Speciale

Ai confini della viralità / Il meme come virus, il virus come meme

3 Marzo 2020

Dopo anni di utilizzo eufemistico del termine, la viralità torna prepotentemente a sconquassare le nostre vite, riportandoci traumaticamente dal virtuale, a cui ci si riferiva tempo prima, al più tragico reale che ci sfugge e non riusciamo a gestire. Da quando il virale si è trasformato da aggettivo a sostantivo (il video, il contenuto, il meme), ci eravamo scordati dell’inquietudine, dell’angoscia e del panico che può provocare la vera viralità, o meglio la viralità biologica, poi aumentata dalla viralità mediatica e social. La crisi prepandemica o pseudopandemica, che ha bloccato una città dinamica come Milano, ha reso ancor più palese lo scenario di domesticazione dei consumi che in un saggio in uscita chiamo "isolation". Con Amazon che associa le ricerche sull'amuchina ai condom, mentre i supermercati vengono saccheggiati e i servizi di delivery e le app di dating online vivono un momento di grande splendore. Il virus hackera il funzionamento dei sistemi esperti, degli uffici, delle istituzioni e dei consumi, inducendoci a riflettere sulla loro natura/funzione. Meglio approfittarne per entrare in modalità smart working (per D. De Masi finalmente sdoganato proprio dalla crisi virale), in attesa di capire cosa accade alla città nel prossimo futuro. Il virus impatta sulla sfera politica in modo altrettanto traumatico, determinando una oscillazione caotica. Se la sinistra, pur nelle sue contraddizioni, prova a tenere la barra dritta confermando la sua nuova natura responsabile e razionale (all'opposto del suo passato rivoluzionario/immaginifico), la destra si dimena in modo ipertrofico criticando tutto e il contrario di tutto, come nel caso del meme sui titoli di libero ("Vade retro Virus", "Il governo agevola la diffusione del virus. Prove tecniche di strage", "Virus ora si esagera"). 

 

La questione della viralità fa emergere in modo stridente i paradossi che si annidano nella comunicazione contemporanea e che usano il linguaggio per operare una sorta di restaurazione identitaria: quella dell’io e quella del noi. Nella crisi sanitaria che stiamo vivendo è in realtà ben altro che viene messo in gioco. Soprattutto a causa della capacità del virus di saltare le barriere convenzionali degli stati nazione. Quei confini che hanno un enorme potere geopolitico e che, a seconda dei casi, incentivano o inibiscono la circolazione globale di merci, persone, capitali, idee, tecnologie ecc. La propagazione virale è di per sé paradossale perché forza i confini che delimitano nazioni, città o comunità. Queste tendono a resistere alla forzatura operata dalla trasmissione virale proprio grazie ai legami forti che chiudono, recintano la comunità rispetto all’invasione del nemico esterno. Tuttavia, una volta che il virus ha bucato il confine sfruttando i legami deboli e penetrando nello spazio omogeneo della comunità, lì inizia a seminare il panico. Proprio perché ciò che poco prima era un elemento difensivo, ovvero la chiusura e l’omogeneità della comunità, ora diventa il fattore di coltivazione e moltiplicazione dell’infezione. Come è accaduto in Giappone e in Sud Corea, specialmente a Daegu, dove la setta religiosa chiamata Shinchenji si è immediatamente trasformata in un cluster di incubazione del virus, ovvero in un superdiffusore del morbo. Oppure in Italia, primo paese europeo che ha chiuso i collegamenti con la Cina, ma anche primo in Europa nello spaventoso elenco dei più infettati. Con il tragico contrappasso di essersi trasformati in un sol colpo da respingitori a respinti. Con l'evento ancor più paradossale del secondo caso di covid-19 rilevato in Africa il 17 febbraio 2020: un tecnico dell'Eni che in tal modo ribalta empiricamente l'allarme leghista del virus che arriva tramite i barconi. 

 

Seguendo le riflessioni di J. Baudrillard sul codice, è dalla scoperta del DNA che il discorso biologico si incrocia e integra con quello comunicativo. Come nel caso della riflessione di W. Burroughs nel visionario La scrittura creativa (Sugarco, 1981), quando spiega la sua teoria del linguaggio come virus. La parola è l’altra metà, cioè sostanzialmente un virus, che ha infettato l’organismo biologico dell’uomo prealfabetico, determinando la sua cacciata dal GOD (Garden of Delights). La storia della civilizzazione umana è letta pertanto come un tremendo ribaltamento del rapporto tra corpo e pensiero nel senso che il pensiero è letto come un’entità estranea al corpo che agisce quasi cospirativamente rispetto a esso. Come tutti i virus più famosi, la funzione principale della Parola è quella di riprodursi sfruttando il metabolismo dell’organismo ospite per replicarsi e per produrre delle catene sintagmatiche che hanno il solo scopo di perpetuare tale sottomissione. Paradossalmente, Burroughs invoca una rivoluzione elettronica che attraverso la decostruzione/trasformazione del verbo in immagine (“dato che la parola scritta è un’immagine”), riporti la parola al suo statuto arcaico e magico. Molto più che l’ideale “devoluzionista” di Burroughs, l’evoluzionismo culturale di Dawkins (Il fiume della vita,1995) con la sua teoria dei memi, usa la genetica come metafora comunicativa. Come il gene è un’unità basilare della teoria genetica, così il meme rappresenta il concetto base su cui si erige la “meccanica” dawkinsiana. A differenza del modo in cui è stato raccontato da pubblicitari e da studiosi, la propagazione virale non è variabile dipendente dell’innovazione tecnologica. La sua natura originaria è legata alla dimensione comunitaria del “passaparola” e alla propagazione lungo i tessuti sociali che sono composti da legami forti e da legami deboli. Tuttavia oggi la viralità è necessariamente “rimediata” dai media emergenti. 

 

 

Il notevole saggio di A. McStay (2018) Emotional AI. The rise of empatich media esamina non solo piattaforme e devices che sviluppano forme di “intelligenza artificiale emozionale”, ma anche tutte quelle innovazioni che hanno saputo valorizzare in termini mercantili l’emotività dell’essere umano. Perlomeno a partire dall’invenzione dell’edonometro nel 1881 (p. 22), sull’onda lunga della riflessione benthamiana su capitalismo e felicità. Seguendo questo approccio di archeologia dei media potremmo quasi sostenere che tutti i media hanno provato a essere in qualche modo empatici. Anche se la vera svolta empatica avviene con l’avvento del digitale prima e dell’intelligenza artificiale poi. Quest’ultima quasi paradossalmente coincide con l’affermazione di un tipo di comunicazione a bassa fedeltà (Barile Politica a bassa fedeltà. Populismi, tradimenti dell'elettorato e comunicazione digitale dei leader  2019), che compensa l’alta efficienza performativa delle nuove tecnologie: un effetto di imperfezione che suggerisce una immagine autentica del leader politico, per rinforzare il legame comunitario e partecipativo della sua comunità di riferimento. Tra i media empatici, DIY e a "bassa fedeltà" è possibile annoverare anche il meme che circola viralmente grazie alle funzioni algoritmiche di profilazione e di ranking. #iosonogiorgia challange è stato probabilmente il meme più potente dello scorso anno, in termini di proliferazione e capacità di coinvolgimento degli utenti, alla base di ciò che in inglese chiamano “spreadability”. La sua semplicità apodittica gioca su una formula essenziale: quella dell’“io sono...” che in un’epoca di crisi del soggetto e al contempo di nuova ossessione narcisistica per l’ego, tocca corde profonde e intercetta pubblici polimorfici. Si tratta di una rivendicazione identitaria che rilancia il ruolo del soggetto, ormai frantumato dalla postmodernità, per poi estendere il discorso ad altre identità più generali e collettive (“sono una donna, sono una madre, sono cristiana...”). Proprio quelle identità che la fase avanzata della globalizzazione ha tentato di stravolgere, cavalcando una nuova epistemologia postcartesiana, transgender, postcoloniale e post-umana ecc.

 

Questa è la rivendicazione di solidità del sovranismo contemporaneo che parte dal soggetto moderno, proprio quello che paradossalmente fonda la visione illuminista e universalista contro cui il neocomunitarismo sovranista si scaglia. Non stiamo qui a riprendere il dibattito tra chi vede nella moltiplicazione del messaggio una possibilità di contrasto all’avanzata delle nuove destre, e chi invece pensa che si tratti solo di un’ulteriore pubblicità alla visione sovranista (a metà tra Oscar Wilde e il Culture Jamming). La cosa che più impressiona – e che potremmo eleggere a principio assiale della comunicazione contemporanea – è il ruolo strategico della contraddizione, o meglio dell’autocontraddizione. Il meme sovranista infatti, quasi scandito metricamente a partire dalla centralità ossessiva dell’io, acquista potere comunicativo proprio in virtù della sua negazione. Ed è così che i frammenti del discorso di Giorgia Meloni nella Piazza di San Giovanni a Roma, musicati su una base techno-rave anni novanta, danno vita a una sfida creativa e partecipativa (dal basso), che attraversa trasversalmente l’intero immaginario contemporaneo. È impossibile elencare ogni singolo meme con cui si è voluto rispondere alla contesa – dall’armata rossa al gruppo di barbuti musulmani, la guardia Daenerys Targaryen di Game of Thrones a Stanlio e Olio, il techno Viking creato dal mio amico Matthias Fritsch, fino a un Mattarella con le cuffie che sorride quando parte la sequenza genitore 1, genitore 2. In molti sui social hanno invocato una versione del meme da parte di Miss Keta, e lei puntualmente esaudisce il desiderio dei fan, intonando le parole del meme nel concerto a Bologna. Una miriade di soggetti che loro malgrado reinterpretano la partitura della leader di Fratelli d’Italia, in tal modo detournandone il senso fino al limite della sua totale trasformazione in forma pura. Un significante che non ha più nulla da comunicare se non il vuoto della ripetizione infinita, insieme a un’ilarità isterica tracciata sul volto dell’utente e a un continuo ribaltamento di quell'identità forte che si voleva costruire nelle molteplici, illimitate possibilità interpretative/performative offerte dalla forma del meme.

 

Come hanno messo in evidenza G. Mazzoleni e R. Bracciale in La politica pop online. I meme e le nuove sfide della comunicazione politica (Il Mulino, 2019) il successo del meme in politica cavalca l'onda lunga del politeinment e di una cultura pop diffusa tramite la rete che non è semplice continuazione di quella che aveva generato la politica pop televisiva, in quanto risponde a logiche precipuamente connettive. La potenza del meme sta nella sua spreadability (Jenkins, Spreadable media, 2009) ovvero nella sua capacità di creare un "iter mimetico" (Mazzoleni, Bracciale 2019, p. 59), attraverso cui i pubblici connessi non solo visualizzano e recepiscono il contenuto, ma se ne appropriano, lo modificano, lo reinterpretano, lo rilanciano attraverso nuovi processi virali. Per questo la nuova politica si predispone a perforare nella forma del meme, in attesa di essere inquadrati in una data cornice e rilanciati in processi di condivisione spontanea, creativa e informale.

 

Siamo dinnanzi a un uso distorto di quella che H. Jenkins chiama Cultura partecipativa, animata dai cosiddetti "spreadable media". Una cultura aperta, creativa e ricreativa, grassroots ecc. che nasce nelle comunità online e che riguarda un sistema di valori orbitante intorno alle controculture di sinistra. Con la politica lo-fi abbiamo assistito al tentativo di utilizzare la cultura partecipativa "da destra", con un successo enorme e imprevedibile. Dopo che le Sardine hanno contenuto lo tsunami Salvini in Emilia Romagna, si è capito che gli stessi media empatici, partecipativi e virali possono essere recuperati dalla sinistra per competere contro la nuova egemonia culturale sostenuta dai sovranisti. A tale scopo è consigliata la lettura del libro di M. Watson, Can the Left Learn to Meme?: Adorno, Video Gaming, and Stranger Things. Il testo rispolvera gli armamentari della teoria critica per riflettere sul rapporto odierno tra arte, industria culturale e politica. Con l'unica differenza che se per Adorno "il capitalismo degli anni cinquanta era una forma di astrazione che pretendeva di essere razionale (…), oggi non c'è più alcuna presenza di razionalità (…), cosicché i selfie, i meme, i video di YouTube e i video indie forse rappresentano il nostro tentativo di affrontare la follia del nostro mondo mediatizzato, al contempo interagendo con la sua assurdità e allontanandosi temporaneamente in uno spazio sicuro (e interamente fabbricato) al suo interno" (…). Dunque il vero problema su cui lavora il libro è "l'incapacità della sinistra di vedere sia i lati cattivi che quelli buoni nello sviluppo di Internet e la particolare cultura della produzione e ricezione delle immagini che lo accompagna". Il libro ha in qualche modo anticipato una questione posta successivamente dall'iniziativa politica delle Sardine che hanno voluto rispondere all'iper-attivismo delle Lega con un contro-attivismo mimetico e polemico. La nuova virilità da sinistra delle Sardine è stata una risposta tardiva ma efficacissima al problema dell'odierna passività della sinistra. Così quella sinistra che voleva portare l'immaginazione al potere e che poi ha sposato la razionalità dei sistemi astratti, oggi può trovare nuova linfa proprio nella virilità tattica della nuova comunicazione politica (di cui le sardine rappresentano una fase di transizione). In tal modo essa supererebbe tanto la condanna descritta da A. Abruzzese negli anni novanta di una sinistra baluardo del libro e del sapere alfabetico, quanto quella più recente di élite che difende la razionalità astratta del sistema – dunque l'establishment – dimenticando le esigenze e i movimenti che spingono dal basso per rinnovare la società.

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