La valutazione

30 Aprile 2013

“Come è accaduto che pratiche apparentemente innocue, volte semplicemente a verificare in che modo siano adoperati soldi pubblici, a tenere sotto controllo gli sprechi, a garantire che ai cittadini siano offerti servizi di qualità sempre migliore, si siano potute installare nella nostra vita secondo dimensioni e modi tali da produrre una condizione che non è improprio definire totalitaria?”.

 

Valeria Pinto, docente di filosofia teoretica, ha recentemente pubblicato Valutare e punire, un libro di filosofia della cultura che partendo dalla questione contingente del sistema di valutazione dell’istruzione e della ricerca, Invalsi e Anvur, affronta il tema dell’ideologia della valutazione: uno strumento tutt’altro che neutro e oggettivo, in quanto insieme di pratiche di sapere e potere che trova nelle società neoliberali un’applicazione sempre più pervasiva.

 

La valutazione, che si presenta come un rispecchiamento oggettivo della realtà, è piuttosto “uno strumento informativo-operativo” che “crea le realtà limitate che di volta in volta valuta (ossia indirizza, modifica, determina)”. È dunque un “dispositivo ‘governamentale’” nel senso foucaultiano dei termini: un’antropotecnica, un fattore di produzione di forme di vita; in questo caso un prodotto di ingegneria sociale correlato della forma mentis dell’homo œconomicus.

 

Dalla scuola elementare a quella superiore la sostanza del discorso sulla valutazione che sta alla base delle rilevazioni europee e internazionali, quelle che ogni anno vengono diffuse e commentate dai media, non cambia; alla luce della medesima ratio mutano le tecnicalità specifiche e gli ambiti dei soggetti valutati, a seconda dei casi gli studenti attraverso rilevazioni periodiche dei risultati e i docenti attraverso il censimento dei risultati del loro lavoro, misurati in voti, competenze accertate, numero di promossi/bocciati, risultati raggiunti.

In questi giorni si parla molto di valutazione, in vista delle prove Invalsi, per le cui somministrazioni sono già state annunciate numerose iniziative di protesta nel mese di maggio. A fronte del giudizio positivo, che, nonostante alcune criticità, fornisce la Fondazione Agnelli difendendo le ragioni della governance, sono diverse le critiche che il mondo dei lavoratori della scuola avanza, a partire dal contesto attuale, ovvero della specifica situazione politica e contrattuale del mondo della scuola.

 

Vissuta come la più naturale (ma anche traumatica) delle vicende dagli studenti fin dal primo giorno di scuola, la valutazione è problematica, da qualsiasi punto di vista la si guardi. Non è facile valutare uno studente in generale, non è corretto valutare un docente dai ‘risultati’ dei suoi allievi in termini assoluti, è metodologicamente insensato valutare i risultati dalla ricerca rispetto a finalità extrascientifiche: principalmente perché il sapere è qualcosa di incommensurabile, a meno che non lo si tecnicizzi in senso riduzionista, riducendolo ai suoi ‘prodotti’, che, paradossalmente, diventano oggetto di valore proprio nel momento in cui nella loro vitalità sono distrutti dalla cristallizzazione che un potere, anche piccolo come quello del giudizio su una performance in un determinato contesto con precise regole, opera.

Il compito della valutazione, ad esempio quella che ogni giorno viene fatta nelle aule, risponde invece a una logica diversa che tiene conto dei processi di apprendimento, in un contesto di obiettivi educativi, cognitivi e didattici o di competenze da attivare ampiamente diversificato quante sono le realtà sociali a cui la scuola fa riferimento in ogni ordine e grado.

 

Non è mistica neoidealista: l’applicazione della certificazione di qualità che viene dal mondo dell’industria non può funzionare per valutare l’educazione; la ricerca e le forme di valutazione dovrebbero essere sempre più sensibili e complesse, tenendo conto di fattori socio-culturali e ambientali difficilmente misurabili e degli incrementi dei risultati in periodi lunghi. Ovviamente per fare questo ci vogliono risorse e competenze che gli attuali bilanci non prevedono.

L’impressione è che nonostante i tentativi (alcuni onesti) di creare valutazioni intelligenti del sistema scuola, nel precipitato della realtà la ‘formazione’ che viene pensata per le scuole pubbliche nel nuovo millennio diventi sempre di più addestramento al superamento di test. Prima per superare interrogazioni e verifiche, dopo per diventare studenti universitari, laureati o specializzati o per diventare insegnanti di ogni ordine grado.

Premesso che l’idea di una scuola senza voti che smonti il nesso comportamentista prestazione-ricompensa rimane un sogno e che forme di valutazione tout court non possano non esistere per la loro correlazione con le istituzioni del mondo globalizzato, al netto dei vari distinguo, la valutazione in atto appare perniciosa e ottusa.

 

Quale che sia l’idea che ne abbiamo rimane il fatto che una concezione della valutazione è strettamente connessa a quella della scuola all’interno della società; in alternativa: come strumento di selezione, distinzione ed etichettamento tramite titoli, più o meno coincidenti con le competenze possedute in vista della società produttiva, oppure come luogo di scoperta, crescita, emancipazione che si rivolge a capacità di integrare le proprie conoscenze in ambito esistenziale verso il mondo adulto, che implica ulteriore formazione e cambiamento.

Parliamo di questo con Girolamo De Michele, docente, studioso e scrittore.

 

 

Il convegno di Ferrara del 20 aprile ‘Quale valutazione per quale scuola?’ organizzato dal Centro Studi per la Scuola pubblica (Cesp) e dal Coordinamento per la scuola pubblica di Ferrara sceglie il tema della valutazione come fuoco per fare il punto su una situazione della scuola italiana oggi.

La prima cosa che colpisce i docenti in senso negativo è la forma dei test: tempistiche, modalità di richiesta, scelta multipla e ‘tonnare’ obbligate contraddicono di fatto, per le competenze messe in atto, il tipo di lavoro cognitivo che una buona pratica pedagogica e di insegnamento persegue, la stracitata ‘testa ben fatta’. Del resto una simile logica è la stessa nei test di ingresso all’Università e, seppur in maniera diversa, nella selezione del personale docente, come è avvenuto in occasione delle recenti prove concorsuali. Tutti sembrano d’accordo nel ritenere i test come mezzi inadeguati alla selezione, ma di fatto poi ovunque sono diventati una pratica sistematica.

In che modo sono stati pensati e con quali finalità i test come quelli PISA e nello specifico le prove Invalsi? Ti chiedo una sintesi dell’analisi che hai già esposto in diversi ambiti a partire dal tuo importante libro La scuola è di tutti del 2010. Qual è di fatto la funzione reale che viene a svolgere questa cultura della valutazione in un’ottica allargata e politica, e in definitiva, a chi giova?

 

Per rispondere alla tua domanda bisogna fare riferimento al Rapporto Eurydice 2009 (Prove nazionali di valutazione degli alunni in Europa: obiettivi, organizzazione e uso dei risultati, a cura dell’EACEA – Agenzia esecutiva per l’istruzione, gli audiovisivi e la cultura della Commissione Europea), che per ben due volte mette in guardia dall’uso improprio di un unico test per più obiettivi: “gli esperti in valutazione hanno ricordato che l’utilizzo di un singolo test per più finalità potrebbe essere inappropriato, in quanto ciascun obiettivo richiede tendenzialmente informazioni diverse. Questo potrebbe ad esempio essere il caso in cui un sistema di valutazione teso principalmente a misurare il rendimento degli alunni sia anche utilizzato per responsabilizzare gli istituti o gli insegnanti, oppure in cui lo stesso test presenti obiettivi formativi e sommativi” [p. 64]. Questo perché sono le stesse fonti, gli stessi esperti, gli stessi “tecnici” a cui si richiamano i devoti della valutazione a smentire la validità dei processi di valutazione in atto. I test di valutazione, soprattutto quelli INVALSI, pretendono di valutare in modo quantitativo, cioè attraverso una graduatoria numerica, dei processi qualitativi, cioè gli apprendimenti – o, per meglio dire, gli “ambienti di apprendimento”. Di fatto, tutto ciò che non è quantificabile e riducibile a numero viene escluso dalla valutazione, e quindi non considerato all’interno del processo: nessun ruolo giocano la capacità di riflessione e di autoriflessione, di correzione meditata dei propri errori, la cooperazione nella risoluzione di problemi, la ricerca di più strategie di risoluzione, la dimensione problematica del sapere e dell’apprendimento. Per fare un esempio banale, si dà per scontato – ed è inevitabile che sia così, nell’ottica della misurazione quantitativa – che ci sia una sola interpretazione corretta di un testo letterario, una sola strategia di risoluzione di un problema matematico, ecc. Questa, per chi mastica appena i rudimenti della didattica, non è valutazione, ma misurazione. Sulla base di questa misurazione spacciata per valutazione si pretende poi di valutare l’intero sistema dell’istruzione, col sempre meno nascosto scopo di elaborare strategie utili alla selezione del personale docente. A chi giova? A chi vuole smontare la scuola pubblica per venderne o subappaltarne interi settori alle lobby dell’istruzione privata, in primo luogo la Compagnia delle Opere, ossia Comunione e Liberazione. Non è un caso che un ruolo di primissimo piano nell’elaborazione degli strumenti di valutazione sia giocato da personaggi come Elena Ugolini e Giorgio Vittadini, esponenti di punta di Comunione e Liberazione.

 

 

‘Meritocrazia’ è una di quelle parole magiche e ambigue che possono celare concezioni autoritarie della scuola. Tra le iniziative recenti del Miur rientra la valutazione del lavoro dei docenti, presentata come ‘autovalutazione’. Cosa prevede il piano varato a marzo 2013?

 

Il Sistema Nazionale di Valutazione è stato approvato lo scorso 8 marzo a dispetto del parere espresso il 20 novembre 2012 dal Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, che aveva definito il regolamento sul SNV “un impianto rigido [che] non lascia margini per una reale pratica da parte delle scuole e dei suoi attori, finalizzata alla perfettibilità in itinere del processo”, e dichiarato che “il provvedimento appare pertanto segnato da una redazione eccessivamente generica ed affrettata che rende la bozza in esame al di sotto delle esigenze maturate sul versante di questo delicato problema”; a questo giudizio generale seguivano quattro specifiche osservazioni negative, tra le quali la prima era che “le scuole rischiano di essere ridotte a puro ‘oggetto’ della valutazione e non parte attiva del processo sperimentale (e ciò richiederebbe in primo luogo investimenti mirati), in netto contrasto con il profilo giuridico delle IIS che sono riconosciute come titolari di una autonomia costituzionalmente garantita”; tre “elementi non condivisibili e problematici”, tra i quali “un evidente squilibrio fra i soggetti cardine del sistema, con un ruolo eccessivo dell’Invalsi chiamato ad operare senza che siano stati definiti prioritariamente i livelli essenziali di istruzione e formazione; appare inoltre del tutto eluso il ruolo che il personale della scuola può essere chiamato ad assumere in relazione alla costituzione dei previsti nuclei di valutazione”; infine, quattro punti critici. Con inaccettabile arroganza, lo schema licenziato da un governo dei tecnici sfiduciato dall’elettorato (ma non dalla BCE e dal presidente Napolitano) afferma che le proposte emendative del CNPI “non comportano la necessità di apportare modificazioni all’articolato, già idoneo a soddisfare le esigenze manifestate da tale organo”.

Era una premessa necessaria, per capire l’arroganza con la quale il mondo della scuola è tenuto a confrontarsi. Nello specifico, l’autovalutazione diventa per le scuole un obbligo: ogni istituto dovrà redigere un rapporto di autovalutazione, secondo un format elettronico redatto dall’Invalsi, e con la predisposizione di un piano di miglioramento. Se le parole hanno un senso, ci si chiede quale possa essere quello di una valutazione che si definisce autonoma, ma che deve avvenire sulla base di un “format” [sic!] redatto da un ente esterno. Ma soprattutto: si introduce un obbligo in assenza di un Contratto Nazionale che lo preveda. Le scuole, infatti, dovranno far svolgere al proprio personale questo compito, e quindi si rende di fatto obbligatoria l’istituzione di una commissione per l’autovalutazione: ma questi compiti non sono previsti dal contratto di lavoro, non sono un obbligo di servizio, e dunque non è prevista neanche un’adeguata retribuzione. Gli insegnanti saranno obbligati a svolgere compiti aggiuntivi che non sono di loro spettanza: in questo modo, con uno schema di decreto, si modifica di fatto il Contratto di lavoro, il cui rinnovo è stato bloccato da anni.

 

 

Il modello americano fa giudicare i suoi docenti dagli studenti, da pari e superiori. Ma un tale sistema potrebbe creare forme perverse di marginalizzazione dei docenti per motivi che poco hanno a che fare con la funzione docente. In termini ideali capire come sto lavorando e migliorare la mia capacità di insegnare mi interessa, ma sotto quali condizioni e con quali strumenti una ‘autovalutazione’ può funzionare realmente?

 

Sul modello americano circola da tempo un testo di straordinaria forza argomentativa redatto da Chris Hedges, un giornalista che dopo aver raccontato la guerra in Iraq è tornato nel proprio paese per raccontare un’altra guerra: quella intentata dai governi, locali e nazionale, degli Stati Uniti al sistema d’istruzione pubblico. Il documento si intitola Perché gli Stati Uniti distruggono il loro sistema scolastico, e può essere facilmente reperito in rete googlando il titolo. E proprio in questi giorni un vasto movimento di protesta contro i tagli e le chiusure delle scuole si sta sviluppando a Chicago.

L’autovalutazione sarebbe uno strumento davvero utile se fosse svolto in certe condizioni: una reale autonomia degli istituti che decidono come e cosa valutare, in che tempi e con quali finalità, a partire da una condivisa conoscenza della propria scuola, dell’ambiente in cui la scuola è situata e col quale interagisce. È evidente che una simile valutazione sarebbe diversa da scuola a scuola, perché l’analisi del contesto di base non potrebbe non determinare la qualità e la quantità degli strumenti e delle risorse da impiegare: sarebbe una valutazione utile a far progredire i processi di apprendimento, non a stipulare classifiche di scuole buone e cattive.

 

 

I voti a scuola: qualche tempo fa un manifesto di intellettuali francesi proponeva l’eliminazione dei voti dalla scuole elementari. Esistono esperienze virtuose di valutazione illuminata o assenza di sanzionamento che potremmo assumere nel sistema italiano? I paesi scandinavi sono spesso indicati come modello pedagogico di riferimento.

 

I voti nella scuola primaria e secondaria di primo grado sono stati reintrodotti in Italia da Gelmini e Tremonti, sulla base del principio che “la mente umana è semplice, e risponde a stimoli semplici”: una idiozia cognitiva che neanche ai cani di Pavlov sarebbe potuta venire in mente. La scuola elementare senza voti era – così dicono le ricerche e le valutazioni internazionali – tra le migliori del mondo: e questo dimostra che una scuola che al numero secco sostituisce il giudizio articolato, che ha come obiettivo non la classifica, ma l’acquisizione della capacità di autovalutazione da parte degli alunni, non solo è possibile, ma funziona bene. Come i famosi sistemi scolastici scandinavi – io cito sempre quello svedese, perché ho avuto modo di conoscerlo attraverso uno scambio e un confronto con i colleghi di quel paese – che tutti citano come modello da imitare, senza mai dire cosa di quei sistemi bisognerebbe imitare. Per conto mio: l’assenza dei voti sino a 14 anni, e l’introduzione del modulo anche nella scuola secondaria superiore.

 

 

Dai massimi sistemi alla esperienza quotidiana: trovo la valutazione degli studenti uno dei punti più gravosi e delicati del nostro lavoro. In particolare per materie come filosofia, lettere, storia (le vecchie ‘scienze dello spirito’ che oggi potremmo definire ‘discipline del senso’), essa è un atto ermeneutico con buoni margini di arbitrarietà. Per buona prassi uniamo il rispetto di obiettivi condivisi tra colleghi e con gli studenti (contenuti, linguaggio argomentazione), ma in più dobbiamo tenere conto di chi si sta valutando: da dove viene in termini socioculturali e esistenziali e di come sta lavorando rispetto a un progetto comune e un patto formativo condiviso nel contesto del gruppo classe, dell’anno e del percorso.

Ciononostante patisco l’autorità che la valutazione mi attribuisce e la presenza dei biases che sono sempre inconsci a dispetto di ogni attenzione; inoltre ci sono differenze nelle capacità di linguaggio e analisi che in ultima istanza sono irriducibili per il loro radicamento nel soggetto. Qual è il tuo rapporto con la valutazione nel tuo lavoro?

 

In primo luogo un rapporto improntato alla trasparenza: i miei criteri di valutazione sono sempre esposti con chiarezza nella traccia delle verifiche scritte, e quando il tempo lo consente cerco di far discutere gli studenti dopo la verifica orale prima di assegnare il voto, affinché ne capiscano le ragioni. In secondo luogo, mi attengo alle competenze, alle capacità, al livello di possesso dei contenuti e di elaborazione delle informazioni descritto nel documento di programmazione iniziale. Ma spesso ho l’impressione di combattere contro i mulini a vento – ma questa, direbbe l’indimenticabile Moustache, è un’altra storia...

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