L’invenzione del patrimonio culturale / Plotino e Topolino

16 Agosto 2019

“Il passato non è alle nostre spalle ma sotto i nostri piedi”, scrive Henry Corbin in Histoire de l’art islamique (Gallimard, Parigi 1986, p. 26) riferendosi a una concezione della storia per la quale le testimonianze del passato si stratificano nel presente come tappe di una progressiva conquista della verità religiosa. Simone Verde, autore del saggio Le belle arti e i selvaggi. La scoperta dell’altro, la storia dell’arte e l’invenzione del patrimonio culturale (Marsilio, Venezia 2019), utilizza la frase di Corbin per illustrare con una immagine la concezione medievale del patrimonio storico e artistico: “Il passato non era un insieme di episodi in sé conclusi che ci si poteva lasciare alle spalle […] ma una materia che tornava puntualmente a dettare precise indicazioni morali” (p. 31). 

 

A partire dal Basso Medioevo, lo sviluppo di una società manifatturiera e commerciale contribuì alla nascita di una nuova concezione di tutela del patrimonio, finalizzata a proteggere le prove monumentali dell’ingegno umano, che giunse a maturazione in età rinascimentale. A riprova di ciò l’autore cita una legge promulgata a Firenze nel 1571 contro chi “rimovesse o violasse armi, inscrittioni o memorie existenti apparentemente nelli edifici così pubblici come privati”. Nell’età dei viaggi esplorativi e delle scoperte geografiche si giunse quindi alla concezione moderna di patrimonio inteso non più come segno teologico o mitologico, ma come testimonianza di una differenza fra gli uomini, giustificata sulla base di dati etnografici anziché metafisicamente. Gli antichi divennero così ben presto gli “altri” e le loro opere la documentazione di una diversità culturale. A questo riguardo, l’autore cita John Howland Rowe, il quale sostiene che l’antropologia sia nata dal riconoscimento in età rinascimentale dell’alterità degli antichi (The Renaissance Foundations of Anthropology, in American Anthropologist, 67, 1965, pp. 1-20). La tesi di Verde è che il moderno concetto di patrimonio non possa essere compreso se non associando l’approccio storico-artistico a quello antropologico.

 

Fattucchiera di Colobraro, 1952. Foto di Franco Pinna.


Secondo l’autore l’incontro con l’altro, sia esso l’amerindo al tempo delle scoperte geografiche o le “plebi rustiche” di cui scrive l’antropologo Ernesto De Martino negli anni Sessanta del secolo scorso, è il punto di partenza per una moderna definizione di patrimonio culturale. Non può esserci una coscienza democratica nazionale (ed europea) se non integrando i ceti sociali subalterni nella compagine sociale. Nella postfazione al saggio di Verde, Fabio Dei porta l’attenzione sul fatto che l’assenza di un approccio antropologico ci impedisce di comprendere l’attuale problema del populismo, della rottura tra élite culturali e popoli (p. 267). Senza integrare il concetto di cultura alta con il concetto di cultura bassa, riferito agli oggetti e alle pratiche ordinarie del quotidiano, alle forme che la cultura popolare assume nel contesto della società di massa, non può essere compreso il concetto moderno di beni culturali

 

Alex Da Corte, Rubber Pencil Devil, video, 2019. Frame.

 

Alex Da Corte, Rubber Pencil Devil, video, 2019. Frame.


Nel video Rubber Pencil Devil di Alex Da Corte, presentato alla 58. Esposizione Internazionale d’Arte a Venezia (fino al 24 novembre), forme e colori dell’arte moderna e contemporanea (cultura alta) si mescolano a sketch televisivi, pupazzi, disegni animati, pubblicità e musical (cultura bassa). L’artista mette in scena con ironia cinquantasette momenti tratti dalla storia culturale americana del XX e XXI secolo, dimostrando come l’incontro fra cultura alta e bassa nella società di massa abbia modificato il concetto di patrimonio culturale. Anche i disegni animati e i fumetti meritano una tutela, alla pari dei grandi capolavori dell’arte? È una domanda che mi sono posto anni fa, incuriosito dalle rette che s’irradiano dalla testa di Gyro Gearloose (Archimede Pitagorico, personaggio inventato da Carl Barks negli anni Cinquanta del secolo scorso) quando un’idea illumina la sua mente.

 

Giro Girlolamo (Archimede Pitagorico) personaggio inventato negli anni Cinquanta da Carl Barks / Carlo Crivelli, dettaglio dei Santi Ansovino e Girolamo, post 1490. Scomparto destro del Polittico del Duomo di Camerino. Venezia, Gallerie dell’Accademia.


Gli stessi raggi s’irradiano anche dal modello di tempio che San Girolamo regge tra le mani nel dipinto di Carlo Crivelli conservato presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia. 

Perché nel dipinto di Crivelli e nel disegno di Barks la luce si diffonde in linea retta anziché propagarsi in forma di onda o corpuscolo, come dovrebbe fare secondo la fisica contemporanea? Passi per il povero Crivelli vissuto prima di onde e corpuscoli, ma per Barks non c’è scusa. La ragione di questo ostinato ignorare le scoperte della fisica contemporanea è da cercare nel luccicare degli occhi di Paperon de’ Paperoni quando mira i suoi dollari, in un mito della visione che affonda le radici nell’analogia con la quale Platone mette in rapporto l’intelletto e gli oggetti intellegibili con la vista e gli oggetti visibili: “Ciò che nel mondo intellegibile è il bene rispetto all’intelletto e agli oggetti intellegibili, nel mondo visibile è il sole rispetto alla vista e agli oggetti visibili” (Repubblica, VI, 508 C).

Il lettore abituato a scansionare i testi online, può ignorare le spiegazioni che seguono scorrendo al paragrafo successivo.

 

 

Platone trae l’idea che il sole sia per la vista quello che il bene è per l’intelletto da una teoria della visione nella quale una corrente luminosa, emessa dal fuoco che si trova all’interno dell’occhio, incontra quella che proviene dall’oggetto stesso illuminato dal sole (Timeo, 45 B-C). A quel tempo le idee sulla visione non erano molto chiare: la teoria dell’effluvio visivo anticipata da Empedocle era in aperto conflitto con quella atomistica degli èidola tanto che, secondo Teofastro (De sensibus, 5 e 91), Platone tentò di conciliarle con la teoria illustrata nel Timeo. Quando Plotino svilupperà la sua concezione neoplatonica della luce, che influenzerà largamente l’arte cristiana, si richiamerà all’analogia platonica (Enneadi, VI 7, 16). La luce di Plotino ha però una caratteristica che quella di Platone non aveva: s’irradia. Verso la fine del V secolo a.C. la teoria dell’effluvio visivo si saldò a quella dell’irradiazione della luce per raggi allineati e paralleli. Questo mito della visione, nato in seno alla geometria ottica del mondo greco antico, perdurò nonostante le critiche di matematici e filosofi (Del senso e dei sensibili, 2, 438 A e commento di Alessandro di Afrodisia, 58,7 segg.) penetrando il pensiero di Plotino (Enneadi, V, 3, 8 e IV, 6,1).

 

La geometria del raggio visivo e luminoso s’inserì così nella relazione tra l’intelletto e la vista, tra l’intellegibile e il sensibile formulata attraverso l’analogia platonica, che è una strategia di pensiero che ci consente di “portare alla luce” corrispondenze che altrimenti sarebbero rimaste nascoste. Quando il pensiero giunge a una scoperta attraverso un’analogia che ci colpisce, non diciamo che l’idea è “illuminante” o “brillante? “Lo scrittore è colpito da una sorta di lampo” spiega Paul Valéry in una conferenza alla Société française de philosophie. Questo lampo Barks lo rappresenta disegnando dei raggi che si sprigionano dalla testa di Archimede Pitagorico, dai quali discendono i razzi visivi della prospettiva lineare, la rappresentazione dello spazio e della luce nella pittura di Piero della Francesca e molte altre prove dell’ingegno umano. L’idea che illumina la mente di Valéry e del papero disegnato da Barks, infrangendo la barriera fra l’alto e il basso della cultura, è quindi da tutelare insieme ai raggi che essa sprigiona, ma nel dipinto di Crivelli lo sguardo di San Girolamo è severo, anzi minaccioso. Evidentemente disapprova il fatto che questa luce illumini la mente di un personaggio dei fumetti anziché quella di dotti ed eruditi Padri della Chiesa.

 

 

Dai fumetti alla TV.

Nel documentario televisivo dedicato ai bronzi di Villa dei Papiri, trasmesso nel corso della prima puntata di Superquark (24esima edizione), Alberto Angela osserva che gli occhi del ritratto dello Pseudo- Seneca sono “illuminati dall’intelletto”. L’avorio o l’osso utilizzato per rappresentare il bulbo oculare dei bronzi spicca per contrasto chiaroscurale, assegnando allo sguardo delle figure un carattere volitivo e intelligente. I raggi luminosi sono anche i raggi visivi che veicolano l’Idea, nelle rappresentazioni dell’arte antica così come nei fumetti degli anni Cinquanta.

Per comprendere il concetto di patrimonio culturale quindi non solo è necessario infrangere la barriera che separa la cultura alta da quella bassa leggendo Plotino e Topolino o ascoltando Angela a Superquark, ma anche afferrare la complessità del rapporto di familiarità ed estraneità che lega il passato al presente, rapporto che costituisce un punto fermo dell’antropologia postmoderna (James Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Bollati Boringhieri, Torino 1999).

Nel film Chimera di Haris Epaminonda, artista premiata con il Leone d’Argento alla 58. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, ritroviamo la luce di Plotino concentrata sulla verticale di un edificio in acciaio e vetro californiano, la stessa luce che in un’altra sequenza del film balena negli occhi dei due corridori o lottatori in bronzo, copie di statue greche della fine del IV o dell’inizio del III sec. a.C. (anche questi bronzi provengono da Villa dei Papiri), mentre tendono i loro muscoli preparandosi a uno scatto.

 

Nei fotogrammi della meditazione cinematografica di Epaminonda su tempo, luogo e memoria, i raggi visivi e luminosi che gli occhi dei corridori o dei lottatori lanciano dinnanzi a loro sono gli stessi – e pur diversi – raggi che si sprigionano dalla testa del personaggio disegnato da Barks. Stessi e pur diversi: il passato è altro rispetto al presente. Il rapporto fra presente e passato di cui scrivono Simone Verde e Fabio Dei è caratterizzato dallo scarto prodotto dall’alterità, un’alterità da studiare attraverso l’antropologia, ma che può anche essere percepita con un brivido assistendo alla proiezione del film di Epaminonda. Quella che l’artista mostra è un’alterità contrassegnata non solo dalla distanza antropologica che ci separa dagli antichi ma anche dal limite invalicabile della morte e del divino: “le forze soprannaturali appartengono agli immortali e ogni tentativo umano di raggiungere il divino non solo è destinato a fallire, ma è anche portatore di catastrofe e morte” dichiara Epaminonda in un’intervista rilasciata a Francesca Cavallo (In conversazione con Haris Epaminonda, cura.magazine, Anno 2, Numero 6, ottobre-dicembre 2010). Nel corso della stessa conversazione, l’artista spiega che i frammenti del patrimonio culturale da lei impiegati provengono da un altrove e che il loro essere “uniti in una stessa immagine” nel presente crea la tensione che caratterizza le sue opere.

 

La tesi che l’antropologia sia nata dal riconoscimento dell’alterità degli antichi in età rinascimentale, sostenuta da Rowe, è piuttosto ardita. Lo stesso Verde la considera “un po’ eccessiva”. Possiamo invece dire con certezza che l’incontro fra etnografia e archeologia preistorica, avvenuto nell’Ottocento per opera di Christian Jürgensen Thomsen in Danimarca e di Luigi Pigorini in Italia, ha formato nella cultura scientifica la consapevolezza della distanza antropologica che ci separa dagli antichi. Descrivendo la sua visita al Museo nazionale di Copenaghen di cui Thomsen era il curatore, Pigorini ricorda che “parallelamente al museo delle antichità settentrionale [quello della preistoria danese] esistono, nel medesimo edificio, quello di Etnografia e il Gabinetto Archeologico-classico” (Il Museo nazionale archeologico di Copenaga, in Nuova Antologia, II, 1886, p. 22). Quello che Pigorini fece nell’ambito dell’archeologia preistorica in Italia, Adolfo Venturi lo fece nell’ambito della storia dell’arte sostituendo il metodo formalista con quello etnografico per “tracciare le frontiere estetiche secondo aree culturali” (Verde, p. 135). 

 

L’attività pionieristica di Pigorini e Venturi fu purtroppo ostacolata dal disordine amministrativo dell’Italia liberale post-unitaria, che condannò il paese alla dispersione dei suoi beni culturali con una retrocessione del concetto di tutela a difesa degli interessi municipali, di un patrimonio da difendere e valorizzare sulla base d’interessi locali. Nel municipalismo naufragarono anche i buoni propositi formulati nell’articolo 9 della Costituzione repubblicana per la tutela del patrimonio paesaggistico e storico artistico dello Stato. Intrecciandosi con tradizione e storia del territorio, il patrimonio divenne così risorsa da sfruttare ideologicamente ed economicamente in relazione a interessi locali. Notizia recente è il riconoscimento delle colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene come patrimonio dell’UNESCO. In un’intervista telefonica trasmessa da RAI NEWS 24, l’attuale ministro Ministro per le Politiche agricole alimentari e forestali si congratula con il comitato che ha portato il territorio delle “bollicine venete” all’attenzione dell’UNESCO, augurandosi che il riconoscimento incrementi il turismo e l’economia vinicola del territorio. Ben venga il riconoscimento, ma c’è da chiedersi se la pressione che i gruppi d’interesse esercitano sull’UNESCO, al fine di veder riconoscere i loro beni, non sia l’espressione di una cultura che capitalizza il patrimonio in rapporto a una concezione chiusa dell’identità, che non corrisponde alla fluidità e alle contaminazioni attraverso le quali si forma l’identità di un gruppo sociale, al pluralismo che ispirò l’idea stessa di tutela promossa dall’UNESCO. C’è anche da chiedersi se la trasformazione in bene di ciò che prima era bello, avvenuta nel 1954 alla Convenzione dell’Aia per la protezione dei monumenti artistici e storici, non tradisca l’incapacità di trovare una formula alternativa a quella proposta da Johann Joachim Winckelmann, (che peraltro fu il primo a mettere le creazioni umane in rapporto ai contesti naturali dei popoli e a ricostruirne la storia in chiave evolutiva), se non cedendo a un’idea patrimoniale dell’antico da legare a interessi economici locali, tramite la costruzione d’identità culturali fittizie (Ugo Fabietti, L’identità etnica, storia e critica di un concetto equivoco, Carocci 2013). Il pluralismo, la molteplicità irripetibile dei prodotti culturali da tutelare necessita di un approccio scientifico, in assenza del quale il passato rischia di tornare “sotto i nostri piedi” per una riscrittura ideologica – non più teologica – della storia. L’analisi intrapresa da Verde sui rapporti tra storia dell’arte, scienze umane e sociali per portare alla luce i fondamenti teoretici delle pratiche di tutela e le ragioni della loro crisi è “un potente atto di fede nella possibilità di connettere passato e presente in un modo nuovo” (p. 7).

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