Nomi e volti della paura / Psicopatologia della Lega

14 Aprile 2018

Lo diceva Umberto Eco, gli elettori della Lega non hanno un buon rapporto coi libri: “Che cos’è il leghismo se non la storia di un movimento che non legge?” E hanno una propensione all’odio verso l’intellettuale. Nei bar, quassù tra le Alpi, si preferisce discettare di migranti. La proposta più benevola è quella di sparare loro quando sbarcano, così da fermarli sul bagnasciuga. E la caccia all’intellettuale è uno sport molto praticato nella provincia nordista. Le “storie inventate” non sono amate da queste parti.

Non è dunque un banale caso se nella provincia di Sondrio il candidato della Lega ha ottenuto nelle recenti elezioni il sessanta per cento dei voti e il Carroccio ha raggiunto il quaranta per cento nel collegio della Camera.

E da dove nasce dunque quest’odio verso l’intellettuale qua nel profondo Nord d’Italia, se non da una pratica antica, secolare, che chiede una considerazione preoccupata nei confronti di chi rivolge la propria attenzione ai libri, una considerazione già nazionalista e banalmente fascista? E da dove arriva questa pratica, se non dalla Grande Paura che nasce dall’inespresso, dall’inesprimibile, e assume le forme del non-scritto?

 

L'interdizione, l’evitare parole che evochino emozioni paurose, è causa di frantumazione del racconto. Non possiamo non partire da qui per parlare del rapporto coi libri nel profondo Nord, nelle sue aree montane. E non possiamo, nell’inseguire il moltiplicarsi dei referenti, non individuare nella cultura di queste aree divieti di varia natura: il sentimento religioso, il timore di fronte ai grandi fenomeni atmosferici e geologici; l'insorgere improvviso e inspiegabile di stati d'animo patologici e di malattie, e ancora il sesso, la morte, così come racconta Remo Bracchi in Nomi e volti della paura nelle valli dell'Adda e della Mera, editore Walter de Gruyter, del 2009.

Emozioni paurose che si manifestano all’uomo nelle piaghe della terra, nello smarrimento, attraverso i più grandi fenomeni della natura che fendono il cielo: il fulmine, il tuono, l’arcobaleno, la neve, il vento, nell’aria popolata da sciami di spiriti, pronti a infierire sugli indifesi, e negli astri, nemici dell’uomo. E nell’incubo della notte, vissuto come presenza demoniaca; nelle divinità temute come diavoli. Nel babau, termine col quale era designato il nemico interno, le tare della mente.

Le ombre di questo inesauribile mondo sommerso vivono ancora nel parlato e negli infinti nomi coi quali è indicato il male nei dialetti di queste terre. 

 


E, per dominare questo male, uomini e donne delle aree montane ricorrevano alla parola pronunciata in forma rituale, allo scongiuro, ad allusioni, a testi ritmati, a nenie. È stata l’oralità, e non la forma scritta, a trasmettere questa paura, a definirla in tutta la sua espressività, in tutta la sua forza ed eloquenza.

E qui ancora ritroviamo, tra le sopravvivenze ormai inintelligibili nel parlato, le figure della strega, del selvatico, del mostro, dell’uomo in sembianze animali e delle relazioni con le quali si manifestavano: esorcismi, invocazioni, filastrocche.

Nel definire l’ansietà la lingua italiana è ricca di termini, quali terrore, panico, fobia, timore, paura, sgomento, raccapriccio, inquietudine, angoscia, ansia, scoramento, turbamento, e altri. 

La condizione di una diffusa e indefinibile paura si manifesta nelle aree alpine del paese nel termine solastro. Ma anche nel termine soladia, che ben descrive la condizione di paura frammista a panico vissuta nell’abbandono totale dell’alta montagna. 

 

La brezza notturna in alcune aree valtellinesi è raffigurata nel senzasanch, il senza sangue, il fantasma, l’immagine con cui era raffigurato l’incorporeo. Mentre l’interferenza tra tempo atmosferico e presenza diabolica è ben riassunta nell’espressione vent bubin, il vento gelido, forma arcaica e orale del bau bau, il latrato del cane; l’inconscio che suscita paura e mette il gelo nelle vene.

L’inespresso, l’inesprimibile, assume le forme del non-scritto in Valtellina e Valchiavenna, e conserva un patrimonio di narrazioni tradizionali che rappresentano la memoria di avvenimenti lontani. Grande parte di queste manifestazioni popolari hanno connotazioni di carattere macabro e sono messe in relazione al demonio, alle streghe, alla morte. Una tradizione che perdura nella toponomastica, nel dialetto, in racconti tramandati di generazione in generazione per via orale, che incutono timori e rievocano fosche storie di anime perdute, di uomini coi piedi di capra e di esorcismi.

Il demonio ha assunto nelle valli del profondo Nord forme diverse, mutazioni continue, dalla creatura mostruosa, alla femmina seducente, e, di recente, all’immigrato che ruba, stupra e approfitta della propria condizione diabolica. 

La lotta contro il demone diventa un luogo comune, sia nelle antiche rappresentazioni sacre, sia nelle contemporanee rappresentazioni televisive, da arricchire con epiteti connessi al temibile mondo di Lucifero, un mondo dove vivono demoni, mostri, fantasmi, folletti, selvatici, banditi e quant’altro la fantasia popolare riesca a immaginare. 

 

È in questo contesto che noi autori valtellinesi guardiamo con grande invidia alla narrativa di altre aree alpine, e non è un caso se per leggere i caratteri di Valtellina e Valchiavenna dobbiamo rivolgerci alla narrativa di queste aree contigue, la cui mescolanza ha dato vita a forme espressive ben più articolate. E non è un caso nemmeno se in queste nostre valli, a differenza della confinante Svizzera o dell’Austria mitteleuropea, esista poco, molto poco racconto di sé, poca rappresentazione e molto silenzio, quel silenzio che come una pietra ha ricoperto per secoli le distese alpine di Valtellina e Valchiavenna. Se, come dice Aldo Bonomi ne La Malombra, Codice edizioni, del 2011, la rappresentazione è fondamentale per avere coscienza di sé, allora la cultura rappresenta lo squarcio del velo, uno squarcio attraverso il quale può nascere il dialogo, quel Parliamone che Bonomi indica come possibile fuoriuscita dalla notte della ragione, dalla notte della lettura e dei lettori, dal buio che definisce la Malombra – termine preso in prestito dall’opera di Antonio Fogazzaro, ambientata nella seconda metà dell’ottocento in un luogo non ben precisato sulle rive di un lago lombardo – dove si racconta della contessina Marina che porta l’oscuro cognome Malombra, la quale, per vocazione alla solitudine, persa nel divario fra sogni e coscienza, abita la malattia del secolo a venire, quella malattia che Sigmund Freud rivelerà da lì a poco. 

Il modernismo di Fogazzaro, di quel suo Piccolo mondo antico tanto presente nelle aree montane e premontane lombarde, mette in discussione il modello razionale, insufficiente, se non affiancato da uno studio analitico e intimo dell’animo umano, e lo fa in un modo che ci interroga sul perturbante, come ancora dice Aldo Bonomi, e come ci invita a fare Thomas Bernhard col suo Perturbamento, un urlo che dalla tranquilla e indifferente Innsbruck arriva fin qui, nelle valli della paura e del grande silenzio, le valli dell’Adda e del Mera. 

 

In Perturbamento Bernhard racconta di un medico condotto il quale, accompagnato dal figlio, fa un giro di visite in valli abbandonate, tra neve, freddo, ululati di animali invisibili e paure ancestrali. E nel leggerlo siamo presi in un “perturbamento” che avvolge tutto come un vento metafisico. Un fremito di malattia e tristezza che emana dalla psiche e dalla natura. La montagna di Bernhard è il luogo prediletto dalla brutalità e dappertutto si percepisce un invito alla distruzione, un incoraggiamento all’ansia suicida. In uno stile asciutto Bernhard elenca i relitti del dolore, finché la scansione inflessibile dei fatti cede il passo all’immane delirio dell’ultimo infermo, il principe Saurau, raggelato da un eccesso di lucidità e scosso da un continuo frastuono nella testa, abbandonato ormai a una “micidiale tendenza al soliloquio”. 

La paura non è difficile da capire, tutti abbiamo avuto paura del lupo da bambini, diceva Alfred Hitchcock a commento della propria opera. E nulla è cambiato, perché ciò che impaurisce le masse oggi è ciò che le impauriva ieri. 

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