Thomas Schütte e Thierry De Cordier
Anche i ricchi hanno un’anima? Mai come di questi tempi se ne dubita, comunque eventualmente ce l’hanno gli artisti, che gliela prestano. Non si venga subito a controbattere: in cambio di soldi. I soldi non necessariamente sono i trenta denari, e anche di quelli non sono mancate le interpretazioni redentive.
Volevo segnalarli come due Van Gogh dei nostri tempi, ma poi ho letto una dichiarazione di Thomas Schütte, uno dei due, che non crede nella storia fatta a colpi di Van Gogh – ma d’altronde, ho pensato io leggendola, non l’avrebbe detto anche Van Gogh, mutatis mutandum? – e inoltre mi si sarebbe contestato appunto che Vincent non ha mai venduto un quadro e invece questi due vendono a suon di centinaia di migliaia di euro.
Comunque la questione resta posta e i termini a me sembra che continuino a rimanere molto vicini. L’arte di entrambi nasce da un disagio sofferto a livello individuale e tematizzato in modo originale a livello artistico. Entrambi hanno scelto una vita ritirata, che è più facile da dirsi che da farsi. Ora hanno settant’anni e successo, ma il loro percorso non è stato facile, tant’è che non sono così famosi fuori da una certa cerchia. Sono rimasti duri e hanno approfondito, non accomodate, le loro posizioni.
Uno è tedesco e l’altro belga. Del tedesco, Thomas Schütte, la grande mostra è alla Punta della Dogana, a Venezia (fino 25 novembre). In Italia l’abbiamo visto diverse volte alla galleria Tucci Russo di Torino, due volte da Christian Stein a Milano, poi nel 2012 al Castello di Rivoli con le Frauen, mai, credo, alla Biennale di Venezia. Ha passato un periodo a Roma nel 1992, dove, guarda caso, ha realizzato diverse opere ispirate alla morte di Pasolini, alcune presenti nella mostra veneziana. Alla “Documenta” di Kassel del 1992 sbalordì con i Fremden, gli sconosciuti, esposti sul cornicione dell’edificio accanto al Fridericianum, con scatole e altri contenitori accanto per terra, come appena arrivati da chissà dove. Erano una delle presenze più conturbanti dell’intera “Documenta” e facevano da contrappunto significativo dell’uomo sul palo di Jonathan Borofsky che camminava verso il cielo.
Alcune sue figure, spesso gigantesche, sono indimenticabili: gli uomini bloccati nel fango, i nemici legati tra di loro, i volti deformati dalle smorfie della grettezza di ogni genere, i grandi spiriti. Per la prova finale dell’Accademia presentò il progetto della propria tomba: prevedeva di morire nel 1996.

La mostra veneziana ci accoglie con un triplo choc: all’esterno, davanti all’entrata, c’è una enorme Madre Terra (2024) a dir poco conturbante – è una nuova scultura che fa da contrappunto a una del 2010 che si incontrerà inaspettatamente a un certo punto del percorso ripetendo lo choc per come è esposta e intitolata Padre Stato; nel corridoio di entrata c’è invece Willy (1992), che pare un fantoccio woodoo, con il corpo composto da due bottiglie di vino vuote, le braccia aperte che sembrano quelle dei fantocci da giostra medievale e la testa piena di spilli; quindi si entra nella prima grande sala e ci si trovano davanti tre possenti Uomini nel vento (2018) con i piedi bloccati nel fango. Poi è una sorpresa dietro l’altra: le teste deformi, i nudi femminili contorti, i modellini e progetti delle architetture bunker, disegni e progetti da grandi a piccoli, e nelle stanze grandi, sempre altri choc: prima i tre Uomini dell’efficienza (2005) che ci sovrastano minacciosi, poi i tre argentei Grandissimi Spiriti (1998-2004) gesticolanti. I materiali sono i più vari, tutti maltrattati, come presi a pugni, dall’argilla prima delle fusioni, alla ceramica al vetro, ma anche il disegno, la gouache, l’acquarello, tutto è fatto con l’urgenza dell’espressione e la determinazione del pensiero, nessuna leziosità, nessuna retorica.
Il documentario proiettato in una delle sale è molto interessante, lo si vede al lavoro, parla poco, non molla mai, è intensissimo. Il catalogo (Marsilio editore) è all’altezza della situazione, grande formato, tutte le opere a colori divise in sezioni tematiche ciascuna con dettagliata introduzione tecnica e non solo, testi delle curatrici Jean-Marie Gallais e Camille Morineau e di Antonia Boström di grande interesse.
Dimenticavo, il titolo della mostra è Genealogie, che naturalmente si può e deve intendere in vari modi, quanto a me sintetizzerei con: la storia viene da lontano, ma ci siamo dentro tutti. Sono i suoi fantasmi, le sue ossessioni, ma che vengono appunto da lontano e diventano anche le nostre. Proprio perché non c’è retorica e il percorso senza esitazioni, sembrano esserci da sempre o apparirci dal passato ma proprio fin davanti a noi. È come un “è così”, devi farci i conti, è la genealogia di tutti.
Thierry De Cordier, belga, espone alla Fondazione Prada di Milano (fino al 29 settembre). L’ho conosciuto all’inaugurazione della sua prima mostra in Italia, nel 1987, in una galleria di Milano che si chiamava Grazia Terribile. Ricordo che c’era la scritta “Gracias por las 4 sardinas”, poi più volte ripetuta e variata in tante occasioni, c’era una sorta di autoritratto con bucce di patate cucite su una palla forse di creta, altre opere ancora, tra cui un Discorso alpino che acquistai subito, tanto mi aveva colpito la sua opera e la sua personalità. L’anno dopo ci vedemmo in fiera a Milano e lui mi mostrò un paio di suoi quaderni, tutti pieni della sua calligrafia caratteristica e tanti bozzetti. Parlammo per una mezz’ora, poi ci perdemmo di vista, fino a tutt’oggi.
Ogni sua mostra o intervento mi è sempre apparso originale e forte. Per “Skulptur Projekte”, la grande e prestigiosa rassegna internazionale che si tiene a Münster ogni dieci anni, aveva costruito nell’edizione del 1987, una sorta di pedana che serviva da pulpito da cui rivolgere i “discorsi”, come quello “alpino”, rivolti al mondo intero, posizionata sul fianco destro della facciata della famosa cattedrale. Alla “Documenta” del 1992, a Kassel, aveva realizzato un Autoritratto crocifisso con davanti Après le paysage, tre sculture nere genericamente somiglianti a delle montagne che erano piene di spazzatura organica, la quale, ricordo, dopo un po’ colava per terra impestando di puzza tutto il Fridericianum. Poi l’abbiamo visto almeno tre volte alla Biennale di Venezia, una nel Padiglione belga a lui dedicato con tre grandi Scriptorium nel 1989 e l’ultima nel 2013 con i suoi grandi quadri intitolati Mer du Nord nel Padiglione centrale, e alla galleria Zerynthia di Roma nel 1996 con un titolo emblematico “Je suis le monde”.

De Cordier ha di van Gogh l’impostazione predicatoria, fa discorsi al mondo e al tempo stesso vi si identifica, è questa sovrapposizione che sostiene il suo agire: in fondo i discorsi che si fanno agli altri li si fa a sé stessi, e viceversa. E ancora, vedi la presente mostra: qual è l’argomento del discorso? “Nada”, che è il titolo. Perché in spagnolo? Perché tutto è nato dal dono di quelle “4 sardinas” in Spagna e perché rimanda al nada di San Giovani della Croce. Misticismo? Paranoia? Anche Dalì vi aveva fatto riferimento. E a Dalì si pensa subito appena entrati in mostra, dove si viene accolti da un’alta parete fatta costruire apposta, in cui campeggia un grande dipinto dominato da un crocefisso che finisce in alto in blu così scuro che non si vede il volto del Cristo, ma una luce lascia leggere il cartiglio su cui è scritto: “¡Jesus volando!”, e l’unico crocifisso volante che io conosca è appunto quello di Dalì ispirato a una visione di Giovanni della Croce.
Si parte dunque da un rovesciamento, il volo, l’elevazione, invece dell’umiliazione e della morte, dunque il blu, che aumenta sempre più nei dipinti seguenti fino a rendere indistinguibile la figura del crocifisso, va inteso come profondità del volo, del cielo, della notte. Quindi il nada non va inteso come un’assenza, una sottrazione, né il suo opposto, ma il suo altro, il suo mistero, la sua vertigine. Gli artisti hanno spesso scritto o risposto alle domande degli interlocutori che non hanno niente da dire al di fuori di quello che mostrano, che vediamo. De Cordier va più in là, vuole dipingere questo nada. È un paradosso, ma un paradosso reale, uno di quelli che l’arte si trova di fronte, o che trova dentro di sé.
Naturalmente i rimandi sono molti, si può percorrere tutta l’iconografia della crocifissione. Molti esempi li ripercorre Bart Verschaffel nel testo del Quaderno della Fondazione dedicato alla mostra, da Beato Angelico a Grünewald a El Greco a Rubens, e si potrebbero ricordarne anche di più contemporanee, quelle di Malevič, che pure parlava di Nulla, per esempio, o quelle di Arnulf Rainer poi. De Cordier peraltro aveva già fatto un’operazione molto simile, e forse introduttiva a questa, con il Cristo morto di Holbein nel 2004, dall’orizzontalità così impressionante e claustrofobica, sicuramente l’opposto della verticalità dominante di questa volta. Ma ciò che ci è chiesto è altro e il rimando forse più importante mi sembra quello alla Cappella Rothko alla Fondazione De Menil, a Houston, anche nell’impianto. De Cordier infatti, ho anticipato, ha fatto costruire tre alte pareti, una per stanza espositiva, disposte proprio come le pareti della Cappella Rothko. E del resto il rimando a quel colore e a quel “sublime”, a quel quasi monocromo sono tanto inevitabili quando indicativi. Ogni parete dunque riporta due grandi dipinti sui lati lunghi e due piccoli su quelli brevi. I dipinti grandi, come dicevo, vanno oscurandosi sempre di più, nei più monocromi sembra di non distinguere più niente, ma se si guarda di sbieco si scopre la figura che rimane sotto – coperta, cancellata, negata: scherzi della dialettica della negazione (De Cordier dice di chiamarla “pittura negativa” come si dice “teologia negativa”) – e in ognuna c’è in realtà una parola o una frase scritta. Le lascio scoprire, non voglio indugiare.

Piuttosto vorrei insistere per concludere sul richiamo alla “profondità” di questo Nada. È difficile che quanto a profondità si trovi qualcosa di così impressionante di questo, non importa cosa si pensa, cosa ci può essere di sbagliato o discutibile per gli uni o per gli altri, questa profondità è più profonda sia della presenza che dell’assenza, è la profondità stessa, quella dell’entrare – quella opposta all’“immersività” forse. A me sembra che faccia il paio con la pervasa genealogia antropologica di Schütte.
