel vuoto, sta agendo, in verità. La sua è una posa evidentemente improbabile; ma proprio per questo sorprendentemente perfetta.

Sì, perché non allude a uno sforzo o a una qualche intenzione. Lui, cioè, non fa nulla: guarda, o meglio, ci guarda senza vederci. Insomma, il suo è un gesto perfetto proprio in quanto non gli fa rischiare alcunché. Mentre nella vita possiamo sempre cadere o inciampare. Nella vita, infatti, ci muoviamo in modo quasi sempre disarticolato e sconnesso. Nella vita cadiamo, inciampiamo. E soprattutto fatichiamo.

Solo i modelli di Smith non sono mai affaticati; nessuno sforzo trapela infatti dai loro volti; neppure da quello che vediamo impegnato a saltare un covone di fieno. Neppure dalle gambe per aria di un misterioso essere umano con la testa infilzata in un campo di grano. E che dire poi del signore mascherato, tenuto a galla da una sorta di improbabile salvagente… sorprendentemente impassabile e soprattutto impeccabile nella sua tanto ostentata, quanto incongrua, serenità?

Il fatto è che tutto, nelle fotografie di Rodney Smith, viene illuminato da una luce che sembra davvero provenire dal Paradiso. Una luce tanto perfetta quanto innaturale. Che ci libera dal buio che di norma confonde i confini e non ci consente di distinguere le cose come si dovrebbe. Ci libera cioè dal buio in cui (per dirla con Hegel) tutte le vacche sembrano nere. Insomma, Rodney Smith rende tutto ‘chiaro’ e ‘distinto’; quasi a voler inverare il monito cartesiano; come si sforza di fare, da ultimo, ogni vero filosofo.

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Self-Portrait with Leslie, Siena, Italy, 1990.

In modo tale che le persone e gli oggetti, e dunque le cose tutte, non scivolino mai; che non sprofondino mai nell’oscurità che impera negli abissi infernali.

Insomma, è come se le sue foto volessero “salvarci”; sì, salvare anche noi da sempre possibili sprofondamenti o da cadute non di rado irrimediabili. Perciò Smith riconsegna le cose catturate dal suo ‘obiettivo’ a quella dimensione singolare, unica nonché irripetibile, che quasi mai prendiamo in considerazione, in quanto sempre troppo impegnati a inseguire le indicazioni (di norma fallaci) di astratte universalità che di volta in volta chiamiamo “valori”, “scopi”, “moventi” o finanche ‘”principi”. Tutte destinate a tenerci lontani dalle cose sempre uniche e irripetibili con cui abbiamo ogni volta a che fare; ma di cui, normalmente, ci interessa assai poco.

Astratte universalità che alludono a una dimensione che non potremmo fare a meno di avvertire come “estranea”; in quanto sempre troppo rigidamente univoca e incapace di restituire la magia di un essente che mai è quel che sembra essere. Da sempre ospitato da un’isola che non c’è, ma su cui siamo sempre e comunque sospesi. Un’isola costitutivamente vocata alla magia, ovvero alla strutturale inspiegabilità che caratterizza quel che più conta, nella vita di ognuno.

E che rifugge l’ovvio come la peste – lo stesso cui tendiamo per lo più ad affidarci in quanto bisognosi di un rassicurante punto d’appoggio –; ma di cui, in ogni sua immagine, Rodney Smith ci invita opportunamente a diffidare.

Rodney Smith. Fotografia tra reale e surreale, a cura di Anna Morin
Palazzo Roverella, Rovigo dal 3 ottobre 2025 al 1° febbraio 2026
Catalogo Silvana Editoriale

In copertina, Caroline at the Top of Circular Staircase, Charleston, South Carolina, 2000.

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