Riccardo De Bonis, uno di noi
Ci sono intellettuali che si distinguono per vastità di letture, altri per coerenza rigorosa del pensiero, altri ancora per una capacità di giudizio che non cede alle mode. Riccardo De Bonis apparteneva a una categoria più rara: quella di chi attraversa la cultura con passo fermo e insieme leggero, trasformando ogni incontro – con un romanzo, un film, una teoria economica, un dato statistico – in un’occasione per misurarsi con ciò che nel mondo rimane essenziale: l’umanità e la curiosità del conoscere, l’amicizia e gli affetti.
Nelle sue recensioni letterarie, disseminate nel tempo come pagine sparse di un diario involontario, prima in forma quasi anonima, nel Blog senza qualità (i suoi più di 150 articoli in sei anni sono firmati “Riccardo db”), poi su questa rivista online, appare un uomo che non ha fretta di giudicare. Prima ascolta. Prima guarda. Prima chiede al testo – o al film, o al fenomeno sociale – che cosa stia proponendo: quale concezione, quale prospettiva, quale metodo. È un’attenzione che ha qualcosa di morale: un rispetto, quasi di altri tempi, per l’opera e per il lettore. È evidente, ad esempio, l’arricchimento intellettuale che ricava dalla lettura di un libro filosofico sulla moneta come La moneta e i suoi inganni di Searle e Ferraris (qui la sua recensione). La moneta era un argomento da lui padroneggiato come pochi dal punto di vista tecnico e storico, come dimostra il bel libretto scritto con Maria Iride Evangelisti; padroneggiava il concetto di moneta e le analisi che ne fanno gli economisti, ma non al punto di diventare arrogante. Quella proposta da filosofi come Searle e Ferraris, sottolineava Riccardo, è una raffigurazione del denaro, ma anche delle banche, «a prima vista sorprendente per noi economisti, perché pensiamo, con la nostra frequente presuntuosità, di aver spiegato tutto, o quasi, della moneta e delle banche. Evidentemente non è così. Ciò conferma l’utilità di mantenere viva la discussione tra discipline diverse».
La sua convinzione che una maggiore apertura intellettuale arricchirebbe la capacità di capire il mondo dell’economia da parte degli economisti è particolarmente evidente nell’ampia e ispirata recensione che Riccardo scrisse del libro di Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, già nei mesi successivi alla pubblicazione di questo testo voluminoso e “inattuale”, come lo definisce in apertura dell’articolo; un libro che secondo i principi stilistici del recensore – che non nascondeva la sua fascinazione per la prosa di Italo Calvino – avrebbe dovuto essere più asciutto e meglio strutturato, con un’esposizione più ordinata degli argomenti e con minori ripetizioni; un libro che però aveva il pregio di una scrittura e una analisi che, mescolando i dati e le teorie economiche con le idee, le immagini e le parole del cinema, della letteratura e delle serie TV, propone un messaggio importante e chiaro: « scrittori e registi hanno descritto meglio di economisti e storici l’importanza dei patrimoni immobiliari e finanziari, e dei meccanismi sociali che ne derivano, quali le rendite e le eredità».
La sua prolifica attività di recensore spazia dalla letteratura contemporanea fino ai classici dell’Ottocento. In ogni caso, Riccardo lasciava che fossero la vita e le esperienze dei personaggi a parlare, a far emergere le idee che intendeva sottolineare. Esemplare, in questo senso, è il suo articolo su Bouvard e Pécuchet. Nei due protagonisti del romanzo di Flaubert riconosceva la fragilità del sapere, la comicità delle nostre pretese di sistematicità, l’eterno oscillare tra rigore e fallimento, un’«impietosa critica della ragione e della modernità. Flaubert ci dice: se pensate di poter capire qualcosa del mondo studiando e confrontando posizioni diverse, non avete capito nulla della vita». Di questo parlava spesso Riccardo, anche nelle belle cene in cui scambiavamo idee sui nostri lavori, tra una battuta e una metafora calcistica con cui Riccardo metteva a frutto le sue informazioni aggiornatissime sul calcio mercato: progettavamo articoli e libri da scrivere insieme, alcuni dei quali mai portati a termine, in fondo immersi in quella condizione umana che lo stesso Riccardo ha illuminato recensendo le forme-abbozzo, i lacerti, i disegni di Giacomo Leopardi, un genio irraggiungibile ma, in questo senso, “uno di noi".
Riccardo, statistico, economista e umanista aveva ben chiara l’importanza della narrazione, quale elemento fondante di una teoria o di una interpretazione storiografica. Lo sapeva Stefano Fenoaltea, il grande storico economico, che spesso ricordava, divertito e forse orgoglioso, l’acuto commento che Riccardo aveva fatto ai suoi risultati di ricerca presentati in occasione di una conferenza nell’ambito delle celebrazioni del centocinquantesimo dell’Unità. Con i suoi nuovi dati, Fenoaltea intendeva togliere sostegno empirico all’importanza che molti storici attribuivano alle politiche giolittiane per l’industrializzazione del Paese. Si tratta di un dibattito ancora aperto fra gli storici economici. Riccardo ne prendeva atto, ma lamentava la rimozione di una sceneggiatura avvincente, di una narrazione in cui avevamo creduto. Secondo Riccardo, Fenoaltea aveva scritto un film interessante ed esatto ma brullo, senza protagonisti né eroi: ci aveva abbandonati nelle fredde lande statistiche.
I dati sono importanti, ma sono altrettanto importanti le parole e i racconti con cui i dati vengono interpretati e comunicati. Non è un caso che il Servizio Educazione Finanziaria, che lui dirigeva, nel 2022 aveva invitato linguisti e giornalisti a un convegno da lui introdotto proiettando la famosa scena di Nanni Moretti che grida “Le parole sono importanti!”.

L’importanza dei dati, peraltro, nella visione di Riccardo – che ha lavorato alla loro produzione per anni, con grande competenza tecnica – non doveva far indulgere alla loro esaltazione assoluta. La nostra capacità di misurare i fenomeni sociali ed economico-finanziari è evidente, ma è importante riconoscerne i limiti. Per questo, ironizzava sulla iper-precisione (fino ai decimali!) che spesso si ricerca nella misurazione dei fenomeni economico-finanziari: “Sono solo stime, tentativi di conoscenza! Come possiamo pretendere di essere così precisi?!”. Coltivava un’idea più profonda di precisione, calviniana anche questa: togliere anziché aggiungere. La leggerezza, la “sottrazione di peso” come precisione. La ricerca di una frase che non aggiunge ma illumina. Lo stile come atto di pulizia. Nella Lezione americana sulla “leggerezza” tutto questo diventa programma morale: togliere il superfluo non per rinunciare alla complessità, ma per liberarla, per farla respirare. Calvino cita Paul Vàlery: «Il faut être léger comme l’oiseau, et non comme la plume» (l’uccello traccia una rotta, la piuma fluttua). Riccardo applicava questa norma a ogni ambito – ai romanzi che commentava, ai film che valutava, alle questioni economiche che spiegava, ai dati che analizzava. Anche quando trattava temi impegnativi (la moneta, il risparmio, l’incertezza), il suo gesto intellettuale non era mai quello dell'accumulo concettuale, ma della decantazione. La sua era una leggerezza pensosa, che nasce dallo scrupolo, dalla volontà di non porre ostacoli fra il lettore e gli argomenti proposti da chi scrive. La conoscenza serve a migliorare concretamente il mondo in cui viviamo, un passo alla volta. Per questo è sempre necessario passare dall’analisi dei dettagli alla sintesi.
Riccardo aveva il dono della leggerezza anche nei rapporti di lavoro. La sua attività al Servizio Studi aveva una componente di ricerca – che lui custodiva gelosamente – ma anche un lato operativo, con scadenze spesso stringenti, che doveva coordinare e di cui era responsabile. Ma anche in questa parte del lavoro riusciva a mostrare le sue doti migliori: proteggeva le persone del suo team e sdrammatizzava le situazioni, con punte surreali che solo a lui venivano perdonate. Una sera – dopo settimane di intensissimo lavoro sui nuovi regolamenti europei in materia statistica – se ne uscì con una scritta sulla lavagna così concepita: “De-enfatizzare la BCE”. Tutti si guardarono, tra il confuso e l’offeso, prima che una risata collettiva seppellisse il tutto.
“Ma insomma – ci disse Riccardo pochi mesi fa – nei primi tempi del mio lavoro in Banca si discuteva di questioni importanti, strategiche: come evitare le crisi bancarie, come regolare il rapporto fra banca e industria, come interpretare la mutevole natura degli intermediari; oggi invece vedo che molto del lavoro di analisi è concentrato su temi minuscoli, da iperspecialisti”. Questo, diceva, è un riflesso del crescente individualismo (per non dire egoismo): ognuno pensa in primo luogo alla propria carriera, e la carriera, sia essa accademica o in ambito istituzionale, dipende ormai dal successo nello “scoprire” una cosa nuova, per quanto piccola essa sia. Perciò la discussione sulle grandi scelte strategiche passa in secondo piano, e la focalizzazione su micro-temi diventa il pane quotidiano dei ricercatori. Paradossalmente, chi viene premiato è chi pensa a sé stesso, mentre meno credito si dà a chi si è speso per coordinare, favorire, correggere il lavoro degli altri.
Riccardo era assolutamente immune da questo male moderno: il suo impegno era in grandissima parte rivolto a incoraggiare, coordinare e ispirare il lavoro degli altri membri del suo team, piccolo o grande che fosse. Vogliamo mettere l’accento sull’ultimo di questi verbi: ispirare. Il suo ispirare – tanto nelle riunioni quanto nelle discussioni a due e nelle note a margine sugli appunti che gli venivano sottoposti – era sempre un richiamo ad affrontare le grandi questioni, a non lasciarsi irretire dalle piccolezze.
Questo lo poteva fare perché si era nutrito del pensiero dei grandi. In campo economico si era fatto guidare, durante i suoi studi alla Sapienza, da Fausto Vicarelli e Federico Caffè, che lo avevano incoraggiato a studiare i testi fondanti della scienza economica: da Marshall a Fisher a Keynes, da Sraffa a Arrow. Molto succosi, e allo stesso tempo divertenti, sono i suoi ricordi di Caffè e di de Cecco, che i lettori di Doppiozero possono trovare in questo sito, come pure la sua recensione alle lettere di Sraffa. Gli studi successivi a Cambridge e a Harvard lo avevano ulteriormente arricchito. In campo letterario e artistico era essenzialmente un autodidatta, ma si circondava di amici filosofi, linguisti, giuristi (fra cui Concetta, sua moglie).
Parlare con Riccardo era sempre un piacere: dal nulla tirava fuori una perla, non ti annoiava mai. Sempre gentile, con tutte e con tutti. Sapeva fare marcia indietro. Leggeva per capire, e scriveva per condividere ciò che aveva capito. Forse è questo, in fondo, ciò che definisce un intellettuale nel senso più pieno: qualcuno che non confonde mai il sapere con il potere, né la critica con il giudizio; qualcuno che vede la cultura come uno spazio comune, fragile e prezioso, al quale si accosta con cura. Un custode discreto – e per questo tanto più prezioso – di ciò che conta.
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