Elon Musk: l'élite della neoplebe

15 Novembre 2022

Nel formidabile film The triangle of Sadness di Ruben Östlund (2022), la metafora “titanica” di una nave alla deriva nella tempesta è un espediente narrativo per raccontare la deriva delle classi sociali e la crisi delle élite nel contemporaneo. Se tra la super-élite e i lavoratori subordinati esiste una sostanziale simmetria, nel senso che al mutare delle condizioni ambientali la lavoratrice asiatica si trasforma in capitano grazie all’immediato consenso da parte dei più ricchi, i rappresentanti della classe creativa vengono sfruttati a prescindere: prima dal potere immateriale del business, come durante il casting del protagonista, poi dal potere materiale e fisico della sopravvivenza, in cui chi sa fare qualcosa di concreto vale più del denaro e del lusso.

Una delle conseguenze più dirette della globalizzazione, quella che i partiti di sinistra non hanno voluto considerare, è stata la polarizzazione socioeconomica tra le classi sociali e l’impoverimento drammatico del ceto medio occidentale, a lungo considerato come il pilastro delle democrazie avanzate. La grande illusione della globalizzazione si è fondata sull’idea che a compensare tale impoverimento arrivassero i ceti medi dei paesi emergenti, il cui sviluppo avrebbe trainato le produzioni dei paesi un tempo egemoni. Senza capire che il travaso di tecnologie e competenze da ovest a est, sull’onda lunga delle delocalizzazioni, avrebbe comunque messo in discussione la centralità dell’industria occidentale, ancor più se pensiamo ai costi dell’attuale transizione ecologica. 

Con il passaggio dalla globalizzazione alla deglobalizzazione, le frattaglie che componevano gli ex ceti medi sono state infettate dal populismo-sovranismo (gli underdog) in cerca di una nuova identità, che un tempo fu di classe ma che ormai è frammentaria e metonimica (individuo/popolo). Allo stesso modo questi ceti impoveriti e intronati dalla successione di varie crisi, si costituiscono come nuova controcultura che, alla stregua delle vecchie controculture, ammicca a qualcosa che sta dall’altra parte della barricata: stavolta però non è più l’antimateria del capitalismo globalizzato, come nel caso dell’ex Unione Sovietica, bensì un regime diversamente liberista e cleptocratico che domina una società ancor più polarizzata e infettata dal denaro/consumo. Come ho discusso insieme a Panos Kompatsiaris nel XII Scrittoio della Biennale intitolato The Biennials post-presencial era.

Challenges and opportunities, organizzato da Francesca Castellani (IUAV) in apertura della Biennale di Venezia 2022, anche l’arte, il cinema, la musica e la circolazione di talenti in generale potrebbero essere condizionati da tale processo. Se infatti, per fare un esempio, le piattaforme hanno lasciato la Russia con le altre corporation, è perché la guerra più profonda è mossa proprio contro i contenuti e i valori della cosiddetta Netflix Society, simbolo di una cultura che rivaluta e promuove valori progressisti: dalla gender fluidity, all’inclusione multiculturale, fino alla reinvenzione di un passato postcoloniale inglese (come nel caso di Bridgerton). La Netflix Society è l’avamposto che globalizza i valori della classe creativa attraverso le piattaforme. Valori che collidono drasticamente con quelli proposti dalle formazioni populiste. Essa è la prosecuzione della cultura della Silicon valley con nuovi mezzi.  

Se la metafora organicista di Menenio Agrippa tentò di incorporare il ceto subalterno riottoso dell’antica Roma nella totalità funzionale di un corpo unitario le cui membra sono “naturalmente” subordinate al comando della testa, il rapporto tra élite, classe creativa e neoplebe, ci racconta invece una società smembrata e disorganica. Nel loro nuovo libro, Neoplebe, classe creativa, élite (Laterza, 2022), Paolo Perulli e Luciano Vettoretto affrontano in modo sistematico il problema squisitamente sociologico di questo “sfaldamento” delle classi sociali. Al ruolo sempre più dominante delle élite, si assomma quello di un ceto medio postindustrializzato che assume i tratti di fragilità della nuova classe creativa. Al di sotto di questa si espande sempre più una neoplebe vittima sacrificale delle politiche neoliberiste.

Mentre la ricchezza sempre più si “concentra verso l’alto”, i livelli intermedi vivono un sostanziale scivolamento verso il basso, a partire dalle famiglie, passando per i working poor (i nuovi poveri), fino ai Neet che ormai hanno rinunciato a qualsiasi “escatologia” del mito della mobilità verticale. Gli autori problematizzano anche l’idea che il ceto medio sia il “baricentro” delle società avanzate, una riduzione di complessità che ha svolto per tanto tempo una funzione promozionale delle società a capitalismo avanzato. A tale prospettiva essi preferiscono un quadro più composito basato sull’idea di un “pluralismo conflittuale”. 

L’élite attuale prosegue la missione della vecchia vocazione distintiva (alla Bourdieu) basata sul “contare, contarsi e annettersi” e lo fa oltre che attraverso la classica legge del consumo vistoso, anche nell’esaltazione del merito, non a caso recentemente inserito dal nuovo governo nella denominazione del Ministero dell’istruzione. La logica meritocratica prevale nell’iter formativo delle élite globali che hanno ormai rimosso il suo retaggio illuminista e borghese, per prediligere la dimensione dello status che consente loro di frequentare gli atenei più esclusivi e dunque costosi del mondo (MIT, Harvard ecc.).

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Tale valore è condiviso tanto dalle élite degli stati democratici quanto da quelle delle democrature (p. 12), ma molto meno dalle élite nostrane che si configurano perlopiù come élite locali, che mostrano in tal modo la misura della loro arretratezza. Mentre le classi che hanno guidato il boom economico avevano una capacità di leadership e pedagogica nei confronti dei ceti subalterni, capaci di fungere da collegamento tra porzione e classe creativa come nello sviluppo del design italiano a Milano negli anni cinquanta e sessanta, le odierne élite, come nel già citato Triangle of Sadness, stringono un’alleanza paradossale con la neoplebe che determina una “caduta del linguaggio della classe dominante” che si mostra così sempre più simile alla neoplebe (come quando D. Trump spiegava al popolo: “sono uguale a voi ma sono ricco”).

La sociologia anglosassone ha riflettuto molto sulla categoria di classe creativa a partire da The Polish Peasant in Europe and America di W. Thomas e F. Znaniecky, passando per T. Parsons, fino alla più recente variante neoliberale di R. Florida, in cui i valori della società globalista (tolleranza, fluidità, ecc.) vengono reificati in indicatori quantitativi della concentrazione di ricchezza nelle città americane, come il gay index, il diversity index, il bohemian index ecc. 

Neoplebe è il termine adottato da Perulli e Vettoretto per indicare l’attualità di uno strato sociale subalterno che più degli altri s’identifica nei leader populisti e sovranisti. Rispetto a queste due classi al vertice e alla base della nuova gerarchia sociale in una alleanza paradossale che sembra permeare e condizionare tutta la realtà sociale immobilizzandola, Perulli e Vettorello scommettono proprio sul futuro della classe creativa che cavalcando lo sviluppo di robotica, dell’intelligenza artificiale e delle piattaforme, potrebbe guidare la transizione ecologica e quella tecnologica della Quarta Rivoluzione Industriale. In altri termini l’alleanza con i lavoratori della gig economy, delle università e con le donne in generale, dovrebbe condurre la classe creativa a governare la società del futuro. Una profezia plausibile ma non del tutto auspicabile, se pensiamo alle attuali tendenze del mercato. 

La figura di Elon Musk mostra oggi quanto sia controversa e attualissima tale tematica. L’immagine dell’imprenditore sudafricano fonde in sé elementi caratteristici della super-élite finanziaria, della classe creativa e di un certo populismo dal basso. Tale prospettiva supera il conflitto culturale, consolidatosi a partire dalla vittoria di Donald Trump nel 2016, tra l’apertura globalista della Silicon Valley e la chiusura retrotopica del sovranismo americano. Da innovatore, visionario transumanista e geek con venature cyberpunk, il genio controverso della Silicon Valley ha assunto tratti distintivi di un neoliberismo spietato sia nei confronti degli addetti interni che degli user di Twitter.

Secondo Clare Duffy di CNN Business, Musk ha usato un linguaggio populista per comunicare tale iniziativa che rappresenta una rottura “dell'attuale sistema di signori e contadini di Twitter”. L’idea di far pagare otto euro al mese per l’accesso al celebre social medium potrebbe lanciare un trend potenzialmente imitabile dagli altri social, fino a far saltare la matrice “digital socialista”, per dirla alla Kevin Kelly, che ha assicurato decenni di gratuità del web. Assommato alle innovazioni della blockchain, delle cryptovalute e agli NFT, tutto ciò potrebbe riconfigurare il mondo della comunicazione tramite una tendenza alla monetizzazione spinta.

Uno dei capolavori dell’arte NFT è infatti The Passion of the Elon, che ritrae l’uomo più ricco del mondo sulla croce, con indosso una tuta da astronauta, mentre è circondato da un gruppo di scimmie che giocano sul fondo dell’immagine. Un sincretismo culturale tra L’ascensione di Cristo del Perugino, quello di Dalì, la famosa scena di apertura di 2001: Odissea nello spazio, e le scene finali del film: dalla scoperta del pollice opponibile, passando per il lancio dell’osso che diventa astronave, fino al delirio dell’astronauta che torna a casa dopo il viaggio joyciano fuori e dentro sé (che ricorda anche Bowie appeso al muro nel video di Ashes to Ashes del 1979).

Non appena messe le mani su Twitter, il magnate visionario che ha indicato la via verso Marte, si è comportato come il più retrogrado degli impresari, con un’ondata di licenziamenti massivi di circa 7.000 addetti, tra l’altro comunicandoli via email. Dai tagli forsennati al personale di Twitter all’endorsement postideologico nei confronti dei Repubblicani, il passo è stato brevissimo. La Routers ha dato l’annuncio del suo Tweet, postato la sera prima delle elezioni midterm sul suo profilo seguito da 110.000.000 di utenti: “La condivisione del potere frena i peggiori eccessi di entrambi i partiti, quindi consiglio di votare per i Repubblicani, visto che la Presidenza è democratica”, aggiungendo di essere “propenso all’idea di votare di nuovo i Democratici in futuro”.

A ben vedere, setacciando le interviste online, divenute pillole per Tik Tok e Instagram, emergono vari segnali di questa deriva populista. Come ad esempio l’idea secondo cui le Università non hanno più alcun senso in un mondo in cui tutte le conoscenze sono rese immediatamente accessibili tramite la rete (simile all’uno vale uno nostrano). Un populismo pedagogico che entra in netta contraddizione con l’immagine dell’imprenditore illuminato che ha fatto della scienza e della sostenibilità il suo business, fino a sostituire con investimenti privati il ruolo del capitale pubblico nella progettazione delle imprese aerospaziali. Lo stesso look di Musk, austero e informale con sporadici innesti di futuribile, espande il sostanziale stile normcore tipico degli altri leader della Silicon valley (da Steve Jobs a Zuckerberg).

Il rifiuto stesso di orologi e accessori di lusso (“il mio telefono mi dice l’ora”), indica un minimalismo che rinnega i valori tipici della classe a cui appartiene, ricordando altri grandi imprenditori come Marchionne con il suo maglioncino rassicurante. Tale logica, che chiamo airbag cognitivo, è molto simile a quella che consente ai partiti di sinistra di implementare politiche neoliberiste senza sollevare particolare dissenso, come con le liberalizzazioni di Blair o con il Jobs Act renziano, oppure alle leadership femminili di caratterizzarsi per iniziative più che maschili, come Margaret Tatcher con la guerra nelle Falkland.

Il superamento del conflitto culturale tra Silicon valley e classi creative da un lato, e formazioni populiste dall’altro, potrebbe aprire nuove prospettive di sviluppo alla società del futuro. Non tanto nella direzione di una neorepubblica platonica governata dai nuovi sapienti, quanto piuttosto nell’espansione di una struttura flessibile e on demand, in cui l’accesso alla conoscenza sarà sempre più decentralizzato ma anche sempre più monetizzato dalle piattaforme e dalla blockchain. 

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