Pensare altrimenti / Scambiare, donare

23 Gennaio 2021
Dove si cerca di dire che in fondo siamo meno egoisti di quanto pensiamo e che in fondo doniamo più di quanto crediamo, perché è solo così che creiamo relazioni.

 

Se quella che oggi chiamiamo “economia” in principio era solo un’attività di sussistenza, con il trascorrere del tempo ha assunto un ruolo sempre più centrale, al punto da prendere, in molti casi, il posto della politica. La progressiva “occidentalizzazione” del mondo sta provocando una diffusa colonizzazione dell’immaginario economico, che ci porta a vedere tutto in un’ottica mercantile in cui ciascuno cerca di ottenere il massimo guadagno con il minimo costo. Estesa questa visione all’intero genere umano, si ottiene il cosiddetto homo oeconomicus, un essere razionale che agisce perseguendo fini utilitaristici e, pertanto, profondamente egoista. 

Eppure non è sempre stato così, come ha dimostrato Karl Polanyi. In molte società l’economia era – e in certi casi è ancora – inserita all’interno di un sistema di valori in cui non sempre gli individui perseguono il massimo guadagno, ma a volte rispondono a principi che possono portare in direzione diversa. 

L’economia è quindi moralmente vincolata ad altre forme di espressione culturale come la religione, la parentela, le gerarchie sociali, le alleanze, le amicizie. È dunque “incastonata” (embedded) nella società e non esterna a essa e alle sue regole morali, come invece accade nelle società mercantili, dove l’economia è stata espulsa dalla sfera della moralità.

 

L’economia non occupa lo stesso ruolo nelle diverse società umane. Secondo Polanyi sono tre i modi in cui l’economia si integra nella società: reciprocità, redistribuzione e scambio. 

La reciprocità implica una situazione di egualitarismo e viene praticata in società dove non esistono leggi che regolano vendita e acquisto, per cui lo scambio avviene sulla base della simmetria e spesso le transazioni si verificano nell’ambito della parentela o del vicinato. 

La redistribuzione, invece, necessita di una struttura di potere centralizzata: un capo, un sovrano, uno Stato ricevono beni e denaro da parte di tutti i componenti del gruppo, sia esso una piccola tribù o il governo di uno Stato-nazione, e devono poi provvedere a redistribuirli secondo le modalità, più o meno eque, previste dalla loro società. 

La terza modalità, quella dello scambio mercantile o commercio calcolato, nasce dall’avvento della rivoluzione industriale e dal conseguente sorgere dell’economia di mercato. Questa trasformazione segna lo spartiacque tra i diversi tipi di economie e civiltà. Il capitalismo, infatti, muta la sostanza dei rapporti economici precedenti, che si fondavano soprattutto sulle relazioni sociali. Nel sistema capitalistico, al contrario, sono i rapporti sociali a essere definiti tramite i rapporti economici.

Anche in società dove tutto sembra vivere all’ombra del profitto, però, ci sono oasi in cui di tanto in tanto si cessa di essere utilitaristi. 

 

Il dono, per esempio, è un’eccezione alla regola che suggerisce di tenere le proprie cose per sé e ottenerne altre tramite l’acquisto o lo scambio esplicito. Eppure donare è essenziale, fondamentale, ma qual è l’importanza del gesto? Perché si dona? Per instaurare relazioni. 

A intuirlo in maniera determinante fu l’etnologo francese Marcel Mauss, quando nel 1924 scrisse il celebre Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche.

L’antropologia ci offre molti esempi di società presso le quali il dono costituisce uno degli elementi fondanti. In alcuni casi però gli antropologi hanno peccato di “caritatevolezza”, attribuendo talvolta a popolazioni non occidentali un’immagine da buon selvaggio alieno a ogni forma di utilitarismo, che vive in modo assolutamente solidale. L’opposto rispetto a noi dove, dopo Adam Smith, tutti concordano nell’affermare che affinché la società funzioni bene ciascuno deve perseguire il proprio interesse. Se c’è qualcuno che dona per creare le basi di una convivenza, dunque, non siamo certo noi occidentali, razionali e utilitaristi. Abbiamo così relegato il dono in un dominio etnografico, congelandolo in ambiti esotici e impedendo quindi una sua ricontestualizzazione nel mondo occidentale e la sua riattualizzazione in epoca moderna.

Ma è davvero così?

 

Prendiamo il caso del Nordest italiano, da tempo celebrato quale esempio del boom della piccola industria, della cultura del lavoro, dell’ideologia capitalista convertita a livello familiare. In questa terra, che vanta i redditi medi più alti d’Italia, ci si attenderebbe di incontrare gente ossessionata dal lavoro e dal guadagno che passa il tempo a parlare di schei. In parte è così, ma proprio qui si riscontra la più elevata presenza di attività di volontariato. 

In una società che sembra avere posto l’ideale del guadagno e dell’ottimizzazione dei profitti in cima alla propria scala dei valori, ritroviamo numerose testimonianze di un impegno che non contempla nulla di remunerativo, se analizzato in chiave puramente utilitaristica. Che cos’è l’azione di volontariato se non un dono offerto sotto forma di servizi? E che dire dei moltissimi “donatori” di sangue e di organi che consentono di salvare numerose vite, senza alcun guadagno materiale?

Anche noi occidentali doniamo. Il problema è che spesso non ce ne rendiamo conto. Il nostro immaginario è così condizionato dall’ideologia di mercato che ci sembra impossibile uscire dagli schemi dominanti. Il dono si nasconde nelle pieghe delle nostre azioni e non ci accorgiamo che molte di queste non sono affatto mosse da logiche utilitaristiche, il che non significa gratuite. Il dono non è mai gratuito: chi dona si attende un controdono, ma la differenza tra donare (e contraccambiare) e scambiare sta nell’assenza di contratto. 

 

Il dono, infatti, implica una forte dose di libertà. Non c’è l’obbligo di restituire, inoltre modi e tempi non sono rigidi. Il valore del dono sta nell’assenza di garanzie da parte del donatore. Un’assenza che presuppone una grande fiducia negli altri. Il valore del controdono sta nella libertà: più l’altro è libero, più avrà valore ciò che ci donerà a sua volta. Il dono diventa in questo caso promotore di relazioni. Quello che apre la strada al dono è la volontà degli uomini di creare rapporti sociali, perché l’uomo non si accontenta di vivere nella società e di riprodurla come gli altri animali sociali, ma deve produrre la società per vivere. 

 

 

Quando regaliamo qualcosa a qualcuno, scegliamo qualcosa che ci fa piacere regalare, ma tenendo presenti i gusti e la personalità del destinatario. Pertanto, in quel dono ci sarà qualcosa di noi e qualcosa di chi lo riceverà, perché in fondo gli oggetti sono ricettacoli di identità.

Ricevere un regalo provoca spesso una duplice sensazione: da un lato l’emozione che spinge alla gratitudine verso il donatore; dall’altro un lieve senso di imbarazzo, dovuto al fatto che in quel momento, mentre stringiamo tra le mani quel dono, sentiamo di essere passati nella condizione di “debitori” nei confronti di chi ha voluto farci un regalo. Il pensiero, infatti, si rivolge subito al modo in cui cercheremo di “sdebitarci”. 

 

Debito è una parola che non amiamo, ci fa sentire in colpa se gli indebitati siamo noi, in ansia se siamo creditori... In uno scambio mercantile, al termine della transazione i partner si ritrovano proprietari di quanto hanno acquistato o barattato. Mentre prima dello scambio uno doveva dipendere dall’altro per soddisfare i propri bisogni, a scambio avvenuto, entrambi risultano reciprocamente indipendenti e senza obblighi. Nel caso del dono, il ricevente non “paga” sul momento, come in una normale transazione commerciale. Chiunque di noi si sentirebbe offeso se, facendo un regalo, ci vedessimo contraccambiare su due piedi con un altro regalo (tranne che nelle occasioni stabilite, come il Natale). La restituzione avviene nel tempo ed è grazie a questa dimensione prolungata che il debito si protrae e mantiene attivo il legame tra le due parti. 

 

Tutto nasce dal fatto che nella nostra percezione tendiamo ad associare il debito alla sfera economica, mentre facciamo rientrare il dono in quella affettiva. Forse è per questo che siamo un po’ restii a chiamare con un freddo termine contabile quello che ci sembra essere invece un sentimento tra i più genuini, che riserviamo a parenti, amici e persone care. Infatti, nell’ambito familiare lo stato di debito è considerato normale, ma non viene percepito come tale. I genitori spesso donano ai figli molto più di quanto ricevano, ma non per questo si sentono creditori, né necessariamente i giovani si sentono in dovere di sdebitarsi. Anche in una coppia o tra amici si contraggono debiti (scambi di favori, di oggetti, d’affetto). Si dona perché ci fa piacere l’atto del donare. Donando si genera debito e quindi si crea squilibrio. Se osserviamo i rapporti di coppia o di amicizia è proprio nella situazione contraria, cioè in uno stato di equilibrio dare/avere che si determina la rottura di un rapporto. Il celebre gesto della restituzione dei regali al partner per sancire la fine di una storia ristabilisce la parità e annulla il debito. Allo stesso modo, l’inizio di un rapporto è spesso segnato da un regalo o da uno scambio di regali, che altera la situazione di parità originale, creando asimmetria. Sembrerebbe una contraddizione: dono e controdono dovrebbero portare a un equilibrio, ma allo stesso tempo generano una sorta di conflitto permanente. L’antropologia ci ha però insegnato come l’equilibrio di un gruppo non nasce per forza da uno stato di inerzia, ma spesso da una serie di conflitti interni controllati.

 

Si dona per soddisfare il proprio piacere di vedere felice un’altra persona, ma non è affatto un atto gratuito. Tale gesto rientra in una “economia della gratitudine”, uno stato di debito reciproco, nutrito da surplus, da sorprese e che fa sì che ciascuno possa dire dell’altro: «Gli devo molto».

Non tutti i doni creano relazione, in alcuni casi possono, al contrario, spezzarla. Pensiamo, per esempio, alla carità: certo è un dono, ma non ci si attende certo di essere ricambiati dal mendicante. Si fa quindi la carità per aiutare chi è più sfortunato di noi, ma la carità ferisce chi la riceve, è umiliante, perché chi riceve non può restituire. Il circolo virtuoso identificato da Mauss si spezza. 

Al triangolo donare-ricevere-contraccambiare viene a mancare un lato, l’ultimo. 

Questa assenza dà vita a gerarchie sociali ed economiche che si trasformano inevitabilmente in rapporti di forza e trasforma il ricevente in debitore impotente. 

 

Sono molte le occasioni che ci si presentano di donare in modo spersonalizzato o generalizzato: pensiamo alle donazioni in caso di catastrofi o alle iniziative di raccolta fondi per aiutare i Paesi più poveri o per finanziare la ricerca per la cura di malattie rare. La carità, istituzionalizzata tramite enti organizzati, non è più un dono al prossimo, ossia al vicino, a qualcuno che conosciamo, ma diventa un dono finalizzato a lenire sofferenze e disagi più grandi, meno definiti. Al singolo destinatario si sostituisce una categoria (poveri, affamati, affetti da determinate malattie, colpiti da catastrofi) più o meno vasta e quanto mai anonima. Questo tipo di dono diventa un atto che lega soggetti astratti: un donatore che ama l’umanità e un destinatario che incarna la miseria del mondo. 

Si tratta di una tipica forma di dono generalizzato che non prevede un controdono in beni materiali. Se c’è un beneficio per il donatore, sarà semmai di tipo interiore. Si tratta di una sorta di riconversione. Il donatore non offre qualcosa di davvero suo, non sceglie un oggetto che rappresenti in qualche modo il rapporto tra lui e il destinatario. Il donatore offre del denaro, suo come appartenenza materiale ed economica, ma non “suo” in quanto segnato da un rapporto affettivo unico (se affetto o attaccamento c’è, è per il denaro in genere, non per “quel” denaro). 

L’uomo è soprattutto un essere relazionale e crea relazioni attraverso il dono. Se proviamo a spogliare il dono dai suoi abiti “esotici” e “primitivi” e a ripensarlo come un riferimento per contrastare quell’anonimato che tanto ci spaventa, scopriamo la grande attualità della lezione di Marcel Mauss.

 

Un circuito di scambio

 

L’arcipelago delle Trobriand si trova al largo della costa nord-orientale della Nuova Guinea. Fu qui, nel secondo decennio del Novecento, che nacque la moderna antropologia, fondata sulla ricerca sul campo, grazie alle ricerche di Bronislaw Malinowski. La sua celebre opera Gli argonauti del Pacifico occidentale non è fondamentale solo per il suo ruolo storico e pionieristico, ma anche per l’accuratezza etnografica e l’acume delle intuizioni contenute. 

Tra le tante classificazioni possibili per questo testo, rientra anche quello di primo studio di antropologia economica. Malinowski voleva dimostrare che alcune usanze locali, bollate come insensate e primitive, avevano in realtà una loro logica e che le idee degli economisti sulla razionalità peccavano, invece, di etnocentrismo. Per lui erano addirittura inefficaci anche applicate al capitalismo occidentale, da lui considerato non meno intriso di magia e di simbolismo di quanto non lo fossero i sistemi di pensiero chiamati “primitivi”.

Gli argonauti malinowskiani delle Trobriand non viaggiavano alla ricerca di un vello d’oro, ma navigavano da un’isola all’altra dell’arcipelago, percorrendo migliaia di chilometri. 

Affacciato dalla sua veranda sull’isola di Kiriwina, Malinowski vedeva arrivare ogni giorno piroghe da direzioni opposte. […]

 

Da Aime, Pensare altrimenti, Add editore 2020.

 

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