La Natura di Rosa Luxembourg
Il film Rosa L.(uxemburg) del 1986 diretto da Margarethe von Trotta, si apre con una scena invernale: in un cortile innevato un corvo, a terra, segue una donna che cammina. Poco dopo, alcuni passeri beccano briciole dal davanzale di una finestra. Una donna scrive in una stanza con libri e piantine in vaso: è Rosa Luxemburg interpretata da Barbara Sukova. La grande Von Trotta si era ben documentata sull’amore e l’interesse di «Rosa la rossa» per animali e piante e lo dimostra non soltanto nell’incipit ma anche in vari momenti del film. Di libri, fiori e piante e animali Rosa Luxemburg infatti si circondò sempre, per quanto le fu possibile.
All’Università di Zurigo, dove si era recata dalla Polonia in cui era nata nel 1871 da famiglia ebraica, Luxemburg si iscrisse a Filosofia ma frequentò corsi anche di Scienze naturali; passò poi a studi di economia politica e giurisprudenza ma rimase appassionata di botanica come pure di geologia, disciplina che riuniva mineralogia, chimica, fisica, astronomia, tutti ambiti di suo interesse.

Ma perché citiamo questo aspetto, poco conosciuto, della teorica marxista rivoluzionaria nonché socialista e militante a favore della riscossa proletaria? Perché vengono ora proposte ai lettori di lingua italiana due raccolte di lettere luxemburghiane, di orientamento simile, in quanto entrambe dedicate al rapporto di lei con il mondo naturale.
Si tratta di: Rosa Luxemburg, Nuvole, uccelli e lacrime umane. Lettere su natura e rivoluzione, curatela e traduzioni di Caterina Zamboni Russia, NdA Press, Rimini 2025, che viene qui soltanto citato, e di: Rosa Luxemburg, Un ardente desiderio di primavera. Erbe, animali e cieli nelle lettere dal carcere, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2025, pubblicato in Svizzera a cura di Danilo Baratti e Patrizia Gandolfi, con uno scritto del botanico ginevrino Nicola Schoenenberger dal titolo Flora carceraria. Il volumetto propone infatti una selezione di lettere dal carcere, delle 2700 circa inviate da Luxemburg a 150 persone diverse tra il 1893 e il 1919, anno della sua brutale esecuzione, massacrata come fu a colpi di calcio di fucile, e poi gettata in un canale, durante la repressione dell’insurrezione spartachista.

Rosa Luxemburg passò in prigione, per le sue prese di posizione politiche, circa quattro anni della sua vita, come ricordano i curatori nella bella introduzione dal titolo, e vedremo perché Una cinciallegra in gabbia. Già nel 1904, due mesi nella prigione di Zwickau, poi a Varsavia, ancora due mesi in condizioni orribili; a Berlino, 1907, due mesi nel carcere femminile per aver propagandato lo sciopero politico generale in Germania; a Francoforte, nel 1914, un anno per le sue affermazioni antibelliciste e antimilitariste; ancora un anno a Berlino, nel carcere di Barnimstraße, e in varie sedi, in una sorta di «detenzione preventiva»; nel 1916, nella fortezza di Wronke, a condizioni migliori: cella aperta e arredata, con piantine e libri, e due aiuole di fiori a disposizione – la prigione da cui scrisse più lettere. Da lì trasferita nel carcere di Breslau da cui uscirà nel novembre del 1918 «dopo 3 anni e 4 mesi passati quasi ininterrottamente in gabbia». Ecco la gabbia cui fa riferimento il titolo del libro, dove la cinciallegra è lei, Rosa, l’uccellino per il quale nel film si entusiasma nel cortile: «Eine Kohlmeise!» le fa esclamare von Trotta (che poi sarebbe una capinera, comunque una cincia). Gli uccellini lei li osserva, ne imita il verso, tsi-tsi-be, zvi-zvi, le uniche parole che vorrebbe sulla sua lapide. «Le cinciallegre e io – scrisse da Wronke nel febbraio del 1917 – crediamo nella primavera che arriva!”»

Nelle lettere selezionate dalla sua corrispondenza, dirette alla segretaria, alle amiche, a un amico, Hans Diefenbach, medico, letterato e musicista, compaiono, oltre ai piccoli volatili, le oche, che non può vedere ma di cui sente le grida al di là dei muri. E i fiori, quelli che le portano le sue visite ma anche quelli che crescono nei cortili delle varie prigioni e che ella raccoglie, pressa, erborizza, classifica nei quaderni di un erbario che comincia a tenere nel 1913 (lo racconta in una lettera all’amica Louise Kautsky). Alcune pagine sono riprodotte alla fine del libro: contengono foglie di olmo, malva, borragine, edera, e poi erbe che tutti vediamo ai bordi delle strade ma che difficilmente sapremmo classificare se non con il nome, temo, di «erbacce».
Rosa Luxemburg era politicamente e umanamente mossa da una sincera attrazione per piante e animali, come pure per la loro sofferenza. In una lettera a Sophie Liebknecht del dicembre del 1917, terzo anno di galera, scrive di aver provato un forte dolore, non per la sua condizione, della quale mai si lamenta, ma per le botte subite da un bufalo da parte di un brutale carrettiere. L’animale, con altri bufali, trainava un carro carico al punto tale da passare a fatica attraverso il portone del cortile del carcere: un bufalo grosso e robusto, con «grandi dolci occhi neri», picchiato a sangue dall’uomo con il manico della frusta, e si sa quanto la pelle di un bufalo sia spessa e coriacea. Eppure sanguinava, e lei gli si rivolge pensando «mio povero bufalo, mio povero amato fratello». Fratello, fratelli, lo stesso appellativo che riservava ai soldati francesi, nemici in teoria, nei suoi discorsi contro la guerra e il riarmo rivolti alla piazza come pure agli stessi membri del partito socialdemocratico, molti dei quali invece, in Germania come in Italia, li giustificavano e li auspicavano.

Vorrei concludere con una osservazione che ritenevo mia prima di scoprire di condividerla (si parva licet) con Hannah Arendt. Scriveva infatti Arendt in un articolo del 1966 (Elogio di Rosa Luxemburg. Rivoluzionaria senza partito, pubblicato nella New York Review of Books, e tradotto nel 1989 da Alessandro Dal Lago per «Micromega»), che poco dopo la morte di Rosa Luxemburg, quando tutti a sinistra avevano già deciso che si era «sbagliata» mettendosi con gli spartakisti e fondando il KPD... avvenne un curioso mutamento della sua reputazione. Furono pubblicati due volumetti che contenevano le sue lettere, e queste – interamente personali, ma dotate di una bellezza semplice, umanamente toccante e spesso poetica – furono sufficienti a distruggere, tranne che nei circoli più reazionari e antisemiti, l'immagine, diffusa dalla propaganda, di «Rosa la rossa» assetata di sangue. In ogni modo, si sviluppò presto un'altra leggenda, ovvero l'immagine sentimentale della donna che amava guardare gli uccelli e i fiori, della prigioniera cui le guardie avevano detto addio con le lacrime agli occhi, quando fu scarcerata, come se non potessero continuare a vivere senza questa strana reclusa che li aveva sempre trattati come esseri umani.
La leggenda insomma dice che le donne, anche le più accanite militanti, sono in fondo esseri sentimentali e sensibili al bello, che coltivano legami e hanno il cuore tenero (quella dote di cui, sappiamo, non sono colmi i carabinieri, e forse nemmeno i soldati e gli uomini in generale).
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