Occhio rotondo 28. Scatolone

7 Aprile 2024

Una foto così resta negli occhi e non te la dimentichi più. Quasi un’icona dell’emigrazione meridionale al Nord, se non fosse che oltre che una icona, cioè una fotografia immediata e “semplice”, è anche un’immagine che possiede una sua complessità. La prima cosa che si coglie è la figura dell’uomo con la valigia nella mano sinistra e lo scatolone sulla spalla destra: una sproporzione di volumi, in particolare la scatola di cartone, adatta più per un trasloco che per un viaggio. La prima sensazione è questa: l’uomo si sta trasferendo. Ma non è un semplice trasloco, è un trapiantarsi.

Lo spiega la didascalia che recita: Immigrato sardo davanti al grattacielo Pirelli, Milano 1968. Arriva da lontano, di là dal mare. Quali e quanti transiti ci saranno stati lungo questo viaggio, tutti compiuti con quel pacco sulle spalle? Questo la didascalia non lo dice, e se non ci fosse questo titolo non sapremmo neppure che è sardo e che proviene da un’isola. La seconda cosa che colpisce è il grattacielo dietro di lui. Il simbolo stesso di Milano, almeno per diversi decenni: la sede della Pirelli, ovvero una delle aziende della modernità italiana. Il grattacielo di Giò Ponti e Pier Luigi Nervi è altissimo, tanto che non ci sta tutto nella fotografia: appare immenso. Schiaccia l’uomo lì sotto.

Certo la foto non è stata scattata per illustrare la bellezza dell’edificio, la sua eleganza e la forma sottile, che è stata copiata da altri architetti e progettisti. Vuol far vedere Golia contro Davide? Ma chi è l’uno e chi l’altro, chi il gigante e chi il piccolo combattente? L’aria dell’uomo sembra rassegnata, e la sua età non giovanile. Poi cosa ci fa lì in mezzo alle rotaie? Cerca un tram? I fili in alto sono una trama che non si scorge subito, eppure sta lì tra il Pirellone e l’emigrante sardo, una trama visiva che segna lo spazio; il cielo sopra è nuvoloso. A guardare bene sembra che per terra ci siano dei rimasugli di una nevicata. O forse no. Di certo è inverno e l’uomo vicino alle autovetture parcheggiate sembra avere in mano un cappotto, così come l’uomo con la scatola in spalla lo indossa.

Insomma una foto bellissima e ricca di informazioni, e con un messaggio diretto: qui a Milano è arrivato un emigrante e porta con sé forse un pezzo della sua casa, qualcosa di ingombrante e di prezioso e se lo tiene sulla schiena. La storia della fotografia la racconta lo stesso autore, Uliano Lucas nel libro che ha composto insieme a Tatiana Agliani: A passo lento nella realtà (Mimesis) una splendida autobiografia con parole e fotografie di uno dei più noti e importanti fotoreporter italiani della generazione postbellica. Lucas si è formato nel giro del Bar Jamaica a contatto con i più grandi narratori visivi del boom economico, come Ugo Mulas e Mario Dondero.

Lui è uno che ha fatto della fotografia un modo per capire la società e la politica, oltre che per realizzare belle immagini. Lucas si considera giustamente un saggista ed un operatore culturale; ha riflettuto sul suo mestiere, di cui ha tracciato la storia in vari libri. Nella breve pagina accanto all’immagine Lucas dice tutta la sua affezione per questo scatto, e spiega come l’ha realizzato. In quel momento, è il 1968, stanno arrivando a Milano da tutta Italia gli emigranti, per cui lui pensa di non fotografarli sulle banchine dei treni in Centrale. Troppo scontato. Si sposta all’esterno nella piazza, dove avviene il primo contatto con la città sconosciuta.

L’uomo della fotografia s’è fermato e ha preso dalla tasca un foglietto spiegazzato con l’indirizzo del luogo dove deve recarsi: all’estrema periferia della città. Lucas s’avvicina e gli dà qualche suggerimento, gli indica l’autobus da prendere. Viene da Olbia, e poi poiché da giovane Uliano ha viaggiato parecchio, chiede informazioni su un certo bar del suo paese; ad esempio, a Martina Franca: esiste ancora il Bar Tripoli? Il contatto è stabilito. L’uomo sorride e Uliano gli chiede il permesso di fotografarlo. Permesso accordato. Il commento finale del fotografo è secco: il grattacielo e l’uomo, “due storie che si intrecciano, l’opulenza e chi l’ha costruita”.  Riecheggia nella frase un passo d’una celebre poesia di Bertolt Brecht: Tebe dalle sette porte, chi la costruì?

“Ci sono i nomi dei re, dentro i libri.
Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?
Babilonia distrutta tante volte,
chi altrettante la riedificò? In quali case,
di Lima lucente d’ oro, abitavano i costruttori?
Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia,
i muratori? Roma la grande
è piena d’ archi di trionfo. Su chi
trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio
aveva solo palazzi per i suoi abitanti? Anche nella favolosa Atlantide,
la notte che il mare li inghiottì, affogavano urlando
aiuto ai loro schiavi (…).”

Da Brecht a Lucas un’educazione politica, un’educazione alle immagini. 

Uliano Lucas, Immigrato sardo davanti al grattacielo Pirelli, Milano, 1968 © Uliano Lucas.

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