Speciale

Tempo di libri - donne / Ingiustizia, vendetta, riconciliazione, perdono

8 Febbraio 2018

Per contribuire a un momento d’incontro, approfondimento e scambio come Tempo di Libri, la fiera del libro che si terrà a Milano dall'8 al 12 marzo, abbiamo creato uno speciale doppiozero | Tempo di Libri dove raccogliere materiale e contenuti in dialogo con quanto avverrà nei cinque giorni della fiera. Riprenderemo i temi delle giornate - dalle donne al digitale -, daremo voce a maestri che parlano di maestri, i nostri autori scriveranno sugli incipit dei romanzi più amati, racconteremo gli chef prima degli chef, rileggeremo l' “Infinito” di Leopardi e rivisiteremo la Milano di Hemingway, rileggeremo insieme testi e articoli del nostro archivio, che continuano a essere attuali e interessanti.

 

L’ingiustizia che abbiamo commesso è il fardello che ci grava sulle spalle, un qualcosa che portiamo perché ce ne siamo fatti carico. Questo in contrapposizione al concetto cristiano di peccato, secondo il quale l’ingiustizia è emersa da noi, permane in noi come peccato, e avvelena l’organismo interno che era già potenzialmente infetto, cosicché abbiamo bisogno della grazia e della remissione, non per essere s–gravati, ma per essere purificati.

Il fardello che ci siamo caricati da soli sulle spalle può togliercelo soltanto Dio. Mai i cristiani. Il perdono si dà soltanto fra individui che per principio sono fra loro qualitativamente separati, quindi: i genitori possono perdonare i figli finché sono bambini, in virtù della loro superiorità assoluta. Il gesto del perdono distrugge l’uguaglianza e con ciò il fondamento delle relazioni umane in modo così radicale che, in realtà, dopo un tale atto, non dovrebbe essere più possibile alcuna relazione. Il perdono fra gli uomini non può che voler dire: rinunciare a vendicarsi, tacere e passare oltre, il che significa: il commiato fondamentale – mentre la vendetta rimane sempre presso l’altro e precisamente non rompe la relazione. Il perdono, o ciò che comunemente così chiamiamo, è in verità soltanto un procedimento fittizio, nel quale l’uno si atteggia a superiore, mentre l’altro esige qualcosa che gli uomini non possono né darsi né togliersi fra loro. Il procedimento fittizio consiste nel fatto che l’uno, che si presenta come privo di carico, sembra addossarsi il fardello dell’altro.

 

La riconciliazione, invece, ha origine nel rassegnarsi a ciò che è accaduto. Questo va distinto dalla gratitudine basilare per ciò che è dato. Con ciò che è accaduto, poiché si dipana temporalmente come destino, devo innanzitutto riconciliarmi, mentre a ciò che è dato, così come a me stesso, in quanto sono stato dato a me stesso e non mi sono fatto da me, devo rassegnarmi una volta per tutte. Questo rassegnarsi può svolgersi nel modo della gratitudine fondamentale – cioè che per me vi sia qualcosa come l’essere – o nel modo del risentimento fondamentale – cioè che l’essere sia qualcosa che io non posso fare da me e non ho fatto.

 

La riconciliazione con l’accaduto è possibile soltanto sulla base della gratitudine per ciò che è dato. La riconciliazione con l’altro non è un procedimento fittizio, poiché non finge di compiere l’impossibile – non promette lo sgravio dell’altro e non simula il proprio –; però, in compenso, anche nella riconciliazione accade disperatamente poco: colui che si riconcilia si carica volontariamente sulle spalle il fardello che l’altro porta comunque. Il che significa che ristabilisce l’eguaglianza. Per questo la riconciliazione è l’esatto contrario del perdono, che stabilisce l’ineguaglianza. Il fardello dell’ingiustizia è, per colui che l’ha compiuta, ciò che egli stesso si è caricato sulle spalle; mentre, per colui che si è riconciliato, è ciò che gli era toccato.

 

Sulla base del peccato originale tutto assume, naturalmente, un altro aspetto. In questo caso, forse il perdono è possibile, in quanto è solo l’esplicito riconoscimento del siamo–tutti–peccatori, dunque in quanto sostiene che chiunque avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, stabilendo così un’eguaglianza – non di diritti, bensì – di natura: il fariseismo è quindi la pretesa di non voler riconoscere l’eguaglianza fra gli uomini.

In quanto opposti fra loro corrispondenti, perdono e vendetta si coappartengono. Chi perdona rinuncia a vendicarsi, poiché anche lui avrebbe potuto essere colpevole. Chi si vendica non desidera perdonare, poiché può fare la stessa cosa che è stata fatta a lui. Si tratta di una sorta di solidarietà negativa che scaturisce dal peccato originale, ovvero dall’idea che siamo tutti nati avvelenati.

L’opposto corrispondente della riconciliazione è lo sguardo distolto – tacere e passare oltre. La riconciliazione si riconcilia con una realtà, indipendentemente da ogni possibilità. Nemmeno la vendetta può semplicemente cancellare la realtà, ma la supera, trasformando istantaneamente la realtà del subire in re–azione. La reazione è verosimilmente l’estremo opposto dell’azione. Da questo momento in poi, tutto si svolge nell’ambito puramente soggettivo, re–attivo. Esattamente lo stesso vale per il perdono, che in più – tanto nelle intenzioni di colui che concede il perdono quanto di colui che lo chiede – fa il tentativo ibrido di far sì che l’accaduto non sia accaduto.

 

In altre parole, nel perdono e nella vendetta ciò che l’altro ha fatto diventa ciò che avrei potuto fare io stesso, o meglio ciò che posso fare. Nella riconciliazione o nel passare oltre, ciò che l’altro ha fatto diventa ciò che mi è semplicemente accaduto e che posso accettare o che, come in ogni invio destinale, posso evitare. L’essenziale è il fatto che le realtà non possono essere ritrasformate in possibilità e che, d’altra parte, non ha luogo alcuna autoriflessione sul proprio poter–diventare–colpevole.

Detto in termini politici, la riconciliazione instaura un nuovo concetto di solidarietà. All’interno del mondo cristiano, l’alternativa fra il perdono – ovvero la rinuncia cristiana a qualsiasi azione nel mondo – e la re–azione della vendetta è infatti inevitabile. Le due cose nascono dalla solidarietà cristiana fra gli uomini, che sono tutti peccatori e credono capaci se stessi e il loro prossimo di tutto, anche della più grande malvagità. Si tratta di una solidarietà basata sulla fondamentale sfiducia nei confronti della sostanza dell’uomo.

 

La solidarietà della riconciliazione non è in primo luogo il fondamento della riconciliazione (come la solidarietà dell’esser peccatori è il fondamento del perdono), ma ne è il risultato. La riconciliazione presuppone uomini che agiscono, e che potrebbero anche commettere un’ingiustizia, ma non uomini avvelenati. Ciò che è assunto come fardello, di cui l’altro è la causa, non è la colpa – ovvero un fatto psicologico –, ma l’ingiustizia effettivamente compiuta. Si decide di essere co–responsabili, ma in nessun caso di essere co–colpevoli.

Da una parte, questa eliminazione della colpa nel concetto di solidarietà può agevolare la riconciliazione fra i popoli, poiché viene loro risparmiato il tormento della possibilità – il tormento di dover dire: anche questo è umano, con la conclusione erronea (avvelenata) che anche noi avremmo potuto farlo. Dall’altra parte, la riconciliazione ha un limite inesorabile, che il perdono e la vendetta non conoscono – ovvero quello a partire dal quale bisogna dire: questo non sarebbe mai dovuto accadere. È ciò che aveva in mente Kant, quando formulò le regole della guerra nel corso della quale non doveva aver luogo alcuna azione che rendesse impossibile una successiva pace fra i popoli.

Il male radicale è ciò che non sarebbe dovuto accadere, ovvero ciò con cui non ci si può riconciliare, ciò che non si può in alcun caso accettare come un invio destinale, e ciò di fronte al quale non si può nemmeno passare oltre in silenzio. È ciò per cui non ci si può assumere la responsabilità, poiché le conseguenze sono imprevedibili e poiché fra queste conseguenze non vi è alcuna punizione che possa essere adeguata. Questo non significa che ogni male debba essere punito; ma che debba essere punibile, se ci si deve poter riconciliare o distogliere da esso.

 

La vendetta e il perdono possono sì punire, ma poiché procedono dalla natura peccaminosa dell’uomo, ossia dal fatto che chiunque avrebbe potuto commettere qualsiasi cosa, non possono propriamente giudicare. Possono soltanto re–agire o perdonare. Per questo, nel sistema giuridico cristiano la punizione possiede ancora la componente ebraica della pura rappresaglia. La riconciliazione o il fatto di distogliere lo sguardo presuppongono invece un giudizio – ed è precisamente questo che incute timore: il fatto che dobbiamo essere in grado di giudicare, senza empatia, senza il presupposto della possibilità, senza una riflessione su noi stessi.

Un tale giudizio è a sua volta possibile soltanto se si possiede una rappresentazione di Dio che lasci veramente aperte tutte le possibilità, se si giudica, cioè, esclusivamente secondo parametri umani, lasciando esplicitamente aperta la possibilità che forse Dio non giudichi affatto o che forse giudichi in modo del tutto diverso. Solo nel momento in cui non si giudica ricorrendo a un’ingannevole amplificazione sonora, come se la propria voce fosse la voce di Dio, è possibile sopportare una vita senza vendetta e senza perdono, i quali fingono entrambi di imitare la collera e la grazia di Dio.

 

Da Hannah Arendt, Quaderni e diari 1959 - 1973, Neri Pozza 2007.

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