Il sacro cuore di Caroline Guiela Nguyen
All’inizio è lo scetticismo. Lo scetticismo più prosaico e scoraggiante, quello dello spettatore ‘emancipato’ (sulla carta) che si ritrova davanti a un palco sovrastato da uno schermo bianco e già sa che dovrà spartire il suo sguardo in un estenuante va e vieni tra il qui – sulla scena terrestre dei corpi – e il lì, su quella celeste dei corpi riprodotti, come avviene in mille altri spettacoli che sono contemporanei proprio in virtù di questa schizofrenia, già sa che l’illusione teatrale dovrà andarsela a cercare fino alla fine del mondo, perché è probabilmente lì che il teatro sta, esausto e sfibrato da questo mondo del quale tuttavia non può mai fare a meno. All’inizio, la macchina farraginosa che una scenografia scintillante di ori dove si aprono due nicchie spinge verso il proscenio, in una prospettiva inesorabilmente appiattita, prevede il déjà vu di un cameramen che si muove (agilissimo) in lungo e in largo per inquadrare gli attori di Valentina, lo spettacolo di Caroline Guiela Nguyen sbarcato al Teatro Argentina per Romaeuropa Festival: il padre, la madre e la bambina eponima – presentati sullo schermo da primi piani con tanto di sottopancia – si siedono davanti a un frugale tavolo da cucina, imitando a gesti un pranzo familiare, mentre la voce fuori campo, appena più impostata di quella suadente che ha chiesto al pubblico di spegnere i cellulari o metterli in modalità aereo, precisa i confini della storia, un apologo fiabesco dove è questione di un miracolo (e dunque, pensa tra sé l’emancipato spettatore non ci saranno né fiabe né miracoli, ma la scaltra e disincantata parodia di quella parte oscura che al fondo di noi stessi non smette di propendere per gli uni e per gli altri). Poi, la prima vistosa incrinatura, il padre di Valentina, un tipo simpatico e massiccio, è… un violinista, come in un racconto chassidico, come in un quadro di Chagall o in un film di Radu Mihăileanu, come quei rappresentanti del popolo romanì che alle fermate della metro ci sorprendono con il loro virtuosismo musicale – costringendoci almeno per un momento a rallentare il passo. Valentina ha un sole simile a un fiore tatuato sulla fronte, sua madre dei lunghi capelli lisci che le carezzano le guance: lui suona veramente il violino, lo imbraccia appena può, loro parlano veramente il romeno (per chi non legge prima i programmi di sala, perché non ama sapere troppo prima di vedere, la regista di Saigon e di Lacrima ha lavorato con la comunità romena di Strasburgo per la sua nuova creazione).

Ogni fiaba si apre con una rottura nell’ordine del tempo e della vita e per questa famigliola appartenente a un proletariato sospeso a mezz’aria come quello che abita le pellicole di Aki Kaurismaki la crisi è rappresentata dalla patologia che corrode silenziosamente il cuore della madre, costretta a trasferirsi in Francia con la figlia per ricevere cure migliori. E qui, nella malattia e nell’esilio, tutto il bric-à-brac cineteatrale comincia a comporsi con inaspettata armonia – della quale il pubblico quasi non si avvede perché, in cuor suo, la sente come una condizione naturale – attorno all’aura crescente della bambina. Valentina (“colei che è in salute” dice l’etimo del nome) si impadronisce del francese imparato a scuola fino a diventare l’interprete di sua madre che, sempre più indebolita, non riesce a spiccicare una parola per comunicare con la dottoressa che l’ha in cura in ospedale. Ed è dal qui pro quo linguistico che si dipana una commedia degli equivoci a tratti esilarante, ma al fondo sempre molto dolente, sulle relazioni asimmetriche (e aritmiche) tra gli indigeni e gli ‘allofoni’ prodotte dalla freddezza burocratica del welfare europeo in generale, e di quello francese in particolare. Non capirsi e non farsi capire su questioni di vita e di morte, rinviando una possibile salvezza alla traduzione di una lingua nell’altra, delegando a un mediatore lo scioglimento di una diagnosi – “la prossima volta torni con un traduttore!” – è la peripezia che fa girare il prisma narrativo di Caroline Guiela Nguyen rivelando che l’originaria, storica, sensibile confusione delle lingue resta l’inamovibile ombra della globalizzazione (e, ironia o provvidenza della sorte, un altro spettacolo programmato a Romaeuropa per il giorno dopo al Vascello, cioè in un altro teatro della stessa città, L’analfabeta, tratto da Agota Kristof da Fanny & Alexander e Federica Fracassi, porta in scena l’angoscia e i vuoti dell’iniziazione letteraria a un’altra lingua, a una “lingua nemica” – sempre il francese, idioma per eccellenza degli assimilati). Soltanto che…

Soltanto che Valentina, esercitando la sua funzione di mediatrice linguistica tra la madre e l’universo straniero che la circonda, scopre che la duplicità della sua funzione di interprete le permette di gestire la verità a seconda che, come il Don Giovanni di Mozart, si rivolga agli uni e agli altri dei suoi interlocutori, alla madre, alla maestra della scuola, alla dottoressa. Nello scarto determinato da ogni traduzione si apre lo spazio sospeso dell’invenzione, uno spazio concesso al desiderio. Ora, la madre non vuole che la sua malattia pesi sulla nuova vita della figlia, e le chiede di non informare la scuola del suo stato di salute – e questa negazione, questo anacronistico pudore, questa opacità in totale contrasto con la società della trasparenza in cui le due si sono trasferite, è il dato drammatico di tutta la vicenda – mentre la figlia vuole che la madre viva, e lo vuole come lo vogliono i bambini, con tutta sé stessa. Il crescendo, drammaturgico e attoriale, di Valentina nel rifiuto della realtà – eh sì, avete letto bene: nel rifiuto – che porta la bambina a percorrere tutte le gradazioni della menzogna, così come le descrive il signor Popa (bellissima figura di aiutante nella progressione di questo organismo fiabesco), secondo una scala di durate, dal grado A all’impossibile grado D, quello in cui la menzogna si trasforma in realtà, è il segreto attivo di una transustanziazione miracolosa che qui mi impedisco di descrivere per rispetto ai futuri spettatori italiani del capolavoro della drammaturga francese (cioè vietnamita e indiana per parte di madre, ebrea sefardita per parte di padre, lontana figlia di Dien Bien Phu, ma nata a Poissy nel 1981), se non dicendo che quando il suo click scatta nella mente dello spettatore attuale è ormai troppo tardi per prendere le misure tra l’emancipazione e la totale sprovvedutezza, la perfetta illusione stendhaliana è in azione, ci siamo caduti dentro, le immagini si stanno riunendo in una terza dimensione, in un luogo mentale in cui il video e il palco, la riproduzione e la rappresentazione, si attraversano e si sospendono a vicenda.

E tutto di colpo prende senso. Hanno senso i violini suonati dal vivo, dal padre e dal signor Popa, perché la musica (secondo Rousseau e anche secondo Borges) è un respiro che viene prima della lingua. Ha senso la Regina della notte del mozartiano Singspiel con cui Valentina traveste la sua bugia sul cuore ferito di sua madre e di cui la mamma cuce davvero il costume, prendendola in parola. Ha senso quel cuore incastonato in un’edicola dentro un arco dorato che batte senza posa in qualche foresta nei dintorni di Bucarest, e la sonorizzazione del suo battito sfasato che a tratti invade la sala. Hanno senso i primi piani che ci svelano il volto della bambina nel momento in cui le sue menzogne rischiano di essere smascherate e le sue speranze di infrangersi contro l’atroce realismo degli adulti, perché ha senso “diventare come bambini” e sollevarsi spinti dall’assurdo del desiderio al di sopra di questo sporco mondo, o nessuno lo cambierà mai sul serio. Ha senso reincantare il disincanto, come sosteneva quell’anima infantile di André Breton. E che a far tornare i conti della fiaba, che nella realtà non tornano mai, sia un’affiatata cospirazione di attori e non attori, musicisti e non musicisti, tra i quali vanno almeno citati Chloé Catrin, Loredana Iancu, Paul Guta e Marius Stoian, le bambine del cast sono due e a noi, venerdì scorso, è toccata in sorte la straordinaria Angelina Iancu che all’uscita, tra gli applausi scroscianti, e le lacrime inghiottite, salutava con le dita a forma di cuore. Chi è che diceva che non bisognava più aver paura di avere un cuore? La menzogna che si trasforma in realtà esiste, si chiama finzione. E forse è venuto il momento di tornare ad agire il suo potere generativo con la stessa fede e la stessa scaltrezza della scrittura di Caroline Guiela Nguyen. Portare il reale sul palco è bene, rendere reali i sogni è meglio.
Le fotografie sono screenshot dal video di Jérémie Scheidler.