Fantasmi
Don Chisciotte ad Ardere
Giunto alla fine il Don Chisciotte ad ardere del Teatro delle Albe, il disegno è finalmente chiaro. È un grande omaggio alla forza incantatrice del teatro, quella che trasporta fuori dell’esistenza quotidiana, in quella stessa vita intessuta, con i suoi dolori, i traumi, le violenze, le gioie, le speranze. È rivelazione della capacità dell’“illusione comica” di tessere, di ordire trame, di creare inganni, di falsificare la realtà, per rivelarla più a fondo.
Questa non è una recensione. È una riflessione, un commento. Il Don Chisciotte delle Albe schiera due avatar, un mago, Marcus (Marco Martinelli), e una maga, Hermanita (Ermanna Montanari, con burattina), gli ideatori e registi dell’opera; cinque attori: Roberto Magnani come guitto che fa don Chisciotte, Alessandro Argnani, sempre guitto, come Sancho, Laura Redaelli, Dulcinea, Fagio, come un grande controllore e buttafuori e Marco Saccomandi, cui sono affidati vari personaggi. C’è, inoltre, una straordinaria ragazza giovanissima nella seconda anta del “politttttttico con sette t” – come decretavano dovesse essere il teatro le Albe giovani: riprende una delle novelle del romanzo, La schiava di Algeri, una storia di violenza, un’angheria contro i deboli, contro i giovani fragili. Con loro agisce un insieme di figuranti, che in realtà sono adolescenti e cittadini di Ravenna, con in più, a fare da collante ritmico trasportante, il complesso musicale dei Leda. Un insieme che ogni sera, fino al 15 luglio, riunisce forse 50 persone, forse di più, che interloquiscono, ballano, guardano, si scatenano: variano a ogni replica, con l’innesto di “tribù” della “non scuola” provenienti da ogni parte d’Italia.
È un canto, questo spettacolo, alla forza unificante del teatro. È una tappa di una lunga ricerca – iniziata da Montanari, Martinelli e compagni negli anni settanta-ottanta – a trovare o ritrovare una dimensione collettiva per ragionare sul nostro mondo frammentato, immaginando, appassionandosi, tessendo rapporti e reti. Nel quotidiano siamo divisi, separati, impegnati (impregnati?) a correre, a cercare di ricavare il nostro posto nel mondo. Qui la corsa è sospesa: siamo davanti a un canto corale, che continuamente evoca la magia, quella della grotta di Montesinos, quella che impedisce all’hidalgo di vedere la realtà per come è, magari per l’intervento di malefici incantatori, ma che lo incita a voler trasformare un mondo che in realtà è banale, quotidiano, acquietato. Lo spinge a volare sulle ali di una fantasia (di bellezza, di rispetto, di giustizia) mai domata.
Qui l’incantesimo vero è nel dialogo tra il coro e i solisti, in quelle musiche scatenate che portano al ballo, in quel mucchio di giovani, giovanissimi, maturi e piùchematuri che le Albe riescono a riunire, a trasportare in un’altra dimensione rispetto a quella della vita normale. Il vero incantesimo è quello: nato nella “non scuola”, rinforzatosi nelle chiamate pubbliche e in questi spettacoli d’insieme per Ravenna Festival (prima le tre cantiche della Divina commedia, ora il Don Chisciotte ad ardere). La realtà scolorisce e si rafforza. Perché in quella magia si può parlare di stragi, di guerra, di miseria, di roghi dei libri limitando al massimo la retorica; e – come nella parte iniziale del lungo spettacolo, ora in tre momenti – si può viaggiare nel palazzo Malagola come fosse la grotta di Montesinos, il luogo delle meraviglie intessute di oggetti giornalieri, banali, rimontati o incasellati in modo sorprendente. Allora appaiono allo sguardo del camminante campi di grano, scene al desco familiare, vecchi nudi che guardano davanti a sé, bambini, sirene, giocattoli, macellerie e altre apparizioni. E si può incontrare, nel percorso per strada che porta al secondo spazio, nel cosiddetto Palazzo di Teodorico, un disegnatore, il magnifico Stefano Ricci, che fa splendere una luna di gesso su uno sfondo nero, con uccelli rapaci, o disegna, alla fine, nel punto di approdo, la sala del teatro Rasi, il luogo delle magie, proprio la grotta in cui don Chisciotte e Sancio si perdono negli incantesimi.

La magia spezza la lingua abituale, evoca il mondo e ce ne distanzia, ci porta nella violenza del racconto di uno stupro di una ragazza poco più che bambina, un unico fiato di disperazione davanti al braciere che arde sotto le stelle dietro la facciata medievale del Palazzo di Teodorico. Parla della miseria degli attori e del loro desiderio di un mondo diverso. Li fa esibire. Si spezza, la lingua, in bocca ai maghi, si mescola, diventa parlate intrecciate, dialetti, idioletti, sincopi, glossolalie. La magia, una volta giunti nel luogo di tutti gli incanti (e gli inganni), il teatro, luogo della mente, ammazza burattini e personaggi e capisce che possono sempre risorgere, perché indistruttibile è la virtualità antica e menzognera del rito della scena.
Quella sala è luogo dove la mente sempre mente, dove si diventa altri da sé, dove si evocano le ombre dell’inferno che compirono sciagurati atti, come voleva un predicatore gesuita nel Seicento; dove si dà fiato all’indignazione, alla fame, alla voglia di giustizia, al desiderio, all’amore, alla retorica, all’autorappresentazione; luogo dove tutti sono buoni e dove tutti cospirano contro tutti. È però soprattutto, la sala teatrale, il crogiolo della trasformazione, della forza invincibile del corpo, della poesia, della poesia del corpo, che desnuda, rivela, mette in crisi.
Crea legami, intreccia, come in questo caso, potenti comunità temporanee, ragazzini, giovani, adulti, vecchi, che non accettano di lasciarsi vivere, che non sopportano l’isolamento: che si trasformano in corpo collettivo utopico, come le indignazioni di don Chisciotte, pronto a combattere ogni mulino a vento, a liberare carcerati, a trasformare una contadina nella più nobile e desiderabile delle dame, a gridare contro la violenza della schiavitù e dello stupro. Potere trasformatore del teatro, usato non solo per esibirsi (anche quello) ma per ritrovarsi, per darsi una speranza di vita differente. Per volare verso la luna come ippogrifi dorati. Per riallacciarsi, incarnando la materia sottile, inconsustanziale, vaporosa, nebbiosa, svanente, rivelante di fantasmi.

Ghosts
Il nuovo spettacolo di Fanny & Alexander ha debuttato anch’esso al Ravenna Festival, proprio nei giorni in cui usciva da Einaudi la raccolta La finestra della signora Manstey e altri racconti di Edith Wharton (pp. 430, euro 22), con la traduzione di Chiara Lagani, che ha firmato anche la drammaturgia e i costumi dello spettacolo Ghosts, ed è andata in scena con Andrea Argentieri. Il suono, evocante atmosfere misteriose, onde travolgenti e paesaggi brumosi, calme ultramondane e stridori decisamente horror, è di Luigi Ceccarelli. Dichiara la compagnia: “Abbiamo chiamato Luigi Ceccarelli, maestro e scultore di mondi sonori, per architettare una dimensione sonora panica che tenesse conto dei numerosi registri espressivi ed emotivi dell’epifania del fantasma”. Regia, scene, luci e video sono di Luigi Noah de Angelis.

Edith Wharton (1862-1937) visse e scrisse alla fine della stagione del realismo, quando nuovi temi e nuove forme stavano mutando la letteratura. Nel 1921 si aggiudicò il premio Pulitzer con quello che rimane il suo titolo più famoso, L’età dell’innocenza, portato sullo schermo da Martin Scorsese. Pur non avendo la forza innovatrice di Virginia Woolf e James Joyce, i suoi tanti romanzi e gli ottantanove racconti sentono l’urgere di tempi nuovi. Il libro Einaudi raccoglie storie scritte lungo tutto l’arco della vita ed è organizzato dalla curatrice Lagani come una selezione dei suoi temi principali. Tra gli altri, dalla scrittrice fu prediletto quello dei fantasmi, anche per il sodalizio con Henry James, che la introdusse nella società letteraria e dal cui estetismo pure lei si staccò, mostrando una maggiore attenzione ad affrontare questioni sociali.
Specialmente nelle narrazioni brevi, meno compatte dei romanzi, Wharton si sentì libera di ricercare nuove strade, tanto che Lagani scrive nell’introduzione al volume: “I racconti sono la scatola nera del suo viaggio esistenziale: è qui che affiorano tutti i temi, gli stili sperimentati, le rivendicazioni poetiche e politiche, è qui che emergono di più gli elementi autobiografici”. E più avanti: “I temi ricorrenti sono la donna, le costrizioni e le ipocrisie sociali, i fantasmi, la maternità, la morte”.
Dal libro lo spettacolo ha estratto cinque storie, che ci mostrano diverse ‘manifestazioni’ di fantasmi, senza lenzuoli e catene, principalmente come proiezioni dell’inconscio, di paure e desideri.

La nebbia avvolge il palco, rivelando e celando spazi che si dilatano in schermi laterali e in una finestra luminosa, pronta ad accogliere apparizioni video o a opacizzarsi, a restringere, concentrare, dilatare i luoghi dell’azione.
“Al fantasma però non dovrebbe essere permesso di dimenticare che la sua unica possibilità di sopravvivere è proprio nei racconti di quelli che lo hanno incontrato, sia nella realtà che con la fantasia, e forse preferibilmente con quest’ultima. Per un fantasma è molto meglio essere vividamente immaginato […]” (Edith Wharton).
Ci sono cinque coppie al centro delle cinque novelle portate in scena, con una tecnica drammaturgica mista, che alterna dialoghi a brani narrativi, che riescono a rendere il senso di attesa, di suspence, di esplorazione di quello specchio delle nostre ansie rappresentato dagli spettri dei racconti di fantasmi. Sono storie di rapporti infelici, o di misteri sepolti nella vita di uno dei membri della coppia, di morti fraintese e persone, come Miss Mary Pask, trasformate in orride controfigure della mummia della madre in Psycho. Sono un marito e una moglie che vorrebbero rompere la routine con qualcosa di inatteso (una figlia nel racconto, una tigre che irrompe in casa nella pièce teatrale), per poi ritrovare l’armonia dopo che la belva divoratrice si è allontanata (o la figlia dittatrice sposata). Ci troveremo in uno scompartimento ferroviario con un malato che viaggia assistito dalla moglie e con i paesaggi attraversati che scorrono, con colori acidi e viraggi verso immagini astratte. Quando lui muore nella cuccetta lei non sa cosa fare, per non essere lasciata col cadavere sulla banchina di una stazione, e non rivela il decesso fino all’arrivo a New York, fino a un drammatico finale a sorpresa.
Lo spettacolo nell’episodio della tigre ha momenti spassosi, grazie ai tempi perfetti degli attori, capaci negli altri momenti di addensare sospensioni e paure, risate isteriche e placidi sguardi all’eternità, oppure di trasformarsi in baluginanti immagini elettroniche nella finestra di fondo facendo insospettire sulla loro natura ectoplasmatica. Non mancano le atmosfere di pericolo, come la notte sulla scogliera avvolta dalla nebbia verso la casa di Miss Pask, che fa ricordare al visitatore che (forse) la donna è morta. Il suono interviene, con le luci, le coltri lattiginose, le immagini video sempre trattate, a creare quell’atmosfera di proiezione in un altrove che dilata lo sguardo dello spettatore, per riportarlo poi a storie molto quotidiane, come quella dell’uomo rapito dal fantasma di un vecchio socio che ha portato al fallimento, causandone il suicidio, arricchendosi e abbandonando la città per vivere nella quiete della campagna.
L’altrove è in agguato alle spalle, dentro, sotto la normalità, e la normalità è pronta a ghermire in ogni altrove, per cui la moglie del primo quadro, portata al suicidio dal tradimento del marito, poi, invitata da un argentato guardiano dell’aldilà a cercare il piacere della vita, sceglie di aspettare il marito, lo scricchiolare fastidioso (e rassicurante) dei suoi stivali, il suo sbattere la porta.
I video dilatano la visione, il suono la porta all’interno, i testi da Wharton creano un magico cortocircuito tra realtà, immaginazione, gioia e male di vivere, in uno spettacolo di raffinati intrecci.
Le fotografie di Ghosts sono di Luigi Noah de Angelis.
