12 dicembre 1960 – 7 gennaio 2022 / Vitaliano Trevisan, alle estreme conseguenze

10 Gennaio 2022

Vitaliano Trevisan era un artista scomodo nell’unico modo in cui si può essere scomodi oggi: era scomodo soprattutto per se stesso. Mai che i suoi libri, il teatro, le letture, lo abbiano visto davvero schierato contro qualcuno o qualcosa per indirizzarsi in favore di persone o idee antagoniste. Mai che abbia potuto trarne vantaggio, inoltre (e soprattutto). Perché la posizione che assumeva, il margine del discorso dove si collocava, era quello che gli permetteva uno sguardo obliquo, che mostrava ciò che riusciva a vedere solo lui. Allo stesso tempo, quello sguardo che non si poteva condividere, e che non permetteva affiliazione di opinione o di schieramento politico ufficiale, risultava urticante, irritante perché portato sempre alle estreme conseguenze. Anzi, solo le estreme conseguenze, inseguite con insistenza, con l’accanimento di un martello interiore che batteva sempre sullo stesso punto, erano garanzia di fuga da un pensiero ragionevole – non importa se ben informato e intelligente – per inseguire la convinzione che non c’è pensiero ben informato e intelligente che può dare conto dell’attuale esistenza, a casa nostra, nella nostra lingua, ma si possono soltanto condurre le informazioni e il pensiero che le interpreta verso il muro dove vanno a sbattere, il baratro dove precipitano. 

 

Non solo la sua scrittura è stata un costante porre in atto questo atteggiamento, e il suo modo di leggere le pagine di altri scrittori o di mettere in scena un testo ma, per chi l’ha conosciuto, è stato il tratto più segnato della sua personalità.  

Credo sia stata esperienza comune per chiunque lo ha frequentato, anche se poco: la conversazione procedeva amichevole, ma sempre tesa a cogliere un possibile segnale di allarme, poiché Vitaliano rilanciava il discorso con un effetto avvitante, non mirato a far scorrere i ragionamenti, ma a disturbarli, a incepparli, quando andava bene con un effetto comico, un punto di vista ironico efficace. Poteva funzionare così, la conversazione riuscire piacevole, salutarsi con un abbraccio. 

 

E poi c’erano le altre volte, quando l’allarme suonava forte, e si capiva che non ci sarebbe stata conciliazione, non ci si sarebbe più trovati d’accordo ma, soprattutto, non era avere ragione che gli importava – per cortesia, l’interlocutore avrebbe potuto anche assecondarlo – non era affatto il suo scopo, avere ragione, fosse anche la ragione estrema e più paradossale, no: era mostrare che l’unica ragione possibile era arrivare al limite in cui lo stesso discorso si disintegrava, mostrando che le pulsioni, i fraintendimenti, le sconfitte di ogni buona intenzione erano il vero perimetro dentro il quale ci si stava muovendo. Un perimetro che non chiedeva ordine, né interpretazione coerente, ma l’ostinazione di non cedere, non concedere nulla, affermare che il corpo, la lingua, il desiderio non potevano trovare quiete in nessuna formulazione conciliabile con l’esistente. 

 

 

Eppure, nonostante il disagio di non riuscire a guadagnare alcuna sintonia, si comprendeva che non era contro di te, contro il suo interlocutore, tutta questa potenza distruttiva. E si finiva per salutarsi con un abbraccio, pur se non si era riusciti a trovare un solo punto di accordo, con la sensazione che qualcosa era accaduto, da qualche parte ci si era incontrati, anche se non nel “testo” della conversazione (d’altra parte, Derrida ha scritto che non c’è “fuori testo”).

 

Epperò conducendo ogni frase, anche la più innocua, alle estreme conseguenze, esagerando, esasperando questo esercizio, con la virtù di scandire un ritmo martellante e implacabile, Vitaliano Trevisan ha interpretato a fondo la realtà veneta e italiana del suo tempo. E dico proprio del suo tempo vissuto, del conflagrare della modernità, dell’industria, della comunicazione, proprio negli anni della sua infanzia, spazzando via in pochi anni un tetro mondo agricolo, cattolico, silenzioso, e balenando un sogno di emancipazione e felicità. Non più i triti riti di paese, le feste religiose e le sagre profane, le bevute e il gioco delle carte all’osteria, il sapersi e dichiararsi ignoranti e accontentarsi di avere un lavoro. La musica, i vestiti, nuovi discorsi, leggere, viaggiare, vivere in un altro mondo di esperienze diverse e vere, era questo che mostrava il nuovo tempo che stava arrivando. E poi, in una manciata di anni, quello che sicuramente è arrivato: la strage della cultura popolare, la devastazione del paesaggio, l’omologazione del consumismo e, per i più, un lavoro subordinato, manuale o impiegatizio. 

 

Il luogo del discorso di Trevisan, dentro e fuori dai suoi personaggi, non è forse quello di questo bambino, di questo adolescente affascinato da un sogno che, poco tempo dopo, si è trovato un giovane circondato dalle macerie del passato e dalla delusione di ogni prospettiva presente? Un adolescente che diventa giovane quando anche la durezza delle posizioni politiche di certi “fratelli maggiori” perde di senso, e ci si può solo impantanare nella incessante noiosa equilibratura delle opinioni. Un giovane che non ha accettato – non ha voluto, o non ci è riuscito – le nuove “regole del gioco” sociali e si è accorto troppo tardi di aver tagliato tutti i ponti con quelle precedenti.

 

Non mi stupisco che Vitaliano Trevisan abbia avuto dei lettori fedeli, né che abbia avuto – e abbia ancora – molti scrittori che lo stimano profondamente, nonostante la loro distanza da molti suoi atteggiamenti: ha scritto qualcosa di vero e lo ha fatto sfuggendo l’obbligo di mettere a tema le premesse del conflitto, lo ha fatto smantellando la ragionevolezza degli esiti, frase dopo frase, martellando la sua musica, evitando ogni ipotesi di conciliazione. Non ci sono le “ragioni degli altri” nella scrittura di Trevisan, tanto è radicale la posizione di chi conduce il discorso dove secondo lui deve andare: alle estreme conseguenze, dove non c’è più niente da dire a proposito dell’argomento di cui si stava parlando, dove però ci si può incontrare altrove (non fuori dall’argomento, perché non c’è un “fuori”) ma nel riconoscimento di un corpo, delle pulsioni che fessurano e attraversano il discorso in una lingua che è, e sempre lo è – la lingua – ciò che è più proprio e l’inappropriabile. 

 

Si potrebbe – il condizionale dice già che non lo farò – parlare di povertà, a proposito dell’inappropriabile, tentare un altro accesso, non incoerente con quanto già detto, e parlare di s.chèi, di che cosa è riuscire e che cosa è fallire nella vita, quando i s.chèi diventano l’unico valore sociale fino al punto di corrodere ogni agire. Davvero si potrebbe parlare della povertà. Ma mi sono dilungato anche troppo. È il momento di salutare. 

E se possiamo salutare, ma non più abbracciare lo scrittore che da I quindicimila passi in poi non ha smesso di interessarci, irritarci, trascinarci ogni volta fino in fondo alle sue estreme conseguenze, possiamo però promettere qualcosa di inevitabile: torneremo a leggerti, Vitaliano, ci ritroveremo nel luogo più vero. 

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