L’uovo di Aristotele

6 Ottobre 2023

Comincio così questa recensione al volume Lo spazio tra le cose di Annalisa Ambrosio per la nuova collana Tessere della Treccani, cioè da uno dei tre tuorli contenuti nell’albume di un progetto editoriale particolarmente interessante.

Evocare l’uovo qui ha un senso, perché il libro di Annalisa Ambrosio tratta di una coppia concettuale fondamentale per il nostro pensiero, vale a dire di “potenza e atto”. Uno strumento approntato da Aristotele e qui visitato dall’autrice con competenza e, diciamolo, gioia.

Evocare l’uovo serve per appuntarsi mentalmente il famoso quesito se sia nato prima l’uovo o la gallina. La risposta che ne dà Aristotele la scriverò in fondo a questo testo, non correte subito a vedere qual è. Per ora diciamo che nell’uovo c’è, in potenza, la gallina che sarà poi in atto quando becchetterà nell’aia e farà tutte le sue cose gallinesche.

Gli altri due tuorli nell’albume di questo progetto che Paolo di Paolo ha impostato per rimettere in circolazione concetti “classici” che sono divenuti con il tempo sedimenti del nostro sapere comune, ma, proprio nel loro sedimentarsi, sono scomparsi dal radar della contemporaneità, dati per scontati, in certa misura obliati, sono: Non mi ricordo le date! (la linea del tempo e il senso della storia)”, di Alessandro Vanoli e La somma dei quadrati (Pitagora e la scienza della libertà), di Silvia Benvenuti. E altri seguiranno. Il programma editoriale, in breve, è questo: “Si tratta di saggi con una forte impronta narrativa che si propongono di recuperare quei concetti essenziali della conoscenza, in un'ottica di ripasso creativo di quanto abbiamo imparato a scuola”.

Annalisa Ambrosio, autrice di un saggio all’incirca già pensato sugli stessi parametri (Platone. Storia di un dolore che cambia il mondo, Bompiani, 2019), affrontando questa poderosissima coppia che il pensiero fondativo greco ci ha dato si impegna in numerosi giochi acrobatici che svolge con una scioltezza ancora maggiore di quanto avesse già fatto nel libro su Platone. E un’acrobazia svolta con scioltezza è tale per cui non la si nota, non ne si nota il coefficiente di difficoltà. In questo caso è alto, perché la coppia “potenza-atto” è talmente entrata nella cognizione comune e lo è da così tanti secoli che a prima vista non ci appare per nulla da rivitalizzare, giacché la usiamo (da) sempre con serena disinvoltura.

La rivisitazione di Annalisa Ambrosio, che parte da prima che Aristotele la ponesse al centro della riflessione filosofica (che qui va intesa come non-mitologica), compie la duplice mossa carpiata di reintrodurre la complessità, i paradossi e le aporie da cui la coppia sorge, e di esemplificarne in maniera originale la portata in ambiti del nostro “vivere pensando” che in Aristotele sono germinali e che riguardano una temperie – la nostra – non solo distante dalla classicità greca culturalmente, ma anche nel semplice decorso della nostra vita individuale quotidiana e relazionale.

Due linee si intrecciano fluidamente in questo testo. Nella prima si ritorna su tutta la riflessione filosofica degli antichi sul movimento e sui suoi paradossi, sulla sua negazione parmenidea, fino alla duplicazione platonica fra le cose e le idee che di queste cose abbiamo, infine sull’essere e sul non essere (il nulla). Si tratta di una gestazione concettuale che non cessa di riempirci di meraviglia e stupefazione. O meglio, cessa di farlo quando non la si frequenta più dopo gli anni della scuola. E qui ritorna a vivere, smagliante. Nella seconda, con felicità di scrittura e di pensiero, si evidenzia come possedere concetti come “potenza e atto” produca negli umani consapevoli un imponente e gioioso “aumento di realtà” e lo produca costantemente, ancora oggi. La chiave sta nella consapevolezza, nella fruizione non meramente pratica della coppia concettuale, ma al contrario nello scandaglio inesauribile del suo profondissimo contenuto.

Se nella prima linea Annalisa Ambrosio riesce a riconsegnarci in termini narrativi e leggibili dal vasto pubblico (target esplicito della collana) la nascita della coppia concettuale, nella seconda è fecondamente creativa e negli esempi che produce c’è davvero una visione che rivitalizza potenza/atto aggiornandone la portata negli interstizi del nostro vivere.

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Come esempio – uno tra molti possibili – sceglierei il taglio molto personale di Annalisa Ambrosio che “collauda” e ripropone la coppia aristotelica in due ambiti che non sono i principali nella metafisica di Aristotele: la vita sentimentale e l’attività di scrivere.

Nella metafora del seme e dell’albero che diventerà è depositata una delle immagini della potenza (il seme) e dell’atto (la pianta) più iconiche e autoesplicative di questa coppia concettuale. Vale a dire che è facile comprendere come già nel seme vi sia la possibilità di diventare un albero. Questa possibilità è l’albero in potenza nel seme che è già in atto (mi scuso per la grossolanità esagerata, ma è per capirsi dotandoci di un’immagine). Ora, Annalisa Ambrosio è rigorosa nel collocare fuori, oltre e a fondamento di queste e altre immagini la valenza metafisica della questione. Quando lo fa parlando di sentimenti e scrittura davvero sposta di qualche grado il nostro angolo prospettico. Il sorgere di un sentimento amoroso è il divenire atto da quale potenza? Il testo fatto e finito, cos’era in potenza? Siccome potenza e atto sono i pilastri per poter comprendere tutto l’Essere (incluse, quindi, le nostre vite) come in movimento e in divenire (a parte il puro Atto, cioè il dio aristotelico, il motore che tutto muove ma che è immobile), questa visione che ne preleva l’innamoramento e la scrittura collocandoli insieme nella lista degli esempi ha l’effetto contingente ma felice di moltiplicare l’uno per l’altra in una prospettiva creativa evidente, tenera e potente insieme.

Aristotele dice poco sul sentimento amoroso. Qui è l’autrice che sviluppa il tema, ponendolo accanto a quello dell’invecchiamento, proprio all’inizio del libro, dopo aver posto il tema del “movimento” al centro del discorso di, e su, Aristotele: “Se lo si guarda solo come un movimento, innamorarsi o disamorarsi non è così diverso da invecchiare. L’innamoramento è l’immagine di un progresso, una trasformazione organica che parte dall’interno, si rafforza e dopo si manifesta. Dentro le anse della personalità e del nostro carattere c’è qualcosa che rende possibile un cambiamento simile, qualcosa che spesso è indecifrabile persino a noi stessi, e che è inscritto in regioni al confine tra le discipline che si possono studiare, per esempio tra la psicologia e la clinica. Siamo e non siamo noi, siamo noi che amavamo e non amiamo più, siamo noi che adesso amiamo mentre prima non amavamo”.

Applicare all’innamoramento la strumentazione che la coppia potenza-atto ci fornisce, permette all’autrice l’atto di libertà di vedere all’opera la coppia concettuale oltre il mero testo aristotelico, su un terreno che ci riguarda interiormente, facendo partire il suo discorso fin da subito in maniera non libresca né filologica.

Ma è definitivamente sulla scrittura che Annalisa Ambrosio, compiendo un passo ulteriore totalmente fuori, per ovvie ragioni, dai testi dello Stagirita, dà a chi scrive (per motivi più “professionali” che filosofici, se ci si può esprimere in questi termini) un’immagine ricca e interessante da considerare. Nel capitolo “Il discorso interiore”, che si apre con una bella citazione da Misery di Stephen King, Annalisa Ambrosio scrive: “Per comprendere come funziona la cerniera tra interno ed esterno, tra ciò che siamo e ciò che potremmo diventare, tra ciò che siamo in quanto noi e ciò che siamo in quanto altro da noi, forse non c’è modo migliore che guardare al discorso interiore […] Il nostro spazio interno non è stabile, è un movimentato spettacolo di ombre che vanno e vengono. Con la parte più ordinata cerchiamo di valutare come procedere […] Niente ci vieta di tornare indietro, dipende da che cosa troviamo sul percorso: se ci convince o se non sta in piedi. La scrittura rende questo processo visibile, anche perché lo rallenta”.

Questa immagine dello scrivere è molto interessante, sia perché colloca l’atto della trasposizione scritta nell’alveo generalissimo, metafisico, del rapporto tra potenza e atto, sia perché è neutra rispetto al contenuto del discorso. Questo rende possibile vedere con uno strumento in più certe produzioni poetiche, certe estetiche, che cercano e hanno cercato con la scrittura di avvicinarsi invece il più possibile mimeticamente al magma che è il discorso interiore. L’uso di questo strumento potrebbe dirci che è proprio la “parte più ordinata” che cerca di avvicinarsi al disordine del pensiero, sottoponendo sé stessa a un ulteriore stress e non, come potrebbe apparire superficialmente osservandone gli esiti testuali, abbandonandosi al delirio, cedendogli le armi.

Però qui il recensore è un po’ partito per la tangente, lo ammetto. Tuttavia è una fuga tangenziale che il testo dell’autrice in qualche misura permette, vale a dire che nel seme di questo pregevole trattato c’è la potenza per sviluppare in atto questa piccola uscita dal seminato. Ma non qui, non ora.

[Prima la gallina]

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