The State of Play

31 Dicembre 2014

Quando parliamo di fotografia a cosa intendiamo riferirci?

Potrebbe sembrare una domanda retorica, al più una provocazione. Tutti, infatti, credono di sapere cosa sia una fotografia e, in un certo senso, è proprio così: almeno al livello del senso comune è molto difficile che un interlocutore nutra dubbi su cosa si vuole intendere quando si parla di fotografia. La domanda diventa invece di stretta attualità quando capita di leggere un intervento quale quello che ha recentemente pubblicato sul proprio blog Michele Smargiassi. Se sembra una foto, è meglio che lo sia, questo il titolo, muove dalla nota vicenda di un documentario fotografico pubblicato nel 2012 da Carlo Bevilacqua sul sito del New York Times e in seguito sbugiardato dallo stesso editore statunitense a causa di alcune immagini ottenute grazie al copia e incolla di elementi che non figuravano nello scatto originale. Il “caso Bevilacqua” offre a Smargiassi l'occasione per polemizzare contro ciò che definisce “la grande tentazione del nuovo pittorialismo digitale”: in estrema sintesi, Smargiassi critica aspramente la tendenza a trasformare le fotografie in “fotopitture”, ossia immagini completamente “domate” dal fotografo nelle quali viene meno ogni possibilità di far riferimento a “un reale veduto e non immaginato”. Il punto per Smargiassi è che “se un'immagine sembra una fotografia, deve esserlo”, mentre se si tratta di una “fotopittura” è necessario che il fotografo lo dichiari esplicitamente affinché chiunque la guardi ne sia consapevole.

 

Questa esigenza sarebbe ancora più forte nel caso dei reportage che, se interpreto bene il pensiero di Smargiassi, sono oggetti culturali che andrebbero collocati su un piano ontologicamente diverso rispetto a ogni forma d’immaginario d'artista. La lettura del breve pezzo mi ha indotto a una serie di pensieri che si sono sovrapposti ad altri più ricorrenti, quasi endemici. Provo ad esporli iniziando proprio dal tema del reportage. Le polemiche che hanno accompagnato il lavoro di Bevilacqua si basano sull'assunto che il reportage (e più in generale la fotografia documentaria) ha un rapporto privilegiato, direi indissolubile, con la verità. Il peccato del fotografo italiano sarebbe dunque tanto maggiore perché non solo ha tradito la fotografia ma, ed è qui la sua maxima culpa, ha tradito anche la missione di verità e il valore di testimonianza diretta associati tradizionalmente alla forma documentaria. In realtà, è agevole dimostrare che un simile assunto è errato sia in termini assoluti sia nello specifico del discorso mediologico. È errato perché immaginare un fotografo che possa documentare in maniera oggettiva una qualsiasi realtà osservata significa negare le più elementari conquiste della fisica.

 

Come è noto, nella meccanica quantistica (a tutt'oggi la descrizione scientifica più accreditata dei fenomeni atomici e subatomici) è centrale il presupposto dell'interdipendenza tra soggetto (osservatore) e oggetto, ne consegue che qualsiasi atto di misurazione, di campionamento, di registrazione produce cambiamenti nella realtà osservata. Applicando tale principio alla fotografia risulta che il fotografo impegnato in un reportage modifica continuamente (nulla importa se coscientemente o meno) la realtà che vorrebbe documentare in maniera oggettiva. Se ciò è vero, che senso ha distinguere tra le alterazioni del mondo là fuori che avvengono a livello di particelle elementari e quelle che si realizzano in uno studio di post-produzione?

 

Le cose non cambiano di molto se le si osserva attraverso la lente mediologica: infatti, anche da tale prospettiva, l'assunto della superiore verità della foto documentaria si rivela nulla più che una favoletta per menti semplici. È ben noto, ma non posso fare a meno di ricordare che, sin dai suoi primi vagiti, la fotografia ha mostrato una predisposizione naturale e un'irresistibile attrazione per la menzogna. Tra gli espedienti per costruire realtà a beneficio della macchina fotografica è sufficiente menzionare la composizione e la messa in posa. Si tratta di argomenti ampiamente dibattuti (anche da Smargiassi). Per non dilungarmi ulteriormente mi limiterò a citare un solo folgorante esempio proposto da Vilém Flusser, il teorico dei media, a proposito dei reportage di guerra: un fotografo si appresta a realizzare alcune foto dell’esecuzione di un gruppo di prigionieri vietcong posti di fronte una parete nera; per ottenere una foto migliore, chiede ai soldati di spostare i condannati a morte davanti a una parete bianca. In questa maniera – osserva Flusser – il fotografo diventa una sorta di sceneggiatore della guerra in Vietnam. A tal punto viene da chiedersi, quello di tale fotografo di guerra è forse un delitto meno grave di un copia e incolla effettuato al computer?

 

Ancora in tema di reportage di guerra, è fin troppo chiaro che là dove gli interessi in gioco sono molto alti, il già labile legame tra fotografia e verità diviene del tutto inconsistente ma, anche a voler tacere delle manipolazioni poste in essere da governi e gruppi di potere allo scopo di dar vita ad eventi politici, mi è difficile immaginare un reportage in grado di documentare oggettivamente  scenari di guerra. Lo dice bene Flusser: la consapevolezza della presenza di una macchina fotografica cambia l'atteggiamento degli attori degli eventi fotografati, che, consapevoli di essere osservati da un apparato (non diversamente da come siamo consapevoli dell’esistenza di uno specchio nel momento in cui entriamo nel nostro bagno), mutano il loro atteggiamento.

 

In definitiva, anche guardando le cose da tale punto di vista, si giunge alla medesima conclusione: il fotoreporter non potrà che fotografare un evento che è alterato dalla sua stessa presenza. La più grande mistificazione del valore di testimonianza della fotografia non è però avvenuta in occasione di guerre, bensì durante la grande stagione della cosiddetta fotografia sociale, tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso. L'esperienza della Farm Security Administration (FSA) e l'opera di fotografi come Walker Evans sono ampiamente note, esse hanno dato vita ad un colossale fraintendimento per cui un'iniziativa preordinata ad ottenere consensi rispetto all’indirizzo politico di Roosevelt (espropriare terre a piccoli e medi proprietari e porre le basi per la creazione di grandi aziende agricolo-industriali nel Sud degli Stati Uniti) è stata travisata come il momento di impegno sociale più alto di una generazione di fotografi (nella realtà assai poco empatici verso i soggetti fotografati) e di una fotografia documentaria intesa come testimonianza dell’universalità della condizione esistenziale umana.

 

Uno tra i più attenti studiosi del tema, lo svizzero Olivier Lugon, conclude che per Evans e gli altri fotografi coinvolti nell'esperienza della FSA l'approccio documentario riflette una scelta estetica (frontalità e impersonalità della fotografia, assenza di messa in scena ecc.) più che un'attenzione al sociale. Del resto – osserva acutamente Ando Gilardi – questi stessi fotografi non mostrarono alcuna attenzione per la ben più grave crisi industriale statunitense (ad esempio, non si hanno fotografie degli efferati massacri di operai avvenuti durante le manifestazioni del periodo che va dal 1933 al 1935).

 

Credo ci siano elementi sufficienti per assolvere Bevilacqua dall'aggravante di aver offeso un genere, il reportage, che – alla luce dei fatti – non gode di alcun rapporto privilegiato con la verità. Come ogni altra foto al mondo, anche quelle incluse in un reportage saranno vere o mendaci secondo il punto di vista di chi le guarda e i contesti storici e sociali nei quali verranno esibite.

 

Rimane però da smontare l'accusa principale. Sono dunque costretto ad affrontare la madre di tutte le questioni, ossia quella relativa alle possibilità di modificare una fotografia offerte dal digitale. La diatriba tra coloro che ritengono che le immagini digitali si siano allontanate dalla realtà sino al punto di perdere ogni legame con un referente reale e quanti si oppongono a tale conclusione è a tal punto stucchevole che mi limito ad appellarmi al buon senso formulando alcune semplici domande (queste sì retoriche): le tecniche per il ritocco fotografico non sono forse nate insieme alla fotografia? Esiste qualcuno disposto a sostenere che si siano affermate solo in seguito alla diffusione del software Photoshop? Il famoso finto autoritratto d’annegato di Hippolyte Bayard non è forse datato 1840?

 

Quale che sia la nostra posizione al riguardo su un punto credo si possa essere d'accordo: il digitale ha modificato in maniera straordinaria la fotografia al punto che oggi siamo di fronte a un nuovo tipo di oggetto culturale che andrebbe studiato impiegando adeguati strumenti di analisi e non vecchie cassette di attrezzi teorici arrugginiti. In questa direzione si muove ad esempio Fred Ritchin con un libro di qualche anno fa: After Photography (del 2009, tradotto da Einaudi). Lo studioso statunitense osserva che, in misura sempre maggiore, “gran parte del procedimento fotografico avviene dopo lo scatto”, la fotografia dunque diviene nulla più che “una ricerca iniziale”, una “bozza dell’immagine” che si presta a infinite modifiche ed interazioni.

 

L’immagine fotografica entra dunque in un flusso, il “vortice digitale”, nel quale alcuni capisaldi della fotografia tradizionale sono triturati, come ad esempio il concetto di autorialità che “diventa malleabile” sino ad aprirsi a collaborazioni (anche postume) che riorganizzano ed espandono il concetto di “tempo fotografico”, al punto che diventa arduo affermare che si tratti ancora del “momento statico di un incontro privilegiato tra osservatore e soggetto”. Ritchin, inoltre, coglie perfettamente uno dei presupposti fondamentali dell’odierna cultura del remix quando sostiene che, nel passaggio al digitale, “ogni creazione viene riconfigurata, resa più flessibile, idonea alla manipolazione umana”: le foto diventano “dati con cui si può giocare”, “registrazioni iniziali” o “sceneggiature preliminari” che preludono a successivi rimescolamenti, mentre il fotografo digitale assume il ruolo di “disc jockey visivo postmoderno”.

 

Il passaggio che ritengo più convincente nel ragionamento proposto da Ritchin è costituito dal suo oltrepassare il concetto di riproduzione per aprirsi ad una concezione nella quale l’immagine digitale è un punto di vista iniziale in grado di “fondersi con altre immagini o di creare copie multicolori che possono evolversi indipendentemente”: “nell’ambiente digitale – scrive Ritchin – lo scatto dell’otturatore sarà solo il primo passo di un processo che comprende alterare l’immagine, linkarla e contestualizzarla grazie ad altri media”.

 

Ciò che mi sembra particolarmente apprezzabile in Ritchin è che non cade mai nella tentazione di dichiarare (come troppo spesso si usa) che la fotografia è morta, sostiene invece che siamo di fronte a qualcosa di differente rispetto alle origini del medium o più semplicemente a un’evoluzione del medium fotografico. Alla luce di una simile impostazione, la domanda iniziale rivela in pieno il suo senso. Diviene inoltre lecito porre altri interrogativi: ad esempio, quando si dice “se sembra una foto, è meglio che lo sia”, si intende riferirsi al medium ottocentesco oppure al medium  attuale così come si è evoluto in quasi duecento anni di storia? Oppure forse ci si riferisce ad un non meglio precisato stadio di evoluzione intermedio? Ha senso ancorare la fotografia a ciò che è stata, rifiutandosi di vedere ciò che è diventata? E ancora, nello straripante universo di “immagini tecniche” nel quale siamo immersi senza possibilità di fuga, è ancora possibile distinguere tra la foto di qualcosa che si trova nel mondo là fuori e una foto (ad esempio, una di quelle contestate nel reportage di Bevilacqua) nella quale elementi del mondo là fuori coesistono con elementi scaturiti dall'immaginario del fotografo?

 

Dal mio canto, convinto come sono che la fotografia sia sempre messa in forma, non trovo nulla di strano in una fotografia sulla cui superficie compaiono elementi che non rimandano ad un referente, e non ho alcun problema ad accettare come attuale stato dell'arte una fotografia nella quale la decisione iniziale di premere il pulsante di scatto è soltanto la prima di una serie di scelte (quantiche le definirebbe Flusser) che preludono a una catena di operazioni mediali e di transiti crossmediali potenzialmente infinita. Ciò detto, la difesa chiede l'assoluzione dell'imputato perché il fatto non costituisce reato.

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