5 per mille

Decamerone 2025

3 Giugno 2025

Finalmente! Un sospiro di sollievo, dopo 35 anni (praticamente, una vita fa). Correva infatti l’anno 1990 quando apparve la versione delle novelle del Boccaccio firmata da Aldo Busi (Decamerone. Da un italiano all’altro, Rizzoli). Come sempre, quando è in gioco il tema della traduzione in lingua moderna di classici dei primi secoli, i commenti si divisero tra favorevoli e contrari: fra chi difendeva il principio della fedeltà assoluta al testo originario, in nome del privilegio tutto italiano di una tradizione letteraria ininterrotta da quasi ottocento anni, e chi sosteneva l’opportunità di andare incontro al pubblico contemporaneo, mettendo il Decameron nelle medesime condizioni delle Mille e una notte o dell’Odissea, disponibili in traduzioni che li rendono facilmente leggibili: mentre il capolavoro del Boccaccio rimane relegato a letture scolastiche, sostanzialmente mai suscettibili di recuperi successivi (salvo ovviamente il caso di chi poi decida di occuparsi professionalmente di storia letteraria).

Personalmente, ho sempre condiviso la seconda posizione. È ovvio che l’accesso al testo originale ha un valore insostituibile; ma dopo tutto noi leggiamo Re Lear, Guerra e pace, L’uomo senza qualità, Essere senza destino, Casa di bambola, e siamo convinti di aver letto Shakespeare, Tolstoj, Musil, Kértesz, Ibsen, pur senza sapere una parola di norvegese, di ungherese o di russo, e senza avere sufficiente familiarità con il tedesco o con l’inglese del secolo XVII: così come possiamo leggere Kazimierz Brandys, Julius Fučík, Aleksandar Tišma, Antónis Samarákis, Pinkhes Kahanovitsch alias der Nister, senza conoscere polacco ceco serbo greco yiddish (cito di proposito alcuni degli autori compresi nella bella antologia curata da Gabriele Pedullà Racconti della Resistenza europea, appena apparsa presso Einaudi). A tacere degli scrittori provenienti da culture più lontane, come Kawabata o Tanizaki, Yu Hua o Mo Yan.   

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Discorsi triti. Sta di fatto che, leggendo il Decamerone riscritto da Aldo Busi, si aveva l’impressione di leggere Aldo Busi, molto più che Giovanni Boccaccio: e allora il senso dell’operazione cambiava radicalmente. L’approssimazione al grande trecentista – che negli auspici dovrebbe valere anche come incoraggiamento a misurarsi con il testo originale – cedeva il passo ad altre ragioni e sensazioni. Ma oggi forse l’impasse è superata. Da pochi giorni è apparso, per i tipi della Nave di Teseo, il Decamerone in italiano contemporaneo allestito da Alberto Cristofori, che credo possa davvero colmare una storica lacuna. L’opera del Boccaccio, che a differenza di tanta altra letteratura dei primi secoli era nata come produzione (anche) di intrattenimento, appare ora restituita alla possibilità di una lettura agevole, continua, ragionevolmente spedita, recuperando un’affabilità che il corso dei secoli e il mutare degli usi linguistici aveva compromesso. L’esigenza, per la verità, è stata avvertita molto per tempo: nell’introduzione Cristofori ricorda l’interessante caso del Decamerone di Giovanni Boccaccio tradotto in italiano moderno ad uso del popolo, edito da Nerbini nel 1906, opera del bibliotecario Ettore Fabietti, originario di Cetona nel Senese, attivo nella Milano socialista di Filippo Turati e legato alla storia della Società Umanitaria (fu, tra le altre cose, direttore del Consorzio delle Biblioteche Popolari).

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Cristofori ha compiuto un lavoro attento, scrupoloso, e soprattutto rispettoso. Consapevole delle difficoltà dell’impresa, è intervenuto con misura e intelligenza. Ad esempio, fatto salvo l’ovvio aggiornamento della morfologia, ha tradotto non solo termini arcaici (meco, adunque, niuno, guatare, palagio, amistà), ma anche parole perfettamente comprensibili il cui spettro semantico ha subìto nei secoli significative alterazioni, come gentile, dubbioso, noia, avvisare, schifo (che significa essenzialmente “disprezzo”), o ingegno (reso a seconda dei casi con “intelligenza”, “intraprendenza”, “astuzia”, “animo”). Ha modulato la conservazione di tratti d’epoca evitando ogni automatismo, e ragionando caso per caso: ad esempio, ha mantenuto i riferimenti alle ore canoniche dove non comportavano difficoltà («passata l’ora terza», II, 6) ma li ha sostituiti con espressioni più trasparenti quando era necessario garantire una comprensione immediata («un sabato dopo il tramonto», anziché «un sabato dopo nona»: I, 1). Ha sostituito locuzioni obsolete e riferimenti opachi al lettore moderno evitando con cura attualizzazioni troppo spinte o invenzioni dissonanti: ad esempio, «era tanto cattivo, che egli non è vero che mai Lippo Topo ne facesse alcun cotanto» (VI, 10) diventa «era un tale disastro che neanche a inventarlo si sarebbe riusciti a farne uno come lui».

Ma il punto decisivo mi sembra un altro. Questa versione delle novelle del Boccaccio è bensì facilmente leggibile da qualunque lettore di media cultura, ma – com’è giusto – non assomiglia affatto a un’opera scritta oggi. L’atmosfera (intendo: l’atmosfera linguistica) rimane quella di un testo d’altra epoca. Ciò dipende essenzialmente da una felice scelta strategica relativa al piano della sintassi, notorio scoglio della prosa boccacciana, che sovente pullula di subordinate e predilige la collocazione del verbo, latinamente, alla fine. Cristofori interviene sull’ordine del periodo, adottando, ovunque possibile, costrutti diretti (soggetto-predicato, reggente a inizio frase), ma non riducendone la complessità, e nemmeno, di regola, la lunghezza. L’occasionale introduzione di punti fermi modifica piuttosto l’interpunzione che non la struttura sintattica. Si prenda ad esempio l’attacco della novella di Tancredi e Ghismonda (IV, 1). Testo originale: «Tancredi principe di Salerno fu signore assai umano e di benigno ingegno, se egli nello amoroso sangue nella sua vecchiezza non s’avesse le mani bruttate; il quale in tutto lo spazio della sua vita non ebbe che una figliuola, e più felice sarebbe stato se quella avuta non avesse». Traduzione: «Tancredi, principe di Salerno, era un signore assai umano e di animo buono, ma nella vecchiaia si macchiò le mani del sangue di due innamorati. In tutta la vita, egli non ebbe che una figlia, e sarebbe stato più felice se non l’avesse avuta».

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Oltre a eliminare una delle inevitabilmente un po’ indigeste riprese col pronome relativo il quale, la versione di Cristofori rimpiazza un se eccettuativo con un ma avversativo, varcando il confine (qui peraltro assai sfumato) fra ipotassi e paratassi: cosa a volte indispensabile, specie dove i gerundi, nell’originale, si moltiplicano. Ecco, nella medesima novella, un brano poco successivo: «E dimorando col tenero padre, sì come gran donna, in molte dilicatezze, e veggendo che il padre, per l’amor che egli le portava, poca cura si dava di più maritarla, né a lei onesta cosa pareva il richiedernelo, si pensò di volere avere, se esser potesse, occultamente un valoroso amante. E veggendo molti uomini nella corte del padre usare, gentili e altri, sì come noi veggiamo nelle corti, e considerate le maniere e i costumi di molti, tra gli altri un giovane valletto del padre, il cui nome era Guiscardo, uom di nazione assai umile ma per virtù e per costumi nobile, più che altro le piacque, e di lui tacitamente, spesso vedendolo, fieramente s’accese, ogn’ora più lodando i modi suoi». La versione tradotta non altera la dimensione dei periodi, né rinuncia alla subordinazione, ma all’occhio del lettore odierno risulta molto più chiara: «E stando col padre in mezzo alle raffinatezze, poiché era una gran dama, e vedendo che il padre, da tanto l’amava, non pensava di darle un nuovo marito, e a lei sembrava sconveniente chiederlo, pensò di procurarsi alla prima occasione un amante di valore. Vedeva molti uomini che frequentavano la corte del padre, nobili e no, come avviene nelle corti, e considerando le maniere e i costumi di molti, più di tutti le piacque un giovane valletto del padre, di nome Guiscardo, molto umile per nascita, ma nobile per virtù e per costumi; e di lui, che vedeva spesso, s’innamorò appassionatamente, in silenzio, affascinata ogni giorno di più dai suoi modi».

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Insomma, al lettore è ora offerta la possibilità di accostarsi a un testo fondamentale della tradizione letteraria italiana (e non solo) senza doversi armare di particolare pazienza, senza esser costretto a investire nella lettura una fatica e un impegno superiori a quelli che richiede, poniamo, una buona traduzione corrente da Molière o Cervantes. Del resto, il repertorio scolastico del Boccaccio – come giustamente ricorda l’introduzione – non va al di là d’una quindicina di novelle: assaggiare le altre ottantacinque non può non riservare sorprese. Starà poi a ciascuno decidere se accontentarsi di una lettura gradevole e spesso divertente (anche se in realtà nel Decameron non mancano i colori oscuri, i risvolti conturbanti, perfino alcune vicende tragiche), o se cogliere i tanti spunti di riflessione che l’opera squaderna, sul piano culturale, storico, estetico, e cercare di approfondirne implicazioni e senso. E almeno a qualcuno potrà venire la curiosità di verificare sul testo originale l’efficacia della prosa del Boccaccio: la varietà del ritmo narrativo, l’assortimento delle trame, l’evidenza delle ambientazioni, la nettezza talora crudele delle battute e delle facezie, l’accorata eloquenza di tante argomentazioni, unito al prezioso sapore del fiorentino trecentesco. Senza dubbio Alberto Cristofori sarà il primo a rallegrarsene.

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