Pratoline, massaie del prato

25 Febbraio 2024

Ce qu’on dit au poète à propos de fleurs (Quel che si dice al poeta a proposito dei fiori) è un poema allegato a una lettera inviata il 15 agosto 1871 al poeta parnassiano Théodore de Banville, e firmato da un tale Alcide Bava. Il mittente – e autore anche del componimento – è un geniale ragazzino non ancora diciassettenne: Arthur Rimbaud. Strepitosa, ambigua, densissima poesia, una delle sue «più ammirevoli», come ben ritiene Yves Bonnefoy, che «ironicamente, obliquamente» ci consegna «una sorta di ars poetica».

In cinque ampie sezioni di quartine di ottosillabi, Rimbaud sferza con sarcasmo i poeti suoi contemporanei, parnassiani e non, che con i fiori dissimulano intenti egoistici e menzogneri, per nulla nobili e assoluti quali, nell’immaginario comune, la bellezza floreale significa. Perché se dire dei fiori è dire della poesia, farli strumenti di scena per parlare di questioni personali o mercantili è, appunto, stravolgere il senso del loro apparire.

Più di altri, è preso di mira il giglio, tanto amato da Banville, o meglio l’uso che se ne fa nei versi; così i loti sono i bersagli dell’esotismo di quei poeti laureati, direbbe Montale, esotismo evocato anche dal richiamo all’imperatore indiano Açoka. Rimbaud ce l’aveva pure con Grandville, illustratore dei Fleurs animées dove, per altro, nell’introduzione, poco prima di metter loro «le dande» cioè imbrigliarli in fattezze umane, un elleboro – portavoce di tutte le essenze del giardino edenico della Fata dei fiori – lamenta che da migliaia di anni sono usati dai mortali come termini di paragone, offrono loro tutte le metafore e senza di loro la poesia non esisterebbe. 

Tra i molti fiori citati, nella seconda sezione del poema ricorre anche la Pâquerette, la pratolina, o Bellis perennis come certificazione botanica vuole, su cui sono soliti defecare, cioè riversare i loro versi immondi, i poeti farfalloni:

b

Oh Poeti, se anche aveste
Le rose, le Rose soffiate,
Rosse su steli di lauro, 
Da mille ottave gonfiate!

Se banville ne facesse nevicare,
Sanguinolente, vorticosamente,
Pestando l’occhio folle dell’ignaro
Con letture male amorevoli!

Dalle vostre foreste e da quei prati,
Oh ben pacifici fotografi!
La Flora è diversa suppergiù
Come dai tappi di bottiglia!

I soliti vegetali Francesi,
Stizzosi, ridicoli, tubercolosi,
Su cui il ventre dei cani bassotti
Nei crepuscoli, naviga in pace;

Dopo i disegni orrendi
Di Loti azzurri o d’Elianti,
Le solite stampine rosa, soggetti santi
Per giovani comunicande!

L’Ode Açokà quadra con la 
Strofa a finestra di donnina
Allegra; farfalle fulgide
Defecano sulla Margheritina.

Vecchi erbaggi, vecchie decorazioni!
Secchi dolciumi vegetali!
Fiori lunatici dei vecchi Saloni!
– Ai coleotteri e non ai crotali,

Questi bambocci vegetali in lacrime
Cui Grandville avrebbe imposto dande,
E che furono allattati di colori
Dalle stelle maligne con visiera!

Sì, le bave dei vostri pifferi
Danno glucosi preziosi!
– A mucchi le uova fritte nei cappelli,
Gigli e Açokà, Lillà e Rose!...

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Bene, con questa reprimenda nelle orecchie, ma confortata in parte dall’esortazione a conoscere un po’ la botanica («Oh Cacciatore bianco, che corri senza calze/ Attraverso le pàniche Pasture, / Non puoi tu forse, forse non devi / Conoscere un po’ la tua botanica?»), affronto l’argomento pratoline, così dimesse, ma sempre vegete e in fiore, motivo per cui si deve quel perennis dell’aggettivazione linneana. 

È un’erbacea della famiglia delle Asteraceae, con foglie a spatola dal margine crenato, inserite sul rizoma a formare una rosetta basale da cui si ergono, su steli pelosetti, i capolini solitari dei fiori. Questi, composti da un ricettacolo di brattee pubescenti in giro duplice come la corona delle ligule bianche dei fiori esterni, talora sfumanti nel porpora, si reclinano chiudendosi di sera (o col nuvolo) per riaprirsi con la luce mattutina. Nel bottone centrale, stretti gli uni agli altri in una botanica spirale di Fibonacci, si trovano i fiori ermafroditi, tubolosi e gialli. 

A tutti nota, la margheritina veste di fresco i prati e occhieggia al primo sole: daisy è per gli inglesi forse, dicono, per contrazione di day’s eyes. Presenza comunissima, in primavera esplode nell’antesi tappezzando prati, ripe, incolti e, proprio grazie alle rosette fogliari così appiattite a terra, si sottrae alla falce e alle bocche dei ruminanti. È poi così resiliente da resistere anche al nostro screanzato calpestio, al caldo, al secco, e ai freddi invernali, quand’anche ormai ce ne fossero. Tra le indigene, oltre alla Bellis perennis, abbiamo la Bellis sylvestris che si distingue per le maggiori dimensioni, assente nelle regioni del nord ma diffusa in quelle più propriamente mediterranee, la Bellis annua dai fusti fogliosi, e altre specie endemiche come la calabrese Bellis margaritifolia o la sarda Bellium bellidioides.

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E in giardino? molte le varietà e gli ibridi disponibili a fiore piccolo o grande, semplice o doppio, che sviluppano più i fiori ligulati (Monstruosae) o quelli tubolosi del disco come la Pomponette. Usate per lo più per aiuole e bordure primaverili, tuttavia, nessuna di queste supera il tenero garbo delle pratoline disseminate in pieno campo.

Già ricordata da Plinio il Vecchio («Bellis in pratis nascitur, flore albo, aliquaternus rubente»), è cantata da molti poeti: da Shakespeare, a Wordsworth e Keats, fino al nostro Pascoli. Per mostrare ad Arturo, che avrà certo raggiunto la sua stella, la più luminosa della costellazione di Boote, come una poeta, per nulla farfallona, abbia saputo pronunciare parole sulla pratolina senza violentarne l’essenza o mercificarla, ecco una delle poesie di Emily Dickinson, la più appropriata, la più giusta:

Tranne che per il cielo, ella non esiste.
Tranne che per gli angeli — sola.
Tranne che per qualche ape vagabonda
un fiore inutilmente sbocciato. 

Tranne che per il vento — provinciale.
Tranne che per le farfalle
inosservata come goccia di rugiada
caduta sul terreno.

Una minuscola massaia tra l'erba,
eppure strappatela dal prato
e qualcuno avrà perso il volto
che rendeva l'esistenza — la sua casa!

E se volete regalare margherite, sappiate che state mandando un messaggio di grazia e bontà, ma anche d’indugio, e non sempre è bene temporeggiare.

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