Impaludati tra le piattaforme

13 Giugno 2023

Agli antipodi dei sacerdoti della Quarta Rivoluzione Industriale, che proseguono le politiche neoliberiste con altri mezzi, si colloca una schiera di pensatori critici che mettono in discussione la sostanza stessa attraverso cui il nuovo capitalismo delle piattaforme sta modificando le nostre esistenze. Tra questi spicca il lavoro di Geert Lovink, con il suo ultimo Le paludi delle piattaforme (Nero Edizioni, 2022) pubblicato nella versione italiana con una interessante veste grafica che rievoca in versione pop e DIY le estetiche mostruose dei vecchi b-movies horror anni ottanta, in cui l’autore articola una critica nei confronti del nuovo sistema di potere/comunicazione. Il testo affronta il cambiamento di prospettiva da quando il focus dell’analisi era posto sul mondo dei social network, come in Ossessioni collettive (Lovink 2012), a quello delle piattaforme. Il testo presenta anche una metariflessione sulla scena degli intellettuali che criticano le piattaforme, ormai diventato una sorta di sport internazionale, che ha preso piede dapprima negli Stati Uniti, con una vasta schiera di maschi, bianchi, intellettuali come A. Keen, J. Lanier, D. Rushkoff, che hanno preso di mira il mondo perverso della rete, per poi espandersi al femminile e alla critica femminista come nel caso della Zuboff e della Crawford.

Sin dall’introduzione, Lovink si cimenta con i concetti chiave del nuovo mondo, con particolare enfasi posta sul passaggio dalla logica dell’essere “disruptive” alla stagnazione, ovvero lo slittamento dall’esaltazione di un’obsolescenza estenuante ed incessante imposta ai prodotti, alle pratiche sociali e agli stili di vita, a un senso di impaludamento che è caratteristico del nuovo sistema di potere. Tale condizione rappresenta una sfida nei confronti del pensiero critico producendo una sorta di “illuminismo torbido” che impedisce lo sviluppo di una “tecnoimmaginazione radicale” capace di inventare pratiche alternative, laddove il pubblico degli user viene sommerso da Fake News, Cancel Culture e Cyberwarfare. 

La medesima aporia tra cambiamento incalzante e senso diffuso di stasi, di immobilità, appunto di impaludamento, è dato dalla cosiddetta “Fatigue”, termine divenuto famoso nel corso della crisi pandemica e che poi è stato riadattato al rapporto tra utenti e piattaforme, soprattutto per enfatizzare l’ipertrofia dei contenuti a cui l’utente va incontro senza talvolta essere in grado di scegliere cosa consumare. Una versione avanzata di quello che negli anni settanta Alvin Toffler definì come il paradosso dell’iperscelta. Un altro aspetto chiave della riflessione di Lovink è la critica della Cancel Culture attraverso una prospettiva che ricorda McLuhan in Dal cliché all’archetipo (1974) quando sottolineava la sostanziale appartenenza se non addirittura la derivazione dell’intera controcultura hippie dal mondo televisivo.

In modo pressoché analogo Lovink considera la cancel culture un tratto peculiare della capacità di editare relazioni sociali e identità online tramite i social. Tradotto: “Nell’era delle piattaforme, cancellare significa togliere l’amicizia a determinati individui, smettere di seguire determinate aziende o boicottare prodotti specifici… se non puoi batterli, bannali” (Lovink 2022). Quest’idea di poter rimuovere le relazioni con alcuni soggetti dai propri contesti comunicativi, deriverebbe in realtà dal mondo del business e delle transazioni digitali. Un tempo difatti, secondo l’autore, l’oggetto della cancellazione erano prenotazioni oppure carte di credito, mentre oggi in tale categoria rientrano soggetti contemporanei o storici, situazioni, prodotti culturali, interi periodi storici ecc.

Tutto ciò potrebbe arrecare un danno enorme agli attivisti che, credendo di introdurre una nuova rivoluzione, si esporrebbero invece a un “hype isterico” che si moltiplica precipitosamente e infesta diversi settori della vita culturale, specialmente a sinistra. Il che rende paradossale tale connotazione, dato che certamente anche parecchi movimenti di destra sono cresciuti all’interno delle galassie comunicative create dai social, ma non soffrono allo stesso modo di tale sindrome. Il chiaro conflitto tra movimenti populisti e la cultura alimentata dalle piattaforme è un argomento che dovrebbe essere discusso in modo più approfondito. 

Anche il mondo dell’arte, già ampiamente investito dal marketing, dal branding e dalle strategie di commercializzazione, subisce un forte impatto dalle logiche della blockchain e degli NFT. Lovink intravede una continuità tra il nuovo hype degli NFT e quello “classico” delle start up anni novanta, dato che già trent’anni fa le dot com miravano a reinvestire tutti i propri ricavi nel mondo del digital. Allo stesso modo il sogno della criptoarte oggi promette agli artisti “una marea di soldi gratis” facendo credere loro di essere destinati alle alte sfere del mercato. Lovink insiste sulla carenza di una critica sistematica al mondo finanziario, sviluppata dal marxismo (ad eccezione di Il capitale finanziario di Rudolf Hilferding considerato come il quarto volume del Capitale di Marx). La logica della blockchain, delle criptovalute e degli NFT spinge il ragionamento sul potere finanziario, fino alle sue più estese conseguenze.

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Gli NFT provano a reinserire attributi della vecchia economia nei processi di decentralizzazione delle forme di valore. Essi si basano sul presupposto che “la scarsità è una cosa buona e deve essere reintrodotta” (ivi, p. 149). La blockchain sposta il focus dal problema dell’autenticità dell’opera a quello dell’autenticazione (Barile 2022) cosicché il suo “valore è iscritto nell’opera ed è leggibile dalle macchine” (Lovink 2022). Di particolare interesse è la riflessione sulle diverse tendenze estetiche degli NFT, la cui classificazione diventa una impresa di particolare interesse: “meme, anime, carte Pokemon e simili” (ivi), in sintesi una sorta di oscillazione tra retromania e “weird creativo”. In ultima analisi, è encomiabile, anche se non del tutto efficace, il tentativo di applicare al mondo delle piattaforme una tradizione filosofica che da G. W. F. Hegel a M. Horkheimer ha dato fondamento alla teoria critica.  

La blockchain precede verso la creazione di un'unica ontologia phygital in cui tutto può essere sussunto dalla logica dei Big Data, mentre gli aspetti qualitativi vengono trasformati in informazioni quantitative da elaborare, prevedere e monetizzare tramite gli algoritmi. Mentre i profeti della Quarta Rivoluzione Industriale considerano la blockchain e il suo potere di decentralizzazione uno dei punti di svolta del cosiddetto Web 3, questo perché “bitcoin e valute digitali si basano sull'idea di un meccanismo di fiducia distribuito chiamato ‘blockchain'” (Schwab 2016), altri studiosi considerando tale innovazione una tecnologia radicale che produce “istituzioni postumane” (Greenfield 2017).

A tal proposito potrebbe essere utile recuperare le famose previsioni di Jean Francois Lyotard (1979) sul destino del sapere nelle società informatizzate, che trovano conferma nell'attuale trasformazione tecnologica. Infatti – il sapere – scrive Lyotard: “è e sarà prodotto per essere venduto, ed è e sarà consumato per essere sfruttato in un nuovo tipo di produzione: in entrambi i casi per essere scambiato” (1979). Se la cultura degli anni Novanta, fortemente influenzata dalla controcultura californiana, ha stabilito che i contenuti online dovessero essere condivisi gratuitamente, le attuali tendenze del web insistono su uno sfruttamento economico diffuso delle piattaforme (come sottolineo nel mio articolo su Elon Musk per doppiozero). In questa strana curvatura della storia, l'utopia anarchica e postcapitalista della blockchain afferma ed espande l'ideale neoliberista che si basa sulla privatizzazione totale dell’esistente.

Una possibile exit strategy dal processo di valorizzazione economica dell’arte tramite le nuove tecnologie è lo Stacktivismo: ultima frontiera del pensiero radicale ed evoluzione del vecchio hacktivismo anni novanta-duemila. Si tratta al contempo di una nuova vocazione hegeliana alla totalità che si scontra con la concezione analitica e tecnicista delle piattaforme. Esso esprime anche una nuova epistemologia non-razionale che “rende visibile l’assenza” (Lovink 2022). Ricorre spesso in queste pagine l’idea di “unire i puntini”, ovvero di sviluppare una consapevolezza olistica delle piattaforme, capace di integrare le quattro dimensioni fondamentali dell’utente nella fase avanzata dell’Antropocene: il Cloud, la città, l’indirizzo, l’interfaccia. Peccato che l’autore di questo manifesto, che a detta di Lovink mira a progettare una “Stack pubblica” capace di smantellare i monopoli, sia lo stesso Benjamin Bratton, già direttore dell’Istituto Strelka di Mosca, finanziato da oligarchi di quel paese che nell’era della deglobalizzazione, riscuote copiosi consensi da parte di intellettuali e militanti delle sinistre occidentali.

La metafora dell’unire i puntini, che in Italia conosciamo bene grazie alla Settimana Enigmistica, non ci aiuta tanto a comprendere il rapporto tra totalità ed elementi che la compongono, quanto semmai la contrapposizione tra due visioni totalizzanti, tra due paradigmi alternativi che si polarizzano drammaticamente, facendo saltare in aria la stessa possibilità della dialettica. Questo è il grande rischio a cui oggi vanno incontro le controculture della sinistra radicale: “unendo i puntini” all’interno di uno dei due paradigmi, quello antiscientista e antioccidentale, non fanno altro che contribuire all’inasprimento della polarizzazione.  

Riferimenti 

Abruzzese A., Forme estetiche e società di massa, Marsilio, 1973.
Barile, N., Communication in the new hybrid ontologies: from platform to the metaverse, Milan, Bocconi University Press, 2022.

Greenfield, A., Tecnologie radicali. Il progetto della vita quotidiana, Einaudi,
Lovink, G., Le paludi della piattaforma, Nero Edizioni, 2022.
Lovink, G., Ossessioni collettive. Critica dei social media, Egea, 2012.

Lyotard, J. F., La condizione postmoderna, Feltrinelli, 1979.
McLuhan, M. H, At the Moment of Sputnik the Planet Became a Global Theater in Which There Are No Spectators but Only Actors, Journal of Communication, 24(1), 48–58, 1974.
Schwab, K., The Fourth Industrial Revolution, Crown Business, 2016.
Toffler, A., Lo choc del futuro, Rizzoli, 1972.
Id., La terza ondata, Sperling & Kupfer, 1987. 

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