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Vampiro virus / Pipistrelli e epidemie vecchie e nuove

11 Maggio 2020

In tempi di pandemia, all’inizio dello scorso marzo, alcune specie selvatiche come il pangolino o alcuni serpenti, inizialmente indicate come “responsabili” della genesi del nuovo coronavirus sono state ufficialmente “scagionate” dai media. Le notizie più aggiornate hanno puntato l’indice contro i pipistrelli, già ritenuti probabili “serbatoi” del coronavirus della SARS diffusosi tra il 2002 e il 2003.

Il pipistrello non è davvero nuovo a questo genere di accuse. Al di là delle valide motivazioni che vengono addotte per spiegare le ragioni che lo renderebbero “unico” come causa o vettore dello sviluppo di virus, sul piano culturale l’associazione del pipistrello con le epidemie ha una lunga storia in Occidente. In particolare, il pipistrello, in quanto più classica delle metamorfosi animali del vampiro, si ricollega direttamente al nesso esistente tra pestilenze ed epidemie vampiriche in Europa tra Sei e Settecento.

Gli argomenti scientifici che analizzano il ruolo dei pipistrelli in questa nuova piaga contemporanea sono stati, almeno in parte, già analizzati e documentati. Nelle ultime settimane un interessante volume divulgativo, Spillover di David Quammen (Adelphi 2014), ha attirato grande attenzione per aver in qualche modo “predetto” la possibilità della pandemia, affermando che un virus che avrebbe potuto diffondersi da un animale selvatico, verosimilmente un pipistrello, «da un mercato cittadino della Cina meridionale». Come anche il suo autore rimarca in una recente intervista a Wired, non si è trattato di preveggenza ma della sintesi dei risultati di alcuni studi scientifici basata sul collegamento delle tracce delle relazioni esistenti tra uomo e natura nel mondo globalizzato, sul filo di quel passaggio di specie (anche attraverso maiali, zanzare o scimmie) che già da tempo era stato individuato come meccanismo potenzialmente in grado di produrre “The Next Big One”, la prima pandemia del XXI secolo.

Tutto è collegato, come in un’altra intervista (il manifesto, 9 aprile 2020) osserva lo storico delle epidemie Frank Snowden: la distruzione degli ambienti naturali ci porta sempre più a contatto con specie selvatiche; l’enorme crescita demografica, con grandi città e trasporti aerei consente la rapidissima diffusione della malattia. Il rapporto tra pandemia da coronavirus e globalizzazione è strettissimo, quasi paradigmatico.

 

D’altronde, proprio la capacità dei pipistrelli di convivere senza problemi con molte varianti di coronavirus ancora sconosciute potrebbe offrire una chiave per comprendere importanti meccanismi per lo sviluppo dell’immunità umana a quegli stessi virus. Non solo: insieme ad altre specie presenti nell’ambiente, potrebbero diventare vere e proprie “sentinelle” di future epidemie.

Capro espiatorio, alleato della ricerca scientifica che potrà salvarci, sentinella ai margini del mondo che abitiamo o ultimo messaggero che tenta di avvertire l’umanità contemporanea della dissennatezza delle sue scelte: ancora una volta, il pipistrello sembra confermare la possibile ambivalenza dei suoi ruoli simbolici che da vari secoli condivide con il vampiro.

 

Pipistrelli e vampiri

 

Nel periodo in cui in vari paesi dell’Europa orientale si diffonde la grande epidemia vampirica, tra gli anni Venti e Trenta del XVIII secolo, una delle associazioni più ovvie tra demoni e pipistrelli riguarda le abitudini tipicamente notturne di questi animali. Sotto il profilo iconografico, già alla fine del Medioevo il diavolo e i demoni sono comunemente raffigurati con ali di pipistrello.

Nonostante nelle concezioni arcaiche il sole alto nel cielo segni un momento del giorno altrettanto carico di rischi quanto la mezzanotte, principalmente sotto l’influsso del cristianesimo alla luce erano ormai attribuite prevalentemente caratteristiche morali e positive. Si afferma la concezione che spettri, defunti e demoni compaiano con l’oscurità e rifuggano la luce, nascondendosi in luoghi bui, remoti o profondi, come i pipistrelli.

Il volo notturno ha una centralità nell’ideologia stregonesca e nel sabba e, sia pure in maniera disgregata, è presente nell’epidemia vampirica della prima metà del Settecento, quando ormai la Chiesa aveva rinunciato a sostenere la realtà di tali fenomeni.

 

M. Maier, Atalanta Fugiens, Emblema L, incisione di M. Merian, 1617


Il collegamento con il pipistrello è alla base di una delle più antiche estensioni del termine vampiro, usato dal naturalista Buffon per designare una specie (Desmodus rotundus) che si riteneva aggredisse animali e persone nel sonno per succhiare loro il sangue. Questa associazione – rara nella tradizione ma che diventerà sempre più frequente soprattutto nella letteratura e nel cinema – ha un riscontro documentato nel folklore rumeno, secondo il quale un pipistrello, volando su un cadavere, poteva dare origine a un vampiro.

La paura dei morti che ritornano è diffusa in diverse culture folkloriche tradizionali d’Italia, nelle quali però una superstizione del vampiro analoga a quella di altre parti d’Europa può essere desunta solo in modo sporadico. Tuttavia, esseri che “succhiano” il sangue e altri motivi vampirici, nonché la credenza che i defunti possano tornare tra i vivi assumendo forme animali, sono presenti nel folklore di diverse regioni italiane.

 

Proprio la trasformazione zoomorfica del vampiro, da ricondurre al motivo delle metamorfosi dell’uomo in animale, può essere collegata alla credenza nel ritorno dei defunti. Esiste una vasta letteratura, antropologica, storica e demologica, che mostra le profonde connessioni tra animali e aldilà: pensiamo ad esempio al fatto che, in molte culture tradizionali, gli animali rientrano anch’essi tra le figure vicarie dei defunti. Fondamentali osservazioni in questo senso ritroviamo in Il ponte di San Giacomo di L. M. Lombardi Satriani e M. Meligrana (Sellerio, 1996), in cui si registra che, in alcune aree del Mezzogiorno d’Italia, la serpe, la lucertola, la farfalla, la colomba, il rospo, il delfino sono ritenuti animali assunti dai morti come luogo di temporanea reincarnazione. Il gatto nero o il cane nero, lo scarafaggio o la farfalla sono enumerati tra le possibili forme nelle quali il nosferat rumeno si avvicina di notte alle persone addormentate per succhiare loro il sangue. L’associazione si fonda anche sulla rapidità e leggerezza di questi animali che presenta analogie con la levità e la sfuggevolezza che si ritiene caratterizzino le anime dei defunti. Il delfino e la farfalla sono citati in quanto ritenuti «animali funebri» propizi, possibili veicoli delle anime per il mondo dell’aldilà anche in uno studio più antico del De Gubernatis (Storia comparata degli usi funebri in Italia e presso i popoli indo-europei, 1890). 

Un ruolo fondamentale delle trasformazioni zoomorfe dei defunti deriva quindi, a differenza delle metamorfosi vampiriche, da una caratteristica positiva che identifica, in relazione all’habitat zoologico nel quale una cultura si sviluppa, alcune figure benevole “ausiliarie” nel passaggio nell’aldilà

Il carattere negativo attribuito oggi a molti animali è il risultato di una loro associazione a figure ostili di defunti visti come vampiri. Questa deriva di senso verso i possibili significati negativi nel passaggio dal mondo contadino a quello contemporaneo, in fondo, non dovrebbe sorprendere del tutto. Essa sembra procedere di pari passo con la perdita delle strategie di tematizzazione della morte e di superamento dell’evento luttuoso, del sistema di relazioni con i defunti che pervadevano la cultura contadina.

 

Pestilenze e vampiri

 

Il bisogno di trovare capri espiatori, siano essi animali, umani o soprannaturali, alle epidemie (di peste, colera, vaiolo, difterite) che hanno falcidiato l’umanità in epoche passate ha qualcosa da dirci in merito alle reazioni alla nuova pandemia. Qualcuno ha giustamente ricordato, per tempi a noi relativamente vicini, la lezione tratta dal Manzoni nella Storia della Colonna infame.

Il rapporto culturale tra “peste” e “vampirismo” è molto profondo. L’associazione è operata sia dai ceti popolari sia dagli osservatori colti del fenomeno. Esiste una coincidenza storica tra grandi epidemie vampiriche e pestilenze. Tra le testimonianze più antiche, per l’epoca medievale lo storico danese Sassone Grammatico riporta il racconto di un episodio di pestilenza attribuito allo spirito irato di un uomo ucciso in un tumulto popolare, che si placa dopo l’esumazione e la consueta esorcizzazione del cadavere.

Il veleno della «peste vampirica» ci conduce all’interno dell’inquietante e sconvolgente quadro di pestilenze costantemente incombenti e in agguato nelle società tradizionali.

Da qui derivano anche numerosi elementi che saranno in seguito ripresi, andando a comporre le immagini del vampiro letterario. Le pestilenze, sia nella mentalità popolare sia per lungo tempo anche nelle concezioni mediche, venivano in generale associate al fetore della decomposizione. Si deve attenere almeno il XVI secolo affinché inizino, lentamente, ad affermarsi le moderne teorie sul contagio, basate sul contatto con soggetti ammalati e sulla diffusione di microrganismi; sino a quel momento, la spiegazione veniva trovata nella teoria miasmatica risalente a Ippocrate e accettata dalla tradizione aristotelica. Se il vampiro, demone o defunto vendicativo, era responsabile della pestilenza con il suo fetore, il forte odore dell’aglio poteva servire a proteggersene. Chi, in questi giorni, sta vivendo la pandemia di Covid-19 non può fare a meno di notare come, tra le tante fake news diffusesi su internet sia riemersa anche la diceria che mangiare aglio possa aiutare a prevenire l’infezione.

Le interpretazioni delle epidemie come esito di contagio vampirico sarebbero rimaste assai vive tra i ceti popolari dell’Europa orientale per tutto il XIX secolo. Le frequenti carestie che colpivano le comunità contadine tradizionali permettono di individuare anche al di fuori dell’area slava, ad esempio nel Sud d’Italia, situazioni in cui la mentalità popolare indicava come responsabili varie «figure vampiriche».

 

Vampiri, pipistrelli e melanconia: immagini ambigue della cultura occidentale

 

Il vampiro è mutevole, cangiante, errante, ambiguo. Si trasforma, si mimetizza, e s’insinua nelle pagine della letteratura moderna, nelle sequenze dei film, nei meandri più tortuosi della vita quotidiana e del sentire comune. Pur restando inafferrabile, c’è un tratto, un sentimento, di cui il vampiro appare sempre e comunque prigioniero: egli si presenta sempre con un’insopprimibile melanconia. Il vampiro è una delle costruzioni melanconiche più significative della modernità.

Questa caratteristica disvela e allude a un’altra sua essenziale dimensione simbolica della crisi che stiamo vivendo. La relazione tra pipistrello, vampiro e malinconia moderna ha lasciato tracce, nei secoli, in diverse opere figurative, poetiche, letterarie, cinematografiche.

La più famosa rappresentazione di questo sentimento è forse Melencolia i, l’enigmatica incisione di Albrecht Dürer del 1514, in cui, al di là degli elementi principali – l’angelo seduto con il pugno chiuso che sostiene il volto nell’atteggiamento più tipico del melanconico e gli oggetti che rinviano all’ambiguo e inafferrabile universo interiore della melanconia – troviamo sullo sfondo della composizione una remota e monotona distesa marina, immobile e sovrastata dai raggi dell’astro meridiano. Qui, librato in aria con le ali spiegate, un inquietante pipistrello pare sorreggere il cartiglio che dà il titolo all’opera.

Per gli umanisti del Rinascimento il pipistrello rimanderebbe (in senso positivo o negativo) alla veglia notturna, all’insonnia e allo studio che consumano interiormente. Oltre alla classica interpretazione di quest’opera proposta da Klibansky, Panofsky e Saxl, opere successive (Calvesi, 1993) hanno posto l’accento su argomentazioni meno razionaliste, sottolineando il possibile legame tra il pipistrello e la nigredo alchemica. All’interno di una lettura che si basa sull’identità tra melanconia (alchemica) e nigredo e sul contrasto tra la luce e la tenebra, il pipistrello appare simbolo del momento notturno della putrefactio, ovvero della melanconia stessa.

 

A. Dürer, Melencolia I, 1514.


In un’ideale sequenza cinematografica, in controcampo all’immagine del pipistrello di Melencolia I, potrebbe essere montata l’immagine rallentata del vampiro-pipistrello che plana sulla superficie del mare, verso le sue vittime, nelle scene iniziali del Nosferatu di Herzog, annunciando l’arrivo del melanconico vampiro interpretato da Klaus Kinski.

Un possibile raccordo tra queste immagini sul filo del collegamento tra pipistrello-vampiro-melanconia potrebbe venirci da alcuni versi di Baudelaire come, tra gli altri, l’ultima quartina del celebre Héautontimorouménos:

 

Sono del mio cuore il vampiro,

– uno di quei grandi derelitti 

condannati all’eterno riso

e che non possono più sorridere! 

 

La relazione tra melanconia e pipistrello è presente anche nei versi dell’ultimo Spleen, in cui la prima ritorna nell’immagine del cranio reclinato e il secondo è il simbolo della speranza sterile e inutile:

 

quando la terra si muta in un’umida cella,

e la Speranza, come un pipistrello maldestro, 

va urtando i muri con la sua ala timida

e ai soffitti marciti cozzando con la testa; 

[…] 

la Speranza, vinta, piange, e l’Angoscia, dispotica,

mi pianta sul cranio reclino il suo vessillo nero.

 

Questi spunti, pur tratteggiati velocemente, ci consentono di stabilire alcune associazioni tra il vampiro (e gli animali che lo evocano costituendone possibili trasformazioni) e la melanconia, intesa come motivo culturale che ha segnato in maniera profonda la storia delle idee, la cultura, la medicina del mondo occidentale. 

Alla fine del secolo scorso, Parigi offriva a intellettuali e poeti immagini di una continua trasformazione che sembrava evocare la fine, suscitando nei suoi osservatori visioni apocalittiche. Anche Baudelaire sembra essere ossessionato da questo grande tema. La sua melanconia è quella di chi, non riconoscendo più un mondo di cui osserva il mutamento e la rovina, sembra attendere la fine della civiltà. Il destino di Parigi è per il poeta il destino dell’umanità stessa, anticipato dallo  spettacolo delle rovine della capitale. È difficile non scorgere anche nel Dracula di Stoker una manifestazione di quella commistione di paura, desiderio, sentimento della fine che aveva contagiato i maggiori intellettuali europei dell’epoca. Lo spettacolo di Londra devastata dalla peste e dal contagio vampirico evoca nuovi scenari apocalittici. 

Oggi sono le rovine di New York e di altre metropoli americane, vere o immaginarie, a cui ci ha abituato il cinema degli anni Settanta e degli anni Ottanta, a costituire lo scenario e la metafora della fine della civiltà occidentale. Anche tra le macerie e i ruderi di moderne costruzioni, tra i grattacieli cadenti e sventrati, tra le strade devastate della metropoli si aggirano mostri, demoni, vampiri, lupi mannari, cannibali, replicanti.

 

C’è sicuramente una parentela tra i primi vampiri letterari che passano dai salotti mondani delle capitali europee alle rovine delle città dell’Italia e della Grecia, il Satana che in Baudelaire è evocato come «patron» della distruzione di Parigi, il Dracula di Stoker che porta morte e distruzione nella Londra di fine Ottocento, gli zombies e i morti viventi che si aggirano, unici sopravvissuti alla catastrofe, tra i moderni ruderi di New York. Nelle società tradizionali il vampiro appariva strettamente legato alla paura dei morti, all’inquietudine di un loro ritorno irrelato; nella società moderna il vampiro è inseparabile dalla paura e dall’ossessione della fine del mondo. Nelle società compiutamente modernizzate, il vampiro torna per annunciare la possibile scomparsa del mondo civile. Sia il vampiro delle superstizioni popolari che il vampiro letterario esprimono, in forma diversa, una struggente nostalgia della vita, anche quando si presentano come figure che mettono in discussione la stessa possibilità della vita.

 

C. Nègre, Il vampiro, 1853


Vampiri (e pipistrelli) possono sopravvivere alla fine del mondo?

 

L’itinerario compiuto dal vampiro nell’arco di un secolo è davvero eccezionale. A fine Settecento abbandona la morente cultura folklorica, passa nella produzione letteraria per ritornare, un secolo dopo, con vesti e caratteri nuovi nella moderna cultura di massa. Tra XX e XXI secolo, «Dracula» e «vampiro» sono ormai termini del linguaggio corrente. 

Il suo ruolo centrale nella moderna mitologia è testimoniato anche dalle opere con cui due grandi esploratori del mito, in maniera diversa ma ugualmente incisiva, hanno pensato di affrontare tematiche vampiriche. Penso in particolare al romanzo Signorina Christina di Mircea Eliade (Jaca Book, 1984) e a L’ultima notte (Marietti, 1987) di Furio Jesi. In quest’ultimo, il tema è trattato con una grande originalità che permette di coglierne nuove valenze simboliche, estremamente attuali.

Nell’universo fantastico di L’Ultima notte, i vampiri protagonisti si discostano sia dai più noti vampiri letterari sia da quelli del folklore descritti da Calmet, Davanzati, van Swieten. Facendo appello alla propria erudizione, Jesi può tratteggiarli come provenienti «da altre dimensioni, da antiche mitologie lunari e sanguigne, dal repertorio archetipico ed iconografico delle società precristiane, da antropologie magico-misteriche».

 

I vampiri non sono «non morti» maledetti, essi sono altro dagli uomini; non sono mai stati uomini. Sono demiurghi mitici di fertilità e di rinascita. Portatori di nuova vita, che si sono da sempre contrapposti agli uomini, visti come oppressori e dominatori della Terra.

Jesi sembra voler suggerire che nella società odierna desacralizzata l’uomo è venuto meno ai suoi compiti di signore della terra. E allora siano benvenuti i vampiri legati alla terra e alla vita.

In questo rovesciamento delle immagini consolidate da una lunga tradizione culturale, i vampiri ritornano dopo secoli per reclamare il possesso della terra in nome della giustizia e dei soprusi subiti per colpa degli uomini. Nella grande battaglia per la conquista della terra, dalla parte del Bene e della Vita sono i vampiri contro gli uomini, colpevoli dello sfruttamento e morte della natura.

Il vampiro, legato alle rovine, alle ombre, al sottoterra e alla fine, che provoca e determina la scomparsa degli uomini, appare l’ultima speranza per la vita della Terra. 

 

Il vampiro, un messaggero che avverte l’umanità vittima della propria cecità

 

Dopo aver assistito negli scorsi decenni ad eventi di enorme portata, in fondo non ci è difficile comprendere la sensibilità ottocentesca che ha dato origine alla formazione del vampiro nella sua accezione moderna e letteraria.

All’evento simbolo dell’inizio del XXI secolo, Guido Ceronetti ha dedicato la poesia Il Vampiro delle Torri Gemelle.

 

Salvatore Piermarini, 11,09,2001...N.Y.C. epitaph, (stampa fotografica ai sali d’argento).


Mi chiamo Oniro.

Sono un vampiro.

 

Faccio l’amore umano

Qualche volta. Con una donna

Che farlo ama un po’ strano

E lavora alle Torri Gemelle.

Al quarantesimo piano.

 

Un Vampiro vede lontano.

Coi suoi occhi di morto vede i vivi

Appiccicati all’ombra che li tiene

E assapora i deliri della biglia

Terrestre che li rolla e che li impiglia.

[…]

 

Quella ragazza io l’ho avvertita: lei sola:

– Domani, Settembre Undici, chiuditi in casa.

Avida, stuzzicata, in fermento...

Fiutano odore di già morti-vivi!–

 

Ma le donne sono ostinate, allucinate…

Verrà ugualmente. Per lei sarà finita.

Non siamo teneri noi vampiri.

Sgranocchiamo coi denti le ringhiere,

I conventi di ossa, i papiri...

Ma io traligno sono un’eccezione:

C’è troppo tenebra in erezione!

Un trabocco di occhiate asciutte

Mi erompe, di assurde lacrime.

 

Il vampiro diventa il messaggero che prevede la sciagura che sta per colpire l’umanità e tenta, inutilmente, di avvertirla, come la donna con cui fa l’amore umano. Se, da un lato, trasformandosi in pipistrello-aereo che abbatte le Torri è, secondo immagini canoniche, metafora del Male assoluto, dall’altro appare come un morto o un’altra figura di spirito benevolo che avverte disperatamente gli uomini della catastrofe incombente. Non un revenant inquietante e pericoloso, ma una figura liminare tra morte e vita, che cerca di avvertire, di salvare, proteggere un’umanità in preda alla follia suicida. L’11 settembre è l’evento che, aprendo il terzo millennio, travolge e demolisce anche le percezioni, le mitologie, le simbologie della modernità.

Eppure, l’avvertimento del vampiro, come dalla ragazza del quarantesimo piano, non sembra essere stato ascoltato dall’umanità, sorda e affetta dalla “grande cecità” di fronte agli esiti delle devastazioni che il nostro modello produttivo crea sull’ambiente e sul clima pianeta di cui parla Amitav Ghosh.

Da quell’inizio del XXI secolo abbiamo temuto di veder ridursi in macerie i luoghi simboli dell’Occidente a seguito di attentati terroristici, li abbiamo sottoposti a misure eccezionali di controllo pensando che potessero scomparire in un attacco sanguinoso. Per paura di quegli attentati, abbiamo visto invocare o approvare leggi per impedire di coprirsi il capo o il volto e ora guardiamo gli altri da dietro alle mascherine chirurgiche.

Appena un anno fa, questo complesso di timori veniva evocato dalle riprese della guglia di Notre Dame che si ripiegava su sé stessa, in seguito a un incendio peraltro accidentale. Adesso, vediamo questi stessi luoghi nelle immagini televisive girate dai droni che volano sulle città deserte: intatti, soli, svuotati di persone, di quella umanità che li ha eretti a propri simboli e che ora si ritrova ad affrontare “nemici” diversi.

 

Verrebbe da chiederci se, a questo punto, gli avvertimenti non siano sufficienti a mettere in dubbio l’idea del ruolo di innata superiorità della specie Homo Sapiens. In Homo Deus. Breve storia del futuro, Noah Harari osserva, paragonando la nostra visione all’ecolocazione dei pipistrelli, che in realtà la nostra specie non è in grado di fare esperienza del mondo così come avviene ai pipistrelli, né quindi di comprendere appieno tale esperienza. Se pensiamo a quanto la visione di forma e colore informi la nostra conoscenza del mondo, possiamo riuscire a immaginare che in realtà altre specie, con facoltà percettive diverse, come appunto i pipistrelli o le balene, creino immagini diverse, parallele e praticamente incomunicabili, ovvero tanti mondi diversi. Non possiamo comprendere cosa si provi a essere un pipistrello e, in effetti, questo non dovrebbe sorprenderci. Non possiamo dirci in senso assoluto superiori, dotati di una gamma di sensibilità maggiore o di esperienze più complesse, rispetto ad altre specie. Tutto ciò che è altro da noi allude all’esistenza di diverse possibilità, di altri modi di vedere e di riconsiderare il nostro ruolo nel mondo.

 

Commento alle immagini


A. Dürer, Il Pipistrello, 1522. Di tutte le metamorfosi animali che collegano il vampiro con la sfera della bestialità, il pipistrello costituisce senza dubbio la più caratteristica metamorfosi del vampiro letterario e contemporaneo. Sono molti i motivi che possono ricondurre al questa associazione. Per quanto riguarda il vampiro folklorico, volando su un cadavere un pipistrello in Romania poteva dare origine a un vampiro. Già dalla fine del Medioevo il diavolo e i demoni venivano raffigurati con le ali di pipistrello, un’immagine praticamente inscindibile dal nostro immaginario. La prima estensione nota del termine «vampiro», risalente al 1762, designava appunto una specie di pipistrelli che si pensava potesse aggredire nel sonno persone e animali. Il volo notturno, uno degli elementi dell’ideologia del sabba, comporta l’associazione evidente con una natura demoniaca. Con la sua incapacità di vivere in spazi aperti e alla luce del sole, l’immagine del pipistrello rimanda a quelle caratteristiche del vampiro che la psicanalisi associa tipicamente a disturbi narcisistici della personalità.

A. Dürer, Melencolia I, 1514. Assieme a Il cavaliere, la morte e il diavolo è l’incisione di Dürer  più complessa, ricca di simbologie e alla quale sono stati dedicati più studi interpretativi, tra cui il classico Saturno e la melanconia di R. Klibansky, E. Panofsky e F. Saxl. L’incisione si ispirerebbe all’immagine della melanconia proposta da Ficino, che riprendeva e sviluppava antiche concezioni attribuite ad Aristotele in merito alla melanconia degli uomini di genio. Oltre ai molti oggetti simbolici su cui si sono soffermati numerosi studiosi (il libro, il quadrato magico, le chiavi, la scala, la borsa, il cane, la campana, la clessidra, il globo, il martello, il putto, il compasso), alcuni dei quali hanno proposto una lettura alchemica dell’opera, sulla placida distesa di mare sullo sfondo della scena, ritroviamo un inquietante pipistrello che sorregge con le ali spiegate il cartiglio con il titolo dell’opera.

 

C. Nègre, Il vampiro, 1853. La figura del vampiro (in realtà Le Stryge nell’originale francese) è rimasta impressionata anche su uno dei più antichi calotipi d’autore, realizzato da Nègre, pittore e fotografo, cogliendo l’immagine di un amico, Henri Le Seq, anch’egli fotografo, in posa accanto a uno dei grandi gargoyle reinventati, immaginati, rimaterializzati da un Medioevo fantastico dai restauri di Viollet-le-Duc proprio nel periodo di questo scatto, che si affacciano su Parigi dalla sommità della cattedrale di Notre Dame. Si direbbe che ci sia qualcosa di intrigante ed emblematico in quest’antica immagine fotografica di un “vampiro” apparentemente folklorico, in realtà moderno che, in compagnia di un personaggio con un cappello a cilindro somigliante al Dracula di Coppola che a Londra assiste a una delle prime proiezioni cinematografiche, osserva pensoso una delle principali metropoli moderne crescere e svilupparsi ai suoi piedi.

 

M. Maier, Atalanta Fugiens, Emblema L, incisione di M. Merian, 1617. Un’incisione tratta da una delle opere alchemiche più originali, che unisce testi (epigrammi e discorsi), immagini (emblemi) e partiture musicali (fughe) e per questo è stata paragonata a un moderno «ipertesto». Il mito di Atalanta fa da velo alla complessa dottrina esoterica esposta dall’autore. L’epigramma a commento dell’ultimo emblema che conclude l’opera recita: «Draco mulierem, et haec illum interimit, simulque sanguine perfunduntur». Il drago e la donna che si danno la morte a vicenda nella fossa mescolando il loro sangue rappresentano l’allegoria alchemica dell’unione di maschile e femminile, di caldo e secco da un lato e freddo e umido dall’altro, che è l’arcano della morte e della rinascita, della rigenerazione.

 

Salvatore Piermarini, 11,09,2001...N.Y.C. epitaph, (stampa fotografica ai sali d’argento). Il crollo delle Twin Towers ha rimesso in discussione le nostre categorie interpretative, il nostro modo di immaginare e di pensare il corpo, l’altro, la morte, la sepoltura. Nuove paure e nuove angosce non hanno cessato di opprimerci. Nelle parole di Salvatore Piermarini, riaprire le scatole di stampe e provini delle due Torri fotografate molti anni prima per la preparazione della mostra W.T.C.N.Y.C., quasi l’epitaffio per un luogo perduto tra vittime e carnefici, «fu come scoperchiare un sepolcro, svitare l’urna delle ceneri di tutti quei morti ridotti in polvere, detriti e macerie trasportati in qualche discarica, laggiù dalle parti di Staten Island».

 

Questo scritto riprende alcuni temi di Il vampiro e la melanconia (Donzelli, 2018) e anticipa pagine di un libro sul Coronavirus in uscita presso lo stesso editore. L’autore ringrazia, per la collaborazione, Isabella Cecchi. 

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