20 giugno 2015 / Paolo Poli: pezzi, contraddizioni, scarti

20 Giugno 2019

È il 20 giugno 2015, la scena si apre sullo studio dieci della rai in via Teulada a Roma. Uno studio piccolo, un po’ a scatola, con tanto soffitto, pareti azzurre retroilluminate, un grande schermo, delle seggiole e un pianoforte bianchi. L’inquadratura porta su una tenda rossa di velluto, di lato: da lì esce Paolo Poli. Evocato dal composto e grazioso Pino Strabioli viene avanti un vecchio alto, con il papillon, canuto, scarpe lucide, le gambe molto secche. Bello, bellissimo – come da più parti definito nei decenni –; difficile, complicatissimo, come ne parlarono in epoche diverse Rodolfo di Giammarco e Mariapia Frigerio. Conduce il suo ultimo programma, ci avrebbe lasciati nemmeno un anno dopo. È anche il primo programma tutto suo dal tempo di Babau ‘70, registrato nel 1970 e mandato in onda solo sei anni più tardi. 

 

Il lupo non ha perso il vizio, anzi ha deciso di scriverci sopra otto puntate di una trasmissione che si chiama, in onore di Aldo Palazzeschi, “E lasciatemi divertire”. Ogni puntata è dedicata a un vizio capitale, e l’ultima è un elogio del peccare. Strabioli fa il conduttore, il domatore, l’amico, l’allievo. Due cose che fissano l’organizzazione di tutte e otto le puntate sono Poli che legge Boccaccio e recita Palazzeschi. Interpretazioni strabilianti, con cui rubare qualcosa di questo genio rapido e bizzoso. Per il Decameron va davanti a un leggio e si mette gli occhiali: nella puntata sulla gola Federigo degli Alberighi sacrifica il suo animale più caro, oggi per noi un cagnetto o un gattino, per far mangiare quella di cui si è innamorato. Per Palazzeschi Poli va a memoria: nella puntata di chiusura recita una splendida poesia sul meretricio (prostituzione di tutti i sessi) dei fiori. 

 

Avvicinato a David Bowie, accostato persino a Roland Barthes, che lui leggeva, messo accanto a Pier Paolo Pasolini per il ruolo che ha avuto nella cultura italiana del secondo Novecento, è andato in scena con più di quaranta spettacoli, attingendo, insieme a Ida Omboni, a una sterminata vastità letteraria e musicale. L’ultimo spettacolo l’ha fatto nel 2012 su Pascoli, “per pigrizia”, mentre dell’altro illustre contemporaneo Guido Gozzano, ha detto che gli piaceva “quel firmarsi minuscolo guidogozzano, anch’io ogni tanto mi firmo paolopoli, come se fossi una città greca”.

La canonizzazione di Poli si è svolta forse in due atti: un primo quando nel 1978 vide la luce una nuova edizione dello spettacolo teatrale Rita da Cascia, che godette molto felicemente della fama datagli dalla censura; un secondo atto, a partire da dieci anni fa, cioè da un libro pubblicato nel 2009 per i tipi di Giulio Perrone Editore. Il titolo era Siamo tutte delle gran bugiarde, il biografo un brillante scrittore umbro, Giovanni Pannacci, e il contenuto una serie di memorie del nostro, tra l’efferato, il lirico e l’esilarante. Vi si apprendeva sia che l’attore amava Chagall, Bacon e la pittura più di tutte le altre arti, sia che in vecchiaia apprezzava anche l’architettura poiché “non potendo più penetrare le persone, penetro il Pantheon”. Sebbene il libro presentasse un percorso interessante e documentato sul lavoro teatrale di Poli, spiccava la sua pronunciata vena aneddotica  e sbirciare tra gli episodi della sua storia personale risultava oltremodo gustoso. Persino troppo. 

 

 

C’è infatti chi ha lamentato che Poli fosse “logorroico” e avesse dato vita a una “mitopoiesi” dai tratti “ripetitivi”, un racconto del sé divenuto “recita inflazionata”.  Non siamo d’accordo, ma è vero che quella biografia così buffa mise in moto un fenomeno agiografico. Poli fu ospite alla Rai di Fabio Fazio, quattro volte, sulla 7 di Daria Bignardi, e poi fu protagonista di una puntata di una trasmissione condotta da Strabioli nel 2014, “Colpo di scena”, nonché di un secondo libro-intervista in cui sempre Strabioli lo portava a pranzo per quasi due anni e registrava i suoi racconti, Sempre fiori mai un fioraio.

La voglia di parlare di lui è una fame difficile da saziare, come dimostra uno speciale di Raitre realizzato a un anno dalla morte, “Quella donna ero io”, in cui con un’impressionante partecipazione una galleria di critici, attori e conduttori piange la perdita e se possibile la avversa. C’è Riccardo Muti, il direttore d’orchestra, che ricorda in modo nitido come Poli una volta l’avesse oscenamente pescato dal palco con una canna da pesca sulle note di “Pesciolino mio diletto vieni”, furto che Poli sostiene di aver compiuto a partire dalle performance di Maria Campi. Ci sono tra gli altri Corrado Augias, Natalia Aspesi, Filippo Timi, Marco Messeri, Arturo Brachetti, Lucia Poli; c’è anche Rodolfo di Giammarco, che forse è stato il più abile, il più profondo interlocutore di Poli. È sua infatti la prima idea di un archivio: nel 1985 di Giammarco curò un saggio critico, edito da Gremese, dove compilava un ritratto acuto, Poli è “un alfabeto che danza”, e riuniva la rassegna stampa dei commenti ai suoi spettacoli, primo notevole altarino che non bisogna correre il rischio di dimenticare. 

D’altronde c’è anche chi forse se l’è goduta più di tutti: è Luca Scarlini, curatore per Einaudi, nel 2013, di un Alfabeto Poli ottenuto da un’immersione, che è anche una cura di bellezza, nello sbobinamento di interviste e letture di articoli e conversazioni. Poli, “comunista e pederasta”, l’abbiamo dunque esaurito? Giammai! Su Doppiozero Scarlini stesso nel 2016 invitava a iniziare un lavoro per “definire l’integrale della sua attività”. 

 

A questo punto vorremmo marcare un avviso. Incitare alla foga, ma suggerire la prudenza. A Poli piaceva Umberto Eco, lo recitava in “Babau ‘70”, adattava con lui Queneau per il teatro, lo spettacolo era “Bus”, sempre in “Babau ‘70” dialogava con lui di conformismo, in radio per lui fu Erostrato, nella serie di “Le interviste impossibili”. In una delle ultime riflessioni – Eco, Poli e un altro monumento del teatro del Novecento, come Fo, se ne sono andati nello stesso anno – Umberto Eco dichiarò che la vita serve solo a mettere insieme un passato e a dargli un senso. Una delle frasi più scientifiche della sua lunga produzione scientifica. Per parte sua, nel libretto di sala di “Giallo!!!”, con Omboni Poli scriveva: “Campare è una specie di indagine piena di suspense e piuttosto faticosa, visto che il geniale poliziotto non è mai lì a darci una mano, e solo lentamente, tra continui voltafaccia, colpi di scena e occasionali spaventi, veniamo a sapere chi siamo noi, chi sono gli altri e cosa diavolo sta succedendo”. 

 

Nell’intreccio di queste due sagge dichiarazioni sta forse il consiglio. Non bisogna cercare un solo Paolo Poli, un’essenza, una faccia, perché di sé le cose lui le ha dette a pezzi, per contraddizioni, in scarti continui l’una rispetto all’altra. Se Poli si diverte a pensarsi a volte come una città greca, assomiglia anche a un’orchestra barocca, viva di ritardi, tessuta nelle stonature, attuale perché sbilenca. È vero che la madre di Poli era una maestra montessoriana che lo crebbe restando devota a Rousseau, ma è vero anche che per lui Rousseau era “una scema” che “credeva alla spontaneità”. È vero che l’anno in cui fece il professore di francese a Firenze portò le sue allieve liceali a conoscere le professioniste del sesso in un casino di lusso, appena prima della legge Merlin, ma è vero anche che per questa visita comprarono “uno champagne schifoso”. Laura Betti, sua sodale di lungo corso, gli mancava, ma è vero anche che “da vecchia era diventata insopportabile”. E forse tutto è chiarito dal fatto di esser stato cresciuto da una nonna geniale, che a volte è bellissima, nei suoi ricordi, e altre è orrenda, la quale nonna il giorno in cui sua figlia diventò vedova, – perché il padre di Poli morì quando lui era un ragazzino e sua madre ancora giovane – , da una parte cercava di staccare la propria figlia dalla veglia del suo uomo, dall’altra avrebbe dichiarato: “Oggi farò le cotolette alla milanese, ai bambini piacciono tanto. E i bambini debbono mangiare!”. 

 

In “E lasciatemi divertire” c’è anche un momento più bizzarro, profondamente anacronistico, durante il quale Poli parla del santo del giorno secondo il calendario cattolico. Nell’ottava puntata, l’ultima, Poli parla di San Lorenzo, “che per far dispetto al Papa predicava alle bestie”. Inoltre giunto alla fine della sua vita Lorenzo “poteva benissimo morire zitto, e invece no, ha voluto la graticola, e dice – Signori, da questa parte sono già cotto, voltatemi di là, e mangiatemi pure –”. 

Noi Poli mangiamolo pure, è questo che ha predicato per tutti i rimasti, ma farlo in modo scemo sarebbe un peccato tremendo. Non faremmo onore a un’altra stupenda intervista in video del 2009, a firma di di Giammarco, “I mille mondi di Poli” in cui Poli, spontaneamente “scema”, come Rousseau, a un certo punto ride: – Tagliaaa tutto. Tutto ciò che è personale –.

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