Loro siamo Noi / Sorrentino: "Loro 2"

14 Maggio 2018

Qui il commento sulla prima parte: Sorrentino: "Loro 1"

 

Il vuoto. Il segreto di Silvio Berlusconi non è il sesso e neppure il potere, ma il vuoto, il vuoto del sesso e del potere. Tutti ruotano intorno a Silvio nella sua corte sarda. Gli chiedono soldi, sesso, potere, ma in realtà sono affascinati dal suo vuoto. La recitazione di Toni Servillo, con la fissità del viso, il cerone, la moquette dei capelli e l’occhio semichiuso, dà consistenza fisica a quel vuoto. Dopo essere stati seduti in poltrona a seguire questo film per due ore, ci si domanda: ma come ha fatto la bolla del vuoto a salire così in alto? Come ha fatto il vuoto a dominare la nostra vita sociale e politica per oltre vent’anni? E ancora non ha finito, perché i tre ragazzi che si affacciano sul governo, o ci sono stati per qualche tempo, i tre leader di governo e d’opposizione, sono i figli di quel vuoto, ne testimoniano la natura eterna e inesauribile. Figli di Silvio e probabilmente suoi killer politici: i figli devono uccidere i padri in politica, se vogliono sopravvivere. Paolo Sorrentino ci ha regalato con la seconda parte di Loro una visione perfetta della nostra storia recente. L’ha fatto usando l’arma dell’estetica, che è il modo migliore per poter dire verità inaccettabili nel modo più dolce e soffuso possibile. Berlusconi, nella lettura che ne fornisce Sorrentino, non è nient’altro che questo: un personaggio orribile e insieme vuoto. Non un mostro, perché ci somiglia e noi somigliamo a lui. Il regista ha rovesciato la “dolce vita”, o meglio ne ha manifestato quello che in Fellini era ancora una forza, e ora non lo è più: il vuoto del nostro esistere. Si esce attoniti dal cinema, depressi. Allora non c’è alcuna speranza?

 

Niente cambierà, saremo sempre così? Sorrentino non dà giudizi, espone, suggerisce, propone. Se Berlusconi nei prossimi decenni, quando ci volteremo indietro e guarderemo quello che è stato, non sarà un personaggio tragico, come forse vorrebbe essere, o aspira a essere, lo dovremo a lui, al regista napoletano. Lo dice una delle ragazze, Stella (Alice Pagani), colei che ha toccato “Dio” (il personaggio misterioso che compare nella prima parte e che dimostra con la sua presenza che c’è qualcuno superiore a Berlusconi stesso); per questo Stella è una veggente nella corte delle olgettine. “Lei è patetico”, afferma. Tutto è patetico in questo Silvio sul viale del tramonto, un tramonto che, come si vede in questi giorni d’attesa del governo dei populisti, non finisce di finire (di sabato la notizia che Silvio, quello in carne e ossa, è di nuovo candidabile). Continua e continuerà ancora, sino alla sua morte. E forse oltre: l’eternità del vuoto. E tuttavia la morte fa la sua comparsa nel film e ci resta per tutte le due ore. Arriva attraverso la fissità della recitazione di Servillo, la fronte immobile e la testa di Silvio inquadrata da dietro. Sono perciò tutti riti apotropaici le danze delle ragazze seminude a Villa Certosa, le esibizioni di natiche e seni, le canzoni napoletane, le tavolate con le ragazze dalla farfallina al collo, i cori e gli applausi. Tutto serve a riempire quel vuoto, che tuttavia nulla riuscirà mai a colmare.

 

 

Dopo il ritmo forsennato della prima parte di Loro, nel momento in cui entra in scena Lui, Silvio, tutto diventa lento, lentissimo; anche se il ritmo del racconto cinematografico sembra accelerare, tutto appare rallentato, quasi Sorrentino volesse farci riflettere sul senso del suo stesso raccontare. Narrare il vuoto è difficile, e il regista napoletano ci è riuscito con questo doppio movimento che ha impresso al suo film: velocissimo e lentissimo. Chi è Silvio Berlusconi? Risponde Veronica (Elena Sofia Ricci): uno che non si è mai rivelato. Tutto in lui è recitazione. Per questo il film funziona: perché è una grande, immensa recita. Una recita barocca, ma è anche il teatrino dei pupi, e poi un melodramma, non a caso il genere più italiano che esista, che a sua volta si fonda su un vuoto che il canto è chiamato a riempire. La melodia ne è l’intrinseca necessità. Per questo Silvio canta. Bene o male, non importa, canta perché non parla mai. Parla solo per sedurre, come nella telefonata alla casalinga, dove si finge un venditore di appartamenti. Non ha fatto altro che telefonare a ciascuno di noi per vent’anni, e oltre, e in tanti, tantissimi gli hanno creduto, e ancora gli credono. La seduzione del venditore ha i toni suadenti di un amico, di un consolatore, di uno psicologo. La consolazione di Silvio si chiama Sogno. Per evadere dal vuoto della vita l’unica cosa è sognare, e da vero professionista del vuoto, come il film ci mostra, Silvio ha materializzato il sogno attraverso la ricchezza, il gruzzolo, i risparmi: comprare una casa per la figlia. La cosa e le cose. Ha ragione Stella: tutto questo è patetico, lui, lei, la situazione. Il patetico è lo stigma del cattolicesimo, e non a caso la scena finale con il Cristo calato tra le rovine del terremoto – chiara citazione felliniana – ci porta nel Regno del Patetico. Ci commuove, come il dolore, la sofferenza, la morte, come il sacrificio. I titoli di coda scorrono sui volti disfatti dei vigili del fuoco, ma anche loro appartengono al patetico, che è commozione, e perciò limite intrinseco dell’umano.

 

La compassione verso se stessi è la chiave di volta dell’Italia e degli italiani abituati da secoli a chinarsi su di sé e a compiangersi. Ma qui il compianto è vero. Vere sono le macerie di Amatrice, dove il regista ha girato la scena, veri sono i visi dei soccorritori, vero è il Cristo estratto dalle rovine della chiesa. Anche Silvio è un povero Cristo, un Cristo che recita il vuoto che ha dentro e che l’attornia. Veronica l’ha amato, ma lui non si è rivelato nemmeno a lei. Il proposito di Sorrentino di raccontare Silvio così come è – i sentimenti –, si è realizzato. Il mistero è stato svelato a tutti: non c’è niente di segreto, niente di misterioso. Tutto è semplice, come dice Silvio stesso rivolto al suo guardiano-carnefice Paolo Spagnolo (Dario Cantarelli), che vestito di bianco come un serafino lo attornia e sostiene. Non c’è proprio niente da spiegare, gli dice Silvio. La verità di Berlusconi è semplice: ha rivelato il vuoto in cui viviamo, l’insensatezza che ci corrode, e l’ha trasformato in un progetto politico. Il sogno che ha saputo suscitare è questo: riempiere il vuoto, come fa la casalinga cui Berlusconi-venditore si rivolge nel tentativo di mostrare a se stesso che sa ancora vendere il suo sogno nel momento del proprio declino. In uno squallido tinello, con la televisione sintonizzata su una soap opera di Canale 5, la donna abbandonata dal marito per una sciampista ventenne, appoggiata al tavolo ricoperto da una tovaglia resta incollata al suo cordless e si lascia incantare dal vuoto del Venditore.

 

Lui non vende nulla. L’appartamento non esiste, e neppure lui è un venditore di case, solo un vecchio desolato dalla sua solitudine e dalla visione della morte. Il sesso è un riempitivo, non solo per via dell’età, ma perché tiene il posto della giovinezza, che ora è scemata, ed è inattingibile. La giovane veggente, Stella, gli dice che il suo alito gli ricorda quello di suo nonno. Una ventenne dice una cosa semplice, una semplicità che non è quella di Silvio, perché lui conosce solo le semplicità artefatte e il suo vero scopo è di semplificare davvero. Tuttavia le cose della vita sono sempre complicate, e uno come lui non sa trovare una ragione al perché una parte del Paese lo respinge. Non può sapere quello che Sorrentino ci mostra con il suo film: Silvio è carico di morte, d’istinto di morte. Non solo ora, o nel film dove ha settant’anni, ma anche prima, nel passato, ai suoi esordi, nei momenti migliori della sua carriera. La morte è la vera abitatrice del vuoto. Non quello metafisico – Sorrentino non è un metafisico ma un materialista pratico –, bensì il vuoto morale che questo film ci consegna senza colpo ferire. Così, semplicemente e quasi innocentemente, fintamente innocente. È l’innocenza di chi ha avuto una visione e l’ha perseguita negli infiniti dettagli che un’opera come questa comporta. La visione di Sorrentino è desolante. Non lascia speranze, per quanto il suo modo di porgercela è dolce e persino tenero.

 

Non c’è scampo. Loro 1 e Loro 2 non è un film destinato a piacere ai critici, perché qui il cinema va al di là di se stesso e diventa qualcosa di diverso, visione appunto, come un quadro, un romanzo, un’opera teatrale. Nonostante alcuni passaggi didattici, come nel dialogo tra Silvio e Veronica, seppur carichi d’intelligenza e verità, la maggior parte del film non ha alcuna pretesa pedagogica, non vuole proporci spiegazioni. Quelle le hanno date i sociologi, gli psicologi, gli storici, i semiologi. Tutte verità plausibili, e sovente giuste. Il film di Sorrentino vuole farci vedere. Ci allunga uno specchio elegantissimo pieno di citazioni d’opere d’arte e di altro cinema, perché possiamo finalmente vederci riflessi in quella superficie riflettente: Loro siamo Noi.     

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