Quando la poesia cura

12 Ottobre 2025

“…ti inoltravi sempre più / nel mondo, / determinato a fare / l’unica cosa che potevi fare, / determinato a salvare / l’unica vita che potevi salvare.”

I versi finali della poesia Il viaggio (The Journey) di Mary Oliver ben esemplificano lo scopo della poesia terapia, cioè l’uso del linguaggio poetico in ambito terapeutico ed educativo.

Credo di avere sempre utilizzato la scrittura come forma di autoterapia, ma quando nel 2021 iniziai a scrivere quello che poi diventò Il coltello sul vassoio (Molesini Editore, 2025) ero abbastanza consapevole di questo: solo raccontare la mia esperienza, quella di un abuso narcisistico, mi avrebbe salvata.

La poesia è un’esperienza più fisiologica che razionale. Nella prigione del trauma, bisogna evitare di rinchiudersi in un’ulteriore gabbia, quella della razionalità. Chi vive un trauma e non può parlarne può scriverne, e la catarsi ha inizio quando proviamo a liberarci dell’indicibile senza freni inibitori né timore del giudizio altrui. Credo inoltre che la poesia più incisiva possa nascere solo in uno stato di emergenza.

Anche se la materia difetta tuttora di un corpus consistente di evidenze scientifiche, diversi studi attestano che la poesia terapia può aiutare a guarire: i versi possono guarire sia chi li scrive sia chi li legge. I risultati sembrano promettenti, fra questi uno studio pubblicato su Hospital Pediatrics nel 2021 che ha valutato gli effetti della lettura e della scrittura su un gruppo di 44 bambini ricoverati in ospedale. A questi erano stati forniti carta, pennarelli, spunti di scrittura e poesie da leggere. La ricerca ha dimostrato una riduzione di paura, tristezza, rabbia, preoccupazione e stanchezza fra i partecipanti.

Uno studio pubblicato sul Journal of Child & Adolescent Mental Health nel 2015 ha registrato i pensieri di una quindicenne che si sarebbe dovuta sottoporre a un intervento di chirurgia vertebrale. Durante la psicoterapia, su incoraggiamento dei terapeuti, ha monitorato e narrato la sua esperienza attraverso le poesie, dimostrando che scrivere poesie può aiutare a dare un senso a esperienze difficili e dolorose. Bisogna poi ricordare che, dal punto di vista terapeutico, poesie esteticamente brutte possono essere ottime poesie. In un’ottica di benessere e trasformazione personale la qualità dei versi è minimamente collegata alla loro efficacia. Bisogna poter sospendere il giudizio estetico. Ciò che rende buona una poesia è piuttosto la sua autenticità, l’aderenza alla verità più intima del proprio autore, la capacità di affrontare dei tabù e di epurare le ipocrisie dalla nostra mente.

La poesia è di aiuto perché non cerca di distorcere la propria singolarità, piuttosto di accettarla e viverla più profondamente. Mira a descrivere l’esperienza umana senza inquadrarla o patologizzarla, ma accettandone anzi la natura incoerente e paradossale.

Una ricerca pubblicata nel 2005 sul Journal of Palliative Medicine ha evidenziato invece come i medici che lavorano nell’ambito delle cure palliative possano trarre beneficio dall’elaborazione della loro esperienza con i pazienti terminali tramite la scrittura di poesie.

La poesia è di supporto anche attraverso la condivisione: leggere poesie aiuta a creare legami e un senso di appartenenza fra le persone, che trovano più facilmente il coraggio di parlare apertamente dei propri momenti di malattia o fragilità, questo perché la natura della poesia è di per sé relazionale, e mira a costruire un ponte fra il poeta e il lettore. Qualcosa di simile e sorprendente è successo ad esempio nelle settimane successive all’attentato alle Torri Gemelle, quando nelle vetrine dei negozi e alle fermate degli autobus di New York spuntarono dei memoriali improvvisati concepiti attorno alle poesie. Il linguaggio comune sarebbe stato insufficiente a esprimere il trauma collettivo.

Il manuale di riferimento per la disciplina è Poetry Therapy: Theory and Practice di Nicholas Mazza, psicologo, Professore Emerito dell’Università della Florida e fondatore del Journal of Poetry Therapy. L’ultima edizione del manuale è stata tradotta in italiano da Dome Bulfaro (Poetry Therapy - Teoria e Pratica, 2019, Mille Gru). Le citazioni letterali qui riportate sono tratte da questo testo.

La Poetry Therapy vede i primi nuclei sperimentali un secolo fa negli Stati Uniti, anche se la prima Associazione per la Poetry Therapy, fondata nel 1969, si costituisce nell’albo professionale della NAPT - National Association for Poetry Therapy nel 1981. La disciplina affonda le sue radici nell’antichità: “Apollo, dio della medicina ma anche della scrittura, è stato spesso chiamato in causa come fondatore della Poetry Therapy (Brand, 1980; Leedy, 1969; Morrison, 1969; Putzel, 1975). Gli antichi greci sono stati considerati la prima popolazione capace di comprendere intuitivamente l’importanza delle parole e dei sentimenti, sia nella poesia sia nell’ambito della cura (Putzel, 1975)”. Ma già nei nativi americani “Astrov (1962) ha evidenziato il potere della parola: la parte essenziale della cura non è l’erba somministrata al malato, ma piuttosto le parole recitate assieme all’erba, prima del suo utilizzo.”

Nel 1922 Robert Graves scrive che “un’antologia ben selezionata rappresenta una cassetta di pronto soccorso completa per i più comuni disturbi mentali e può essere usata tanto come prevenzione quanto come cura”.

È importante sottolineare che “gran parte delle basi teoriche per l’uso della Poetry Therapy proviene dalla letteratura psicoanalitica. Si veda per esempio The Relation of the Poet to Day-Dreaming di Sigmund Freud. Il medico viennese riteneva che l’origine dell’arte fosse la nevrosi: “Sia la poesia che la terapia tentano la risoluzione dei conflitti interiori. Vengono usati in entrambi i casi la simbolizzazione e lo spostamento.”

 

La Poetry Therapy si basa principalmente sul modello RES, che prevede l’utilizzo di tre pratiche: R) Ricettivo/prescrittiva: la lettura di poesie a una singola persona o a un gruppo E) Espressivo/creativa: la scrittura di poesie S) Simbolico/cerimoniale: l’uso di metafore, rituali (per esempio: scrivere una lettera e poi bruciarla) e storytelling.

Si può dire che come la poesia unisce il cuore al rigore della ragione, dell’attenzione e della concentrazione, così la Poetry Therapy unisce l’arte alla psicologia clinica e alle scienze sociali.

Per gli amanti dei rimedi "pronti all'uso", in Inghilterra esiste una Farmacia poetica: una libreria che prescrive poesie come cura per l'anima. La fondatrice, Deborah Alma, inizialmente girava con un'ambulanza dispensando versi su misura in base al malessere da curare. Ora il progetto ha due sedi fisiche dove si possono trovare libri suddivisi per emozione e persino boccette con "pillole" contenenti versi stampati su carta riciclata. C’è addirittura un “armadietto dei veleni” con versi di invettiva e maledizioni. L'obiettivo è sanare le emozioni attraverso la voce dei poeti, che hanno trasformato la propria sofferenza in arte. Un'idea geniale anche per ampliare il pubblico della poesia, spesso accusata di essere distante e inaccessibile nella frenesia del mondo contemporaneo.

Mi spingerei oltre quest'idea: ogni tanto immagino un mondo in cui il poeta lavora su commissione, ricevendo le sofferenze altrui in forma grezza per trasformarle in versi. Dietro compenso, naturalmente: il sofferente vedrebbe le proprie angosce trasfigurate in forma poetica e ne trarrebbe sollievo, mentre il poeta, finalmente retribuito per la sua arte, si libererebbe dell'angoscia di dover sacrificare le proprie energie creative a lavori poco gratificanti ed estranei alla sua vocazione. Una soluzione che gioverebbe a entrambi.

Tornando a parlare seriamente delle proprietà curative della poesia, che dire dei poeti che si sono tolti la vita? I detrattori di questa forma di terapia potrebbero citare il feroce testo di Nanni Balestrini, "La poesia fa malissimo", perché la vera poesia è sempre un sondaggio nell'inconscio, un duello rischioso con la propria ombra. Penso anche alle parole di Biancamaria Frabotta "la poesia è dunque infelicità, o almeno uno dei suoi sintomi più evidenti" (Berardinelli A., Cordelli F., Il pubblico della poesia, trent’anni dopo, Castelvecchi, 2004, p.53). Anne Sexton, che iniziò a scrivere su consiglio del suo psichiatra, riuscì a creare opere straordinarie ma questo non la salvò dal suicidio, come non salvò altri. Non credo alle sicurezze ostentate e perentorie, né a una visione ingenua e sempre edificante del mezzo poetico. La lettura indiscriminata di certi autori può rivelarsi dannosa per chi attraversa momenti di crisi, poiché alcuni versi possono amplificare il dolore piuttosto che evocare vie d'uscita. È qui che diventa cruciale la competenza del terapeuta nella selezione e nell'accompagnamento, non a caso negli Stati Uniti la NAPT ha fissato degli standard per la formazione e certificazione dei propri operatori.

Merita un cenno una delle tecniche utilizzate, l’isoprincipio: richiede che l'umore di una poesia corrisponda inizialmente allo stato emotivo del paziente in quel momento, per poi accompagnarlo gradualmente verso una trasformazione. Ad esempio, a un paziente depresso potrebbe essere suggerita una poesia che parta dalla tristezza per aprirsi progressivamente alla speranza, come "Aspetta" di Galway Kinnel: “Aspetta. / Non andare troppo presto. / Sei stanco. Ma tutti sono stanchi. / Ma nessuno è stanco abbastanza. /Aspetta solo un po’ e ascolta: / musica di capelli, / musica di dolore, / musica di telai che intessono di nuovo i nostri amori”. Similmente, a chi vive l'ansia potrebbero essere proposte poesie che riconoscano l'inquietudine per poi guidare verso la calma, creando un ponte emotivo che il paziente può attraversare senza sentirsi forzato verso sentimenti estranei al suo stato presente.

Nella modalità Simbolico/cerimoniale si fa un uso estensivo della metafora, proprio per tacere di ciò di cui non si può parlare direttamente. Quali potrebbero essere le immagini, le sensazioni, i suoni evocati da una perdita o da un altro evento significativo? Il linguaggio figurato dei versi può aiutare a esprimere l’irrazionalità di una sofferenza a cui non si riesce a dare voce, ad aumentare il senso di controllo su quanto vissuto. Si sposta così la crisi fuori, a una distanza più sopportabile.

Nella mia esperienza di scrittura, scopro a posteriori di aver sperimentato in contemporanea la seconda pratica, quella Espressivo/creativa, e la terza, quella Simbolico/cerimoniale, come accade a molti. A distanza di anni posso affermare che, nel mio caso, l’esperimento sembra riuscito, ma immagino che a volte i pensieri si infilino in un nido di pensieri sempre più cupi fino a rendere indistricabile il garbuglio del dolore.

Fra gli scettici nei confronti delle possibilità curative della poesia, Gilda Policastro che in Il metaverso (QuodLibet Elements, 2024, p. 88) scrive: “Probabilmente […] non è una cura la poesia […] ma sicuramente quando centra il punto è un ottimo palliativo”.

Se scrivere poesia non potrà guarire tutte le ferite, potrà senz’altro insegnarci a convivere con queste e magari, un giorno, potremo vederle trasformate in lucenti cicatrici. Anche questo è un riscatto. Nella stanza del dolore c’è una porta, ma noi non la vediamo. Scrivere ci aiuta a immaginarla.

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