I ritratti della grande fotografa / Annie Leiboivitz, Wonderland

9 Febbraio 2022

Si può mettere al centro di un discorso sulla fotografia la bellezza? La pura, esplicita armonia di un'inquadratura strutturata con luci e linee efficaci? Guardando le fotografie di Wonderland (Phaidon 2021) scattate dalla fotografa americana Annie Leibovitz, il pensiero dominante sopra tutte le altre possibili riflessioni è che sono semplicemente belle. Talvolta eccessivamente patinate, forse; ma d’altra parte il volume è incentrato proprio sul rapporto dell’artista con la moda, declinato in numerose collaborazioni con Vogue e Vanity Fair. Sarebbe ingannevole però considerare quelli che sono in effetti lavori commerciali come opere meno artistiche perché tese all’obiettivo di vendere qualcosa – un marchio, un abito, un personaggio famoso – all’osservatore. Il legame viscerale di Leibovitz con la fotografia trascende le singole categorie e si definisce in una più ampia e generale esperienza estetica esperita in forma di un naturale, continuo evento. 

 

 

Tale istintiva abitudine ha origine in un’infanzia dove la macchina fotografica è ospite, se non proprio membro attivo della numerosa famiglia Leibovitz (si veda ad esempio il documentario di Barbara Leibovitz Obiettivo Annie Leibovitz prodotto da Feltrinelli Editore, 2012). La madre di Annie era solita documentare la movimentata vita familiare, sempre in viaggio a causa delle trasferte di lavoro del padre: quest’ultimo è un particolare da non trascurare in quanto la stessa fotografa ricorda come lo sguardo abituale dai vetri della macchina, con cui si spostavano da un luogo all’altro, abbia suscitato in lei la tendenza a pensare le cose attraverso un’inquadratura (nello specifico, quella prodotta dai finestrini).

Fotografia come atto spontaneo del pensiero: così, dopo una prima esperienza nella pittura, Leibovitz approda al medium più congeniale al suo modo di vedere la realtà. Ed è infatti evidente che la fotografa è riuscita ad adattare il suo sguardo a una fetta larghissima di mondo. Ha fotografato quasi ogni celebrità vissuta negli ultimi cinquant’anni, da John Lennon alla Regina Elisabetta, e non solo; il medesimo evento ha riguardato ogni persona della sua famiglia anche nei momenti più intimi, come la malattia e morte della compagna e critica Susan Sontag e dei genitori. Andando a scavare nei suoi lavori, oltre all’importante collaborazione con la rivista Rolling Stone e le altre di cui si diceva prima, è possibile rintracciare opere personali, riflessioni sociali (ad esempio il volume di soli ritratti femminili Women, Random House 2000, in collaborazione con la stessa Sontag), reportage fotogiornalistici.

 

La distanza fra fotografia commerciale e fotografia artistica si fa qui breve, o nulla, e certamente non influenza l’opera di Annie Leibovitz, che si dedica con la stessa intensità ai contesti visivi più diversi. Semmai è la fotografia stessa a farsi esperienza totalizzante che non si definisce solo nell’atto dello scatto ma anche sia nella preparazione del set che nella postproduzione. Ad entrambe le situazioni Annie non manca di riservare un’estrema dedizione: al limite dello stereotipo dell’artista famoso dalle mille pretese megalomani, elabora straordinari set costosissimi, e interviene pesantemente sull’elaborazione finale dell’immagine. In Wonderland emerge anche l’interesse per le serie narrative, interpretazioni per Vogue di scene di favole come Hansel e Gretel (con Andrew Garfield, Lily Cole e Lady Gaga nel ruolo della strega) o Alice nel Paese delle Meraviglie con Natalie Vodianova come Alice e alcuni fra i più famosi stilisti di moda per gli altri ruoli. 

 

 

Ritratti essenziali, o ispirati a un’idea, una fantasia, una metafora. Di certo è evidente che nel caso di Leibovitz la fotografia di moda non solo non ha limitato la sua creatività, ma l’ha anzi introdotta a nuove possibilità: le persone ritratte in Wonderland sono tutte famose, sanno come muoversi davanti alla macchina fotografica.  Lo stesso mondo della moda esige l’invenzione di una realtà immaginaria parallela. Tutto è possibile, purché attragga lo spettatore, pertanto i modelli di Annie sono spesso collocati in universi immaginifici, fantasiosi, barocchi e surreali. Torna qui il tema della bellezza delle sue fotografie, tra il dovere professionale di offrire la migliore immagine possibile del modello ritratto e l’intrinseca capacità di catturare sempre la luce, l’inquadratura, la posa più proficue. 

 

È difficile quindi soffermarsi sul valore estetico delle sue opere senza confrontarsi con un inedito senso di difficoltà, come se parlare di belle immagini fosse un discorso sia troppo riduttivo che paradossalmente troppo ampio. In fondo è ciò che viene dato per scontato in ogni fotografia che ci attiri, perché sappiamo di guardare delle immagini anche in virtù della loro bellezza e ci sembra ridondante puntualizzarlo.  È più probabile allora che ci si trattenga in riflessioni sul loro significato e contenuto, piuttosto che sul piacere della vista. Le fotografie di Wonderland sembrano a prima vista troppo facili, e d’altra parte parliamo di celebrità: sono attraenti, ben vestite e ben truccate, posano in location sofisticate o nei luoghi del potere, ogni imperfezione è eliminata nella fase di ritocco. Ma una volta che si indugia sulle pagine di Wonderland, dalle fotografie emerge prepotente la presenza di un pensiero a lungo meditato su ciò che si vuole ottenere dall’immagine. Si veda il riflesso nello specchio di Kirsten Dunst e Jason Schwartzman durante la sessione fotografica dedicata al film Marie Antoinette (2006) di Sofia Coppola o la posa inaspettata della stessa Dunst distesa su due poltroncine e vestita di un sontuoso abito la cui scintillante gonna è offerta allo sguardo in tutta la sua magnificenza: inquadrature ricercate, ben preparate, che vanno gustate a lungo perché elevato è lo sforzo profuso in esse. 

 

 

Dunque, se c’è questa bellezza, cosa può significare? Le fotografie del libro sembrano catturare delle situazioni: per quanto quasi sempre in posa, i soggetti si rivelano in forma di personaggi in una storia. Talvolta si tratta del racconto di un singolo istante che può essere narrato anche soltanto dalla pura fisicità del modello; come nei ritratti potenti, quasi esplosivi di Serena Williams, o la cattura di uno sguardo fuggevole di Hillary Clinton seduta ad un tavolo durante un’assemblea dell’ONU. Senza dimenticare come lo status di celebrità e la sua aderenza a una realtà percepita come altra rispetto alla normalità sembrino dar senso all’atmosfera irreale e visionaria che permea le immagini. C’è ad esempio una splendida Jennifer Lawrence che interpreta una migrante in abito da sera seduta accanto ai motori di una nave e nella foto successiva, avvolta in un luminoso vestito rosso, passeggia lungo un molo con lo sfondo della Statua della Libertà che si staglia nel cielo. Il riferimento è concreto e materiale – i nonni della fotografa erano venuti negli Stati Uniti dalla Russia e dalla Romani sbarcando a Ellis Island, il punto di ingresso per il paese – ma la resa è esplicitamente artistica, manipolata, controllata. 

 

Si tratta di una bellezza non superficiale, anzi profonda nel suo sviluppo, che pretende di essere riconosciuta e valorizzata. Fare fotografie davvero belle, malgrado tutte le illusioni concesse magari dai programmi di fotoritocco o da volti e corpi già naturalmente attraenti, è un lavoro artistico che richiede talento, sensibilità e impegno: tutte caratteristiche che Annie Leibovitz possedeva in grande misura. 

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