African Parks: business bianco

5 Maggio 2025

In un libro uscito da poco il giornalista olandese Olivier van Beemen, già noto per la sua bella e approfondita inchiesta sullo strapotere commerciale e non solo della Heineken in tutto il continente africano (vedi Heineken in Africa, Add editore 2020), attraverso una approfondita inchiesta, affronta un altro grande tema: quello della tutela della natura in Africa. Le immagini dei parchi naturali africani con i loro tramonti infuocati e le sagome dei grandi animali che li popolano, hanno contribuito a creare lo stereotipo dell’Africa selvaggia. Una manna per i safari fotografici e non solo. In Cattivi custodi (Add editore, 2025) Van Beemen, infatti, ci racconta le diverse facce di African Parks, una Ong potentissima, con sede in Sudafrica, ma fondata da olandesi. Che gestisce molti dei parchi naturali in Congo, Rwanda, Benin, Malawi, Sudafrica… Un colosso del settore.

Ripopolano certe aree con animali presi da altre regioni, tutelano l’ambiente, tutte cose lodevoli a dirsi, un po’ meno a farsi. Dall’inchiesta emerge, infatti, un tema centrale e di non facile soluzione: è giusto proteggere l’ambiente naturale, ma se questo viene fatto per profitto, che deriva dall’afflusso turistico e finisce per penalizzare gli abitanti del luogo, la questione si complica. L’autore descrive diverse situazioni in cui la destinazione a parco, ha finito per sottrarre loro terre coltivabili e pascoli utilizzabili.

Il motto di African Parks è “A business approach to conservation”, per cui la natura va tutelata non tanto perché sia giusto da un punto di vista etico, ma perché in questo modo “rende”. E rende molto, se preservata e modellata a uso e consumo di turisti facoltosi, affamati di savane, leoni, rinoceronti ed elefanti, alcuni dei quali non si limitano a fotografarli, ma si danno alla caccia vera e propria. Cosa che secondo Van Vlissingen, il fondatore della Ong, non è in contraddizione con la difesa dell’ambiente, anzi, secondo lui la caccia ha sempre portato con sé un aspetto di tutela: «Cacciare, non uccidere animali indifesi, è dare ascolto a una misteriosa voce che sussurra, essere commossi dal ritorno a tempi primordiali, ammirare un’abbondanza di foreste e animali incantatori. [...] Non esiste cacciatore che non ami la sua preda, come non esistono cacciatori che non se ne prendano cura, o ai quali interessino solo gli animali che si cacciano. Un cacciatore non è uno che spara e basta».

Parole che risultano ancora più inquietanti per due motivi: il primo è che sono state scritte da un uomo che si propone come il custode della natura; il secondo è perché la cosa non vale per tutti. Infatti, se a cacciare sono gli abitanti del luogo, vengono arrestati, incarcerati e spesso torturati ferocemente, come documenta l’autore. I parchi sono quindi gestiti militarmente, da ranger che spesso hanno la mano pesante. Nel Parco nazionale dell’Omo, nel sudovest dell’Etiopia vivono i Mursi, popolazione nota per l’uso delle donne di portare il piattello labiale. «Noi viviamo da secoli insieme agli animali selvatici. Noi conosciamo gli animali e loro conoscono noi. Noi indossiamo pelli di antilope come abiti, come faremo adesso?» si chiede un rappresentante dell’etnia. I Mursi vivono di agricoltura e allevamento e cacciano per procurarsi la carne e le pelli, se questa fonte di reddito viene a mancare, con cosa sostituirla? Nessuna risposta da parte dei gestori.

Quindi: per un bianco facoltoso uccidere per divertimento è lecito, purché paghi, per un indigeno che cerca di procurarsi un po’ di carne, la cosa diventa reato.

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Questa forma di “razzismo venatorio” è, peraltro, una delle manifestazioni del fatto che in molte parti d’Africa la tutela ambientale rimane uno degli ultimi settori in cui non c’è ancora stata una vera decolonizzazione. African Parks e altre organizzazioni spesso portano avanti una visione occidentale, se non addirittura coloniale, della natura, in cui uomo e animale sono il più possibile separati, mentre molti popoli africani hanno una lunga tradizione di convivenza. La natura “selvaggia” come la intendono molti gestori di riserve è a uso e consumo dei turisti. Non c’è posto per gli esseri umani che abitano e coltivano da tempo quelle aree, che oggi sono diventate riserve naturali o per i pastori che vogliono attraversare un parco con le loro mandrie.

Nel parco della Pendjari, nel Benin settentrionale, una mandria di bovini è entrata nel territorio della riserva. Immediatamente sono intervenuti i ranger con i fucili automatici, abbattendo 450 animali. Il danno economico subito dai proprietari è stato di oltre 100.000 euro, senza contare che ammazzare una mucca a un pastore è come dare alle fiamme la sua casa o stuprarne la moglie. Nello stesso parco è ammessa la caccia ai trofei animali, ma non è concesso ai locali di cacciare.

La natura “incontaminata deve essere risparmiata da qualsiasi attività umana, che non sia il turismo? A dire il vero, tanto “incontaminata” la natura non è, visto che per creare una riserva “naturale” in Sudafrica il fondatore di African Parks fece radere al suolo tutto ciò che ricordava la presenza umana. Fattorie, alloggi per il personale (nero), recinzioni e pali del telefono dovettero sparire, così come la fitta boscaglia, perché agli appassionati dei safari piace la savana e la boscaglia non è adatta al turismo.

Accade così che, in varie parti d’Africa la “tutela” della natura in chiave di business, finisce per sottrarre risorse fondamentali per gli abitanti locali come frutta, carne, piante medicinali e legna. Anche le miniere d’oro di piccole dimensioni, pozzi nel terreno in cui i cercatori locali scavano con pala e setaccio, sono vietate.

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