Parla proprio di noi / Perché insegnare letteratura (e non solo agli studenti di Lettere)

13 Marzo 2018

Insegno Letteratura italiana contemporanea da parecchi lustri, ma per una serie di circostanze che ora non è il caso di ripercorrere non mi è mai capitato di trovarmi in un corso di laurea in Lettere. Gli studenti con i quali ho a che fare non hanno interessi prevalentemente letterari; in molti casi, non hanno affatto interessi letterari. La letteratura occupa una posizione marginale nel loro orizzonte mentale. Analogamente, un’ipoteca di marginalità pesa sull’immagine che noi stessi docenti (italianisti e contemporaneisti) tendiamo ad avere degli insegnamenti letterari inseriti in corsi di laurea il cui focus formativo punta altrove.  

 

Ovviamente esiste sempre la possibilità di declinare gli insegnamenti letterari in una chiave prossima agli interessi degli studenti. Ad esempio, insegnando (come a me è avvenuto per anni) in un corso di laurea di Scienze dell’Educazione, ci si può soffermare sull’immagine di certi ambiti sociali o di certe condizioni esistenziali; si possono scegliere testi che parlano non solo di minorazione fisica o psichica, di emarginazione, di carcere, ma anche di dinamiche familiari, di rapporti fra le generazioni, di Bildungsroman. Il punto è però che intercettare un orizzonte tematico non basta. Occorre anche trasmettere il senso dell’importanza specifica della letteratura. Dal momento che le medesime questioni potrebbero essere affrontate da altre prospettive, occorre chiedersi che cosa la letteratura offra di più o di diverso; e, nelle nostre intenzioni, di utile, di prezioso, di insostituibile. 

 

Proprio dove la letteratura sembra avere carattere (per dir così) periferico, si è indotti, più facilmente che altrove, a misurarsi con la sua stessa ragion d’essere: cioè sul senso della presenza della letteratura all’interno di una cultura o di una formazione di civiltà. Di qui la percezione che il compito – non dirò il mandato – di chi insegna letteratura sia in primis un atto di elementare persuasione verso gli studenti. La letteratura in quanto tale ha qualcosa di importante da dire: anche oggi, anche qui; e qualcosa che non può essere detto altrimenti. Se fossimo davvero capaci di farlo comprendere, insegnamenti letterari sarebbero presenti non solo nei corsi di laurea riconducibili alle dismesse facoltà di Lettere, o di Lingue, o di Beni culturali; non solo nei più recenti corsi di laurea in Scienze dell’Educazione, Comunicazione, Mediazione culturale, Formazione primaria: ma anche a Sociologia, Psicologia, Giurisprudenza. 

Per proseguire devo almeno accennare a una questione di enorme portata, cioè alla differenza tra il sapere umanistico e le scienze naturali. Fra il tipo di ricerca che faccio io e quello che fanno i colleghi chimici, fisici, biologi intercorre, mi pare, una differenza essenziale (evito di proposito i riferimenti a campi disciplinari in qualche modo di frontiera, come la psicologia o l’economia, che richiederebbero un discorso diverso). Salvo eccezioni, ovvero al netto dei cambiamenti epocali per i quali è stata coniata l’espressione «cambio di paradigma», il sapere prodotto dalle scienze dure ha carattere cumulativo. Per effetto delle ricerche, il dominio dei fenomeni scientificamente spiegabili si estende in maniera progressiva e ininterrotta.

 

Oggi ne sappiamo più di ieri e di ieri l’altro, domani ne sapremo di più ancora, e così via. Per il vero, si estende anche, in proporzione – e questo è ben più di un effetto collaterale – la consapevolezza delle cose che sfuggono alla nostra comprensione: quanto maggiore è il numero di cose che impariamo, tanto più grande è il numero delle cose che ci accorgiamo di ignorare. È tuttavia fuor di dubbio che noi sappiamo sulla struttura della materia o sulla variabilità genetica molto di più di quanto non sapessero i ricercatori più autorevoli di un secolo fa. E questo è il motivo per cui le bibliografie degli articoli scientifici non si spingono mai molto indietro nel tempo, mentre noi letterati seguitiamo impunemente a citare non solo Giacomo Debenedetti o Francesco De Sanctis, ma anche Aristotele o Sant’Agostino. Nella scienza propriamente intesa le conoscenze via via acquisite si sommano e si saldano, come i mattoni di un edificio, mentre da noi le cose non stanno così. Non esattamente. Non principalmente.

  Si dà progresso, negli studi letterari? Sì, in parte, ma in parte soltanto: e non sono sicuro che sia quello l’aspetto decisivo. Lo studio della letteratura – e questo vale anche per altri ambiti, ad esempio per la storia – produce un sapere diverso. Esistono anche, inutile dirlo, le pure scoperte, le vere e proprie acquisizioni. La pubblicazione di un epistolario, l’allestimento di un’edizione critica, la composizione di una biografia, l’accertamento di dati storici o testuali rappresentano estensioni oggettive delle conoscenze. Però il nocciolo della nostra attività ha a che vedere con l’interpretazione e con la valutazione: ossia con qualcosa di decisamente più problematico, di più provvisorio e aleatorio, di opinabile, di contingente. Poniamoci una domanda: c’è ancora qualcosa da dire su Leopardi, su Manzoni, su Dante?

 

La risposta non può essere che sì. Sì, certo: non finiremo mai di rileggere la Commedia, i Canti, i Promessi sposi, e tante altre opere sulle quali in astratto dovremmo aver già appreso tutto quello che c’era da apprendere. Ma qui sta il punto: l’interpretazione letteraria non è un lavoro astratto. Ogni atto interpretativo costituisce una rivendicazione di attualità, una proclamazione di pertinenza rispetto a problemi del presente; ovvero, rispetto alla produzione viva, consiste in attribuzioni di valore che non possono non essere, pressoché di norma, controverse. Per questo è non solo inevitabile, ma giusto e appropriato che i discorsi sulla letteratura in parte si sovrappongano o si contraddicano, corroborandosi o smentendosi vicendevolmente, e in parte riprendano cose già dette, non importa se mesi, anni o secoli fa. Il nostro lavoro consiste in buona misura nel riformulare temi e argomenti già avanzati più o meno chiaramente in passato: i quali, posti sullo sfondo di orizzonti storici o concettuali inediti, collocati in una differente rete di relazioni, inclusi in contesti diversi, espressi con parole nuove, acquistano una nuova forza esplicativa. Più che alla conquista di territori inesplorati, ci dedichiamo a un lavoro di rielaborazione e ripensamento, di contestualizzazione, di taratura. Siamo impegnati a conservare, non meno che a innovare. Del resto, studiare un testo o un autore equivale in ultima analisi ad affermare o a ribadire che vale la pena di leggerlo. Implicito alla critica letteraria è un gesto ostensivo: guardate, vi mostro come e perché quest’opera merita la vostra attenzione. 

 

Detto altrimenti: oggetto della ricerca non sono tanto fatti o fenomeni, quanto relazioni: nelle quali il soggetto – i lettori, cioè noi – siamo direttamente coinvolti. Per inciso, in campo letterario avviene poi anche un altro fenomeno. In certe sue espressioni privilegiate, la critica diventa a sua volta letteratura, cioè entra a far parte del corpus di testi ritenuti degni di essere tramandati come patrimonio letterario. Inutile fare nomi che ciascuno può indovinare: l’importante è tener presente che su altri orizzonti disciplinari questo non è nemmeno lontanamente concepibile. Nessun trattato di chimica è suscettibile di diventare un fenomeno chimico. Peraltro, è possibile che un testo scientifico, acquisito e metabolizzato dalla disciplina, entri poi a far parte, oltre che della storia della scienza, della storia della letteratura. 

Ora proverò a fare un piccolo esempio della capacità della letteratura di dire quello che ha da dire in una maniera peculiare e, come sopra si diceva, insostituibile. Non per partito preso esterofilo, ma per caso (è uno degli ultimi libri che ho letto), mi richiamerò a un romanzo dello scrittore cinese Yu Hua, Il settimo giorno, apparso nel 2013 e pubblicato da Feltrinelli l’anno scorso nella traduzione di Silvia Pozzi. Il settimo giorno è una narrazione di carattere fantastico-escatologico. Tema è il destino post mortem. I defunti che dispongono di una tomba trovano lì la propria stabile e definitiva collocazione; gli altri vagano invece in una sorta di limbo, dove possono trattenersi, per obbligo o anche per scelta, un tempo indefinitamente lungo. Il protagonista Yuan Fei, dopo averlo scoperto, vaga in questa terra di nessuno tra le altre persone prive di sepoltura, molte delle quali ormai ridotte a scheletri, sperando di incontrare il padre, morto un anno prima. 

 

Opera di Karen Lynch.


Yuan Fei è un trovatello. Abbandonato alla nascita, era stato raccolto da un ferroviere scapolo, Yang Jinbiao, che al figlio adottivo aveva dedicato tutta la sua vita pagando un prezzo abbastanza alto (ad esempio, rinunciando a sposarsi). A un certo punto apprendiamo che è morta anche la donna che aveva salvato la vita a Yuan Fei, facendogli da balia dopo che Yang Jinbiao l’aveva raccolto tra i binari del treno. La donna, di nome Li Yuezhen, è stata vittima di un incidente stradale, avvenuto tre giorni dopo un evento inatteso e (come si vedrà) dirompente. Tornando dal mercato, Li Yuezhen aveva visto da un ponte degli strani pesci portati dalla corrente del fiume. Guardando meglio, si era resa conto che erano corpi di neonati. Ne parla con un giornalista: scoppia uno scandalo; i cadaveri sono decine. Il giornalista finisce per perdere il posto, e quanto a Li Yuezhen, possiamo ben supporre che in realtà sia stata assassinata.

Il romanzo tocca qui questioni sociali di grande rilievo, come gli effetti della politica del figlio unico in Cina, o la persistenza di una diffusa povertà, che fra l’altro causa il fenomeno dell’abbandono dei neonati deceduti per cause naturali da parte delle famiglie, desiderose di risparmiarsi le spese di sepoltura (perciò i corpi vengono trattati alla stregua di rifiuti ospedalieri). Ora, di tutto questo – così come di ingiustizia sociale o di ipocrisia del potere, i temi portanti del romanzo – si può e si deve parlare anche in termini sociologici, antropologici, demografici. Ma solo la rappresentazione letteraria produce un certo effetto. Un effetto legato in grande misura alla sorpresa, perché il tema degli aborti e degli infanticidi arriva al lettore fra capo e collo d’improvviso, lo colpisce alla bocca dello stomaco quando meno se lo aspetta: e lo colpisce non come una questione generale, ma come una possibilità della vita. Di una vita particolare, contingente, nella quale, leggendo, si sta immedesimando: della sua vita, quindi, in qualche modo – anche se si tratta di una vita immaginaria. 

Non è questo l’unico effetto che la letteratura può produrre. Ma per il caso del Settimo giorno potremmo ripetere il brano della lettera del ventenne Kafka già citato da George Steiner in Linguaggio e silenzio:


Se il libro che stiamo leggendo non ci desta, come un pugno che ci martella il cranio, perché allora lo leggiamo? Perché possa renderci felici? Buon Dio, saremmo felici anche se non avessimo libri, e i libri che ci fanno felici potremmo, se ve ne fosse bisogno, scriverceli da soli. Ma ciò che dobbiamo avere sono quei libri che ci piombano addosso come la sventura e ci affliggono profondamente, come la morte di uno che amiamo più di noi, come il suicidio. Il libro dev’essere un rompighiaccio per spezzare il mare gelato dentro di noi.

 

Si tratta, evidentemente, dello stesso problema per cui le statistiche delle stragi delle balene lasciano per lo più indifferenti, mentre la singola balena spiaggiata mobilita decine di volontari che si attivano per salvarla; o, per fare un esempio più canonico – e citando il Primo Levi dei Sommersi e i salvati – la singola Anna Frank commuove più dei numeri vertiginosi dello sterminio. Non esiste proporzione fra la dimensione dei fenomeni e la reazione emotiva. Decisivi sono altri due parametri, che incrociano i precedenti. Innanzi tutto la prossimità dell’evento, o l’efficacia della rappresentazione nel porlo davanti agli occhi (nel renderlo presente); in secondo luogo, la percezione del proprio ruolo soggettivo, della propria (anche solo virtuale) possibilità di coinvolgimento e di intervento. Molti sarebbero disposti a darsi da fare per salvare una persona in pericolo; di fronte a una strage immane è più facile restare attoniti o distogliere lo sguardo (a meno che il trauma non comprometta l’equilibrio psichico). 

Ho parlato di «reazione emotiva», ma l’espressione è fuorviante. La letteratura non è un ricettacolo o una riserva indiana di emozioni o sentimenti; è qualcosa di più e di diverso.

 

La letteratura, in quanto simulazione di esperienze, è la custode della connessione organica fra le nostre facoltà. Non registra solo, né solo produce, scosse affettive (turbamento o entusiasmo, rapimento o abbandono, ilarità o raccapriccio). Provoca anche altri effetti: l’accensione intellettuale, il tendersi della coscienza morale, la sollecitazione a giudicare, lo stimolo della volontà. Qui vorrei citare – ma è ovvio che gli esempi potrebbero essere infiniti – un passaggio del Manzoni, dove il decorso di una logica stringente si accoppia a un’impennata retorica (e solo en passant aggiungerò che per apprezzarla sarebbe utile accostarla alle altre occorrenze di interiezioni nel romanzo). Siamo nella sequenza della peste, subito dopo la processione, voluta e vissuta dalla popolazione come il solo rimedio possibile contro la sciagura (il malefizio, anzi) del contagio, e celebrata con la massima solennità. 

 

Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l'occasione, nella processione medesima. Ma, oh forze mirabili e dolorose d'un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all'infinita moltiplicazione de' contatti fortuiti, attribuivano i più quell'effetto; l'attribuivano alla facilità che gli untori ci avessero trovata d'eseguire in grande il loro empio disegno.

 

Mi rendo conto di avere proposto solo esempi attinenti al registro tragico; un’argomentazione meno succinta dovrebbe metter avanti anche effetti d’altro genere (comici, idillici, patetici, erotici, fantastici). Ma per i nostri fini credo possa bastare.

La letteratura – e con essa gli studi sulla letteratura, che hanno il fine di accompagnare i lettori fin sulla soglia dei testi, come servizievoli sherpa o solerti maggiordomi – la letteratura, a conti fatti, ha meno a che vedere con la scienza che non con la tecnica. Qualcuno forse storcerà il naso; siamo abituati a considerare la tecnica come qualcosa di subordinato, di strumentale e applicativo, cui perciò compete un rango inferiore rispetto ai cieli incorrotti della ricerca pura. Ma la tecnica non va disprezzata, né guardata con sufficienza. Per ragioni etimologiche, innanzi tutto: com’è noto, téchne (τέχνη) in greco significa «arte», ed è lì – in una perizia pratica, in un «saper fare» – che l’arte della parola affonda le proprie radici; comporre una poesia o narrare una storia non è poi cosa troppo diversa dal fare il pane. In secondo luogo perché la letteratura, in quanto simulazione di esperienze, rappresenta una raffinata forma di tecnologia sociale, volta a salvaguardare la coesione e l’autocoscienza di una comunità di parlanti.  

 

Aggiungo un’ultima considerazione. In quanto depositaria dell’unità organica delle differenti facoltà umane, la letteratura può svolgere rispetto al dominio delle scienze umane una funzione di regolazione: può rappresentare cioè qualcosa di simile a un diapason. Non tanto nel senso della frequenza di 440 Hz del la (il La3) prodotto dall’omonimo strumento acustico (la sbarretta di acciaio con due lunghi rebbi paralleli, sulla cui vibrazione si regolano le accordature), quanto nell’accezione di estensione dei suoni. La letteratura rappresenta – potrebbe, dovrebbe rappresentare – per le scienze umane una pietra di paragone epistemologica. Roland Barthes ha parlato nella Chambre claire di mathesis singularis, l’ipotetica scienza dell’oggetto singolo. Ma quello che vorrei dire è leggermente diverso. La letteratura è a mio avviso insostituibile in quanto presidio della possibilità di integrare nello scibile la singolarità vissuta: cioè in quanto modello di come la concretezza empirica, irriducibilmente contingente, particolare, accidentale, fortuita (la vita, dopo tutto, è un susseguirsi di casi e di occasioni), possa diventare sorgente di conoscenza. E di nutrimento: di pane, appunto. Né occorre rifarsi immediatamente al «pane de li angeli» del Convivio dantesco; basta pensare al pane comune, che serve a sostentarsi. E a muoversi. Come dice a Nane Oca il vecchio Omero nel terzo volume della trilogia di Giuliano Scabia, Nane Oca rivelato, «poesia è quando le parole diventano cavalli».       

In questo senso la letteratura è davvero qualcosa che sta su un margine. Un margine che non è confine, né tanto meno periferia (ghetto o hinterland). Il luogo proprio della letteratura è un lembo temporale: il ciglio dove l’avvenire atteso defluisce nel passato, e dove il presente si sporge verso il futuro. Credo che chi fa il nostro mestiere non dovrebbe mai dimenticarlo. La forza della letteratura sta nella sua capacità di parlare di tutto, a tutti. Farlo vedere, farlo sentire: questa, non altra, è la posta in gioco.

 

Questo testo è stato letto dall’autore al seminario “Lector in aula. Didattica universitaria della letteratura italiana contemporanea” che si è tenuto i giorni 22-23 febbraio 2018, presso l’Università degli Studi di Milano.

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