Primitivi contemporanei al Metropolitan
Non è un segreto, ma qualcosa di inaspettato e meraviglioso si affaccia su Central Park da una grande vetrata. Proviene da passati remoti, da mondi “primitivi”, e ha molto da dire a un mondo contemporaneo che ha perso la bussola. È solo un’ala di un museo, ma potrebbe essere un museo a se stante, e certamente è un’oasi dal ciclo incessante di cattive notizie.
È difficile prevedere cosa si salverà dalla profonda crisi morale, politica e culturale attraversata dagli Stati Uniti, ma per ora istituzioni come il Metropolitan Museum, che dispone di enormi capitali e cospicue forze intellettuali, risente meno dei tagli e delle ingerenze governative che hanno colpito università e istituzioni pubbliche.
Per chi avesse in mente un viaggio a New York, la riapertura della Michael C. Rockefeller Wing del Metropolitan Museum of Art dopo quattro anni di ristrutturazione, è assolutamente da non perdere. Non si tratta di un lifting, ma di un totale ripensamento e allargamento delle collezioni in una nuova sede ariosa, piena di luce, e con un design marcatamente contemporaneo. L’allestimento dominato da un bianco soffuso, gioca sulla relazione tra luce naturale e artificiale e su interessanti innovazioni espositive che pongono queste opere in conversazione con le altre collezioni del museo.
Occorre stare in coda tra 15 e 45 minuti per l'acquisto di un biglietto di $30 (offerta libera per i residenti). Ma l’esperienza è folgorante: un viaggio nel tempo e nello spazio capace di mettere in crisi il concetto di "arte primitiva" o quanto meno presentarla come una base formativa nell'avventura dell'essere umano sul pianeta. Chi conosceva bene la vecchia ala Rockefeller troverà, accanto ai noti tesori della collezione, moltissime opere mai esposte prima e soprattutto un nuovo spazio che si sviluppa su un'area di oltre 3.700 metri quadrati progettati dell’architetto Kulapat Yantrasast (studio WHY), in collaborazione con Beyer, Blinder, Belle Architects, per un costo di otre settanta milioni di dollari. Quasi in un museo nel museo con 1.726 opere —sculture, pitture, oggetti rituali, pali funerari, gioielli, maschere e tessuti, organizzati per aree geografiche: Oceania, Africa sub-sahariana e Americhe. Un quarto delle opere è esposto per la prima volta.
È utile ricordare brevemente la storia di questa collezione. Negli gli anni Cinquanta e Sessanta il miliardario, filantropo e governatore dello stato di New York, Nelson A. Rockefeller, in seguito Vice presidente degli USA, acquisì progressivamente opere d’arte primitiva provenienti da regioni del mondo non ancora incluse nelle collezioni del Metropolitan, come l’Africa e l’Oceania. Nel 1969, ne fece dono al Metropolitan che per accoglierla costruì questa nuova ala e la dedicò al figlio, l’antropologo, Michael C. Rockefeller misteriosamente scomparso nel 1961 nell’allora Nuova Guinea Olandese durante una spedizione di studio e raccolta di arte lignea del popolo Asmat. Proprio questi intagli e sculture Asmat rappresentano uno dei punti focali della Rockefeller Wing che fu inaugurata nel 1982, due anni prima che la mostra del MoMA Primitivism in 20th Century Art: Affinity of the Tribal and the Modern coronasse il percorso di canonizzazione del Primitivismo iniziato con l’esposizione African Negro Art curata da James Sweeny nel 1935.
Ma cosa si intende oggi per arte primitiva, un’arte slegata da periodizzazioni storiche, confini nazionali e dal ruolo sociale dell’artista, che all’inizio del XX secolo ha affascinato tanti europei, da Gauguin, Picasso, Modigliani fino a Klee? Ancora oggi il termine “primitivismo” allude a qualcosa di difficile da definire, che assume significati e funzioni diverse tra la modernità globale e il mito del buon selvaggio.
I dubbi legittimi sull’idea predatoria di museo etnografico o le considerazioni etiche sull’appropriazione di artefatti prodotti in luoghi lontanissimi da dove vengono esposti, passano per un istante in secondo piano di fronte all'esperienza ipnotica e trasformativa di una visita a questo nuovo padiglione. La bellezza, la ricchezza, e l’abbondanza di quello che ci appare davanti e soprattutto la 'presenza' spirituale di questi oggetti hanno un effetto profondo sul nostro stato di coscienza. È una "cornucopia" che richiede più di una visita per essere assorbita e che ci trasporta attraverso centinaia di culture africane, oceaniche e amerinde della cui esistenza raramente si parla.
Sia camminando che stando fermi, la visione periferica abbraccia opere di varie dimensioni, spesso al centro delle sale, o appese ai soffitti piuttosto che disposte lungo le mura. Così, in contrasto con l'allestimento precedente che consisteva in un unico volume diviso in tre corridoi paralleli, ogni area espositiva si sviluppa in una sequenza di stanze piccole e medie, che richiamano una griglia stradale e ci conducono a ampie piazze, con un effetto "villaggio". Nella Rockefeller Wing del 1982 c’era un vero problema: la luce solare, che penetrava dal sud attraverso la grande vetrata sul parco, danneggiava con i raggi UV le opere esposte. Per questo l’architetto Kulapat Yantrasast, ha costruito ex novo la grande vetrata utilizzando vetro inclinato triplo, con sette strati di rivestimento per proteggere le opere e creare livelli di luce ottimali.
Africa
L'arte africana apre il percorso espositivo con una mappa digitale che offre una panoramica delle storie politiche e geografiche, reti commerciali e movimenti di popolazione che hanno dato vita ai centri culturali e alle vicende artistiche del continente. Partendo dalle ondate migratorie dall'Africa orientale a quella meridionale dei Khoisan e arrivando ai confini mutevoli degli attuali stati nazionali, la mappa sottolinea le complesse formazioni economiche, linguistiche e politiche che collegano le comunità africane tra loro e con il resto del mondo. Il visitatore accede poi a una delle grandi piazze con un altissimo soffitto svettante scandito da setti orizzontali che suggeriscono nervature, pensato dagli architetti come un omaggio alla Grande Moschea di Jenne, in Mali. La sua grandiosità è evocata dalla maestosa galleria centrale, ancorata su entrambi i lati da sottosezioni che costituiscono "capitoli" distinti dedicati a "Africa Antica", "Africa e la Costa Atlantica" e "Africa e Frontiere Orientali". In ognuna di queste sezioni, la novità è la presenza di opere contemporanee che dialogano con capolavori del passato. Tra questi artisti troviamo ad esempio Abdoulaye Konaté e El Anatsui, ognuno dei quali si relaziona a tradizioni e pratiche artistiche secolari. Le opere in mostra, realizzate nel lunghissimo periodo che va dal XII secolo fino all'ultimo decennio, spaziano dalla scultura in legno, ai tessuti, fino alla fotografia.
In passato, una vistosa differenza tra le gallerie dell'arte europea e quelle dell'arte primitiva del Met era la totale mancanza di riferimenti all'identità degli artisti non Europei. Il nuovo allestimento, si propone di correggere, nei limiti del possibile questa tendenza, almeno per quanto riguarda l’Ottocento e il Novecento. Nei pannelli illustrativi troviamo un'enfasi sulla paternità e sulle biografie di circa quaranta riconosciuti maestri come Ọlọ́wẹ̀ di Ìsẹ (ca. 1873-1938, Efon Alaaye, Nigeria), Samuel Fosso (1962, Kumba, Camerun) e Joël Andrianomearisoa (1977, Antananarivo, Madagascar). Altra novità è la presenza e riconoscimento del lavoro di artiste donne che lavorano con la ceramica, la tintura tessile, le perle e il giunco. Naturalmente l’autorialità è assente per le opere più antiche.

Nella sala principale dell'Arte Africana si trova una scultura di dimensioni modeste, ma di impatto emotivo così potente da divenire, per chi scrive, emblema di questa sezione. Si tratta di una figura umana seduta, con la testa appoggiata al ginocchio: un dormiente, forse un sognatore. La didascalia riporta che si tratta un’opera di argilla cotta di un artista del Medio Niger, in Mali, del XIII Secolo. "I secoli che precedettero la diserzione di Jeanne-Jéno, intorno al 1400 EC, videro un'esplosione di arti figurative in tutto il Medio Niger. Questa figura è caratteristica di un'importante tradizione regionale di personaggi modellati fluidamente, in posture che suggeriscono profonda contemplazione o, come ipotizza uno dei testi guida, “una diffusa crisi sociale".
Le Americhe
La nuova installazione reintroduce i visitatori alla collezione di arti ancestrali americane, allargata, re-immaginata e corredata da un apparato critico. Si tratta di 700 opere che esplorano i maggiori filoni artistici degli indigeni del Nord, Centro e Sud America incluse le isole Caraibiche, prima del 1600 EC. Le opere in prevalenza furono commissionate da potenti re, regine e leader politici e militari che utilizzavano l'arte come marcatori essenziali di identità, mezzo di appartenenza e canale di comunicazione con il divino. Si va da sculture monumentali in pietra e lavori in metallo, a vasi in ceramica; paramenti in oro, conchiglie e pietre semi-preziose, fino a delicate sculture in legno. Il tutto illuminato dalla luce naturale filtrata da Central Park attraverso una parete in vetro inclinata. La novità più vistosa è una galleria (questa volta protetta con luce artificiale) dedicata ai tessuti e alle piume d'uccello, che ripercorre 3.000 anni di arte tessile. Un esempio dell'uso della tecnologia (insieme informativo e kitsch) è la ricostruzione digitale di uno straordinario scudo Moche del primo millennio E.C., con al centro un gufo simbolo del predatore. I dettagli intricati dello scudo trasmettono movimento e rivelano l'abilità dei fabbri Moche, secoli prima dell'ascesa degli Inca.

Tra le opere tessili che legano la sensibilità estetica primitiva alle avanguardie del novecento, fa bella mostra una tunica Inca (1400- 1535 EC), rosso rubino attorno al collo che poi si apre in una scacchiera bianca e nera geometrica ed elegante. Questo indumento, tessuto ad arazzo, presenta gli stessi motivi a scacchiera sul davanti e sul retro, con un carré rosso a forma di V e bordi meticolosamente ricamati. Tuniche come questa, venivano indossate dagli uomini sopra un perizoma, ed erano uno tratto distintivo dei notabili nell'Impero Inca. Se ne ha notizia in occidente per la prima volta nel 1532 quando Francisco de Jerez, segretario di Francisco Pizarro, descrisse l'incontro tra Atahualpa, l'imperatore Inca, e gli uomini di Pizarro a Cajamarca, Perù, notando che il primo reggimento dell'esercito Inca indossava una livrea a scacchiera. Il tessuto rivestiva un'importanza fondamentale nella cultura Inca: nessun evento politico, militare, sociale o religioso tra gli Inca si concludeva senza lo scambio o il dono, il rogo o il sacrificio di tessuti.
Oceania
Possiamo dire che il cuore della Rockefeller Wing è l'imponente collezione di arte Oceanica, centrale agli interessi antropologici del giovane Michael C. Rockefeller. Si tratta di opere provenienti da circa 140 culture distinte in una regione di straordinaria diversità che copre quasi un terzo della superficie terrestre. Tra queste, artefatti monumentali dalla grande isola della Nuova Guinea e dagli arcipelaghi costieri che si estendono fino al Pacifico, nonché dalle due regioni confinanti dell'Australia e del Sud-est asiatico insulare. Le comunità indigene di questi luoghi così diversi l’uno dall’altro condividono un'ascendenza comune. Le opere, guidano i visitatori attraverso storie legate alle origini, all'iniziazione e al potere ancestrale.
L’esposizione dell’arte dell’Oceania è organizzata lungo una traiettoria diagonale che attraversa l’intero padiglione pensata per mettere in rilievo i legami ancestrali e le temporalità indigene. Il nuovo layout stabilisce linee visive che enfatizzano le interazioni tra gruppi insulari adiacenti e culmina con l’installazione di arte Asmat a nord, e l'iconico soffitto Kwoma, illuminato da luce naturale, a sud. Queste sono collegate da una serie di gallerie più piccole e intime, per una visione ravvicinata e riflessiva.

Tra le opere d'arte Asmat collezionate da Michael Rockefeller durante i suoi viaggi, gli impressionanti pali funerari in legno alti 4,5 metri svettano sotto i soffitti a costoloni dell’ingresso.
Forse l'opera visivamente più imponente è il soffitto della Casa Cerimoniale, commissionato dal Met nel 1970 ad artisti Kwoma del villaggio di Mariwai, in Papua Nuova Guinea. È realizzato con steli di foglie di palma da sago dipinte. Nella sua nuova configurazione, questo iconico soffitto Kwoma presenta oltre 100 pannelli dipinti individualmente in una esposizione pensata per evocare l'interno policromo di un luogo cerimoniale per soli uomini, nella regione del fiume Sepik.

Per mettere in risalto i legami con l'arte contemporanea i curatori hanno inserito le opere di artisti come la fotografa Maori Fiona Pardington, che rappresenterà la Nuova Zelanda alla Biennale di Venezia del 2026. La sua foto in bianco e nero "Huia femmina solitaria" (2006/2023) commemora esemplari tassidermici di specie autoctone estinte. Le piume di huia, viste l'ultima volta nel 1907, un tempo erano indossate tra i capelli delle donne nobili Māori.
La nuova Rockefeller wing attirerà visitatori locali e internazionali per decadi a venire, mentre il Metropolitan riprende subito la sua crescita (chissà se sostenibile). Nel 2026 avranno inizio i lavori per una faraonica ala di arte contemporanea; c'è da chiedersi se ce n'era bisogno in una città che ha già il MoMA e il Whitney. Prenderà il nome dei filantropi che la finanziano: Oscar L. Tang and H.M. Agnes Hsu-Tang e sarà realizzata dall'architetta messicana, Frida Escobedo, con una spesa di $550 milioni per una superficie di 11700metri quadrati.
Si può definire ciò un ulteriore passo nella tensione tra arte primitiva e contemporanea che si articola nella ricerca, nel linguaggio critico, nel gusto del pubblico così come nei meccanismi di mercato e nel ruolo delle istituzioni. Una tensione che, virata in positivo, riflette atteggiamenti mentali, desideri conoscitivi e interconnessioni tra le pratiche artistiche dell'uomo attraverso le epoche.
