Marco Armiero. Le montagne della patria

8 Agosto 2013

Ci sono libri con i quali capita d’intavolare un dialogo serrato, appassionato, per i temi che toccano, per il modo in cui li affrontano, per le domande che suscitano, per il confronto con il presente che impongono e la discussione critica che dovrebbero animare. E’ il caso del libro di Marco Armiero, Le montagne della patria. Natura e nazione nella storia d’Italia. Secoli XIX e XX, da poco uscito in traduzione italiana per Einaudi, dopo essere stato originariamente pubblicato in inglese (A Rugged Nation. Mountain and the Making of Moderne Italy. Nineteenth and Twentieth Centuries ; The White Horse Press, 2011).

 

La montagna evocata nel titolo non é né una realtà in sé stessa né uno sfondo immobile, bensì il luogo dinamico da cui l’autore parte per sondare quella relazione di «costituzione reciproca» che lega «comunità immaginate» e «nature costruite», costruzione nazionale e concezioni «materiali» della natura. Relazione ambigua, oltre che storicamente sospetta (per il rischio determinista di naturalizzazione dei fatti sociali che porta con sé), ma non per questo meno significativa. La congiunzione «e» sottolinea, sul piano del metodo, la volontà di tenere assieme aspetti diversi, di assumerne la dimensione di co-presenza, uscendo una volta tanto da una lettura dicotomica dei processi storico-culturali. Natura e cultura, storie e luoghi, qui vanno assieme, sono in costante tensione dialettica tra loro.

 

 

Dentro questa tensione, e attraverso la montagna, il libro si interroga su come la natura è stata incorporata nella costruzione dell’Italia moderna, nei discorsi politici come nelle pratiche sociali, diventando allo stesso tempo risorsa simbolica e materiale. La montagna, come territorio e come paesaggio, è stata cosi utilizzata e interpretata di volta in volta come luogo del degrado (dei territorio come delle persone), luogo di un’«alterità» contraddittoria (a volte celebrata a volte repressa), luogo di ribellione e di resistenza a una «domesticazione» vista come elemento di progresso (per cui si domano gli abitanti, dopo aver domato – per esempio con le politiche forestali fasciste o la conquista idroelettrica – la montagna), luogo dell’eroismo e serbatoio della memoria nazionalista e patriottica (attraverso la politicizzazione dei luoghi della Grande Guerra), luogo generatore, nella retorica fascista, di un nuovo tipo di italiano e di un nuovo paesaggio.

 

Da storico dell’ambiente Armiero assume, come sottolinea William Cronon in una citazione riportata nelle prime pagine del libro, che «capire la natura nelle nostre teste è altrettanto importante che capire la natura intorno a noi, perché l’una modella e filtra senza posa il modo in cui percepiamo l’altra». Detto altrimenti, si tratta di assumere che la realtà nel quale viviamo emerge dai fatti e dalle finzioni che partecipano di continuo alla sua costituzione : le montagne italiane sono state allora «modellate dalle parole e dalle bombe, dalle retoriche della modernizzazione e dalle tonnellate di calcestruzzo che hanno dato corpo a quelle retoriche sotto forma di dighe, strade e ferrovie». Sembrerebbe qualcosa di assodato, ma così non è.

 

L’importanza e la necessità, oggi, di un approccio al mondo di questo tipo sta proprio nel suo sforzo di voler «materializzare» i discorsi, di coglierne le ricadute materiali, per comprenderne criticamente il senso e le implicazioni a partire dalle forme concrete con le quali si traducono e si proiettano sul territorio e nel paesaggio. Perché uno spazio geografico è, sempre, anche uno spazio storico e di storie, e tra i due il dialogo è costante, in una forma di modellamento reciproco. Presa sul serio, questa relazione è carica di conseguenze, come mostra l’epilogo del libro incentrato su due momenti particolari, e controversi, della storia italiana, il periodo della resistenza contro il nazifascismo, e la vicenda di quello che Armiero definisce – riprendendo il termine usato dall’avvocato Canestrini, parte civile nel processo che seguì alla tragedia – il «genocidio» del Vajont. Due storie scelte, sottolinea giustamente Armiero, «non tanto perché fossero centrali in qualche canone del racconto nazionale sulla montagna, ma proprio per sostenere che dovrebbero esserci». E dovrebbero esserci, non solo perché possano avere il loro posto nella memoria del paese, ma soprattutto per il confronto con il presente che impongono, e per quello che possono ancora raccontarci su di noi e sul nostro modo di rapportarci al mondo, di abitarlo e di comprenderlo.

 

 

Non c’è niente di scontato infatti se, come in questo caso, si vuole provare a capire come si è verificato, e cosa ha comportato, quel «salto logico» (che è anche, aggiungo, un salto di scala) che si palesa tra l’essere situati, l’appartenere a un luogo preciso (fondamentale sul piano umano come naturale), e l’appartenere a una realtà altra, più ideale, come il moderno stato nazionale. In questo scarto, quello che si lascia per strada è si il rapporto al contesto, quel «tessuto» di rimandi inerente all’abitare un mondo, ma anche la responsabilità connessa al fatto di essere «sempre sul posto», come ricordava Benjamin.

 

Perché, se «le montagne – e forse anche la storia ambientale – non sono fatte per il conformismo», lo si deve anche alla capacità che a volte hanno manifestato nel provare a contrastare e a rimettere in discussione quelle idee ortodosse e quegli schemi di pensiero che, nel loro intreccio con i sistemi politici e sociali, sono diventati – secondo un altro storico dell’ambiente, John R. McNeill – difficili da scalzare, malgrado i loro limiti evidenti, perché ormai ossificati, bloccati.

 

Questione di rifiutare quella semplificazione del mondo, quella riduzione «a un’unica prassi, modello, narrazione, visione» a cui si era applicato il fascismo (in piena logica modernista, come ricorda Armiero citando il lavoro di James Scott), e che risuona ancora oggi per le analogie con quanto stiamo vivendo a livello di retoriche e di politiche “europee”. Paradosso di un’epoca in cui chi dichiara di lavorare al miglioramento della condizione umana, allo stesso tempo agisce escludendo, per interesse o per ignavia, tutti quei modi di stare al mondo che non rientrano nella sola narrazione ammessa.
 

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