Stregati da D'aria

12 Luglio 2023

“Nel dialetto del paese dove sono nata c'è un modo che le madri usano per spiegare la nostalgia che le assale di fronte alla crescita dei figli, il desiderio non avverabile di riaverli piccoli. Me l’armittés dentr ‘a la panz, dicono. È un'immagine che mi ha sempre colpito per come sintetizza l'amore viscerale in un gesto d’impeto, quasi furioso [...] E io? Se avessi potuto scegliere, se avessi saputo, cosa avrei fatto? Se potessi, Daria, mi ti rimetterei dentr ‘a la panz? Se potessi scegliere, sceglierei di non farti nascere? La domanda prescinde da te la domanda vale di per sé”.

Come d’aria, di Ada d’Adamo (Elliot 2023, vincitore del premio Strega 2023, dello Strega Giovani 2023, menzione speciale al Premio Campiello) è la storia di un attraversamento, dentro una vita che, se una scelta fosse stata data, si sarebbe voluta diversa. Racconta con lucidità, disperazione, gentilezza e verità di come è vivere cercando un equilibrio impossibile, tra vicinanza e lontananza, pieni e vuoti, misure da colmare per arrivare all’altro, nello sforzo continuo di trovare parole, sguardi, gesti nuovi per dire la grazia, la rabbia, l’amore smisurato, nel tentativo di tenere insieme la consapevolezza che non lo si sarebbe scelto e che eppure esiste, con tutta la sua bellezza e la sua magia.

Quando nasce, Daria, è una bambina minuscola. Ad Ada, che da vicino un neonato non l’aveva mai visto, paiono normali la sua piccolissima testa, le pupille come due gocce scure, lunghe e sottili. Il “tempo della letizia e dell’incanto” dura così poco che sembra quasi un sogno, o sembra un sogno quello che viene dopo, dopo il primo controllo in ospedale, quando cominciano a piovere parole impossibili: “analgesia del corpo calloso”, “oloprosencefalia”, “malformazione cerebrale”, “ipovisione di grado grave”...

Sotto quel bombardamento il futuro appena fondato pare disintegrarsi, finire. E invece un altro tempo si apre davanti ad Ada, al compagno Alfredo e alla piccolissima Daria, un tempo che prende la forma di un eterno presente, come una condanna. È un tempo di attese nelle sale d’aspetto, di notti infinite, di pratiche burocratiche, esami, operazioni, giorni che sembrano tutti uguali, ma hanno dentro silenziose sconfitte, minuscoli assestamenti, improvvise e insperate vittorie.

“L’urgenza della malattia toglie le forze, mette temporaneamente al riparo dall’agire, dal vivere”, scrive Ada, ma “poi c’è il tempo dilatato delle cure, durante il quale l’obiettivo è uno solo: combattere per sconfiggere il male”, e una volta superato lo stordimento, sopravvissuti a quell’offesa, si comincia a interrogarsi sulla vita che resta e ci si trova dentro quella spaccatura che separa dalle vite degli altri, che continuano a scorrere uguali a prima, come un insulto, mentre si rimane bloccati, dimenticati, soli. “Avere un figlio invalido significa essere soli irrimediabilmente, definitivamente soli. Indietro non si torna. Uguale a prima non sarà più. È come se dentro di te si fosse accomodato il punteruolo delle Palme che rosicchia la pianta dall'interno piano piano, la trasforma in un involucro pieno di segatura. La superficie resta uguale, ma sotto i bordi, sotto la pelle, non resta più niente. La solitudine è fatta di puntini piccoli, uno vicino all'altro. Non te ne accorgi”.

Quella contro cui si scontra Ada, procedendo nella sua nuova vita insieme a Daria, è una deliberata rimozione della malattia dalla società, una cesura che separa i fragili dai sani, marginalizza la vulnerabilità, prova a ignorarla come per non subirne il contagio, la contempla solo come opposto a riconferma della propria forza.

La solitudine, l’impotenza, la stanchezza, la rabbia, la paura, il muro di gomma della burocrazia, la colpa, ma anche la resilienza, la forza, la speranza, l’accettazione e la grazia delle parole belle, dei sorrisi aperti, dei corpi che si incontrano e si riconoscono, sono tutte voci di un lessico della malattia e della cura che attraversa il libro e si costruisce attraverso l’esperienza di Ada, e che spesso coincide con il lessico bellico, perché “Lo so, – dice Ada – la metafora della guerra è abusata, probabilmente inopportuna, ma mi esce di bocca ancora una volta perché davvero non saprei come altro definire il nostro percorso in questa vita, se non come una campagna bellica, di quelle che nei libri di storia durano anni e anni. [...] Un tempo di pace non lo abbiamo conosciuto mai. Ogni volta abbiamo reagito dicendoci “affronteremo anche questa”, “ce la faremo”. E puntualmente abbiamo abbandonato sui divani le sagome delle nostre solitudini per rinserrarsi nell'armatura di un abbraccio che ci avrebbe reso invincibili”.

C’è, nella scrittura di Ada d’Adamo, un continuo riposizionarsi, dopo tutti i colpi, gli schianti, le frane, un instancabile tentativo di cercare ogni volta un vocabolario nuovo per dirsi che quello è e quello che non può essere, cercando di non perdersi nel vuoto che si allarga nel mezzo.

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Ada ha trascorso lunga parte della sua vita a danzare e poi a scrivere di danza, ha studiato il linguaggio di corpi capaci di perseguire “la grazia del gesto, la precisione del dettaglio, il gioco delle proporzioni che si armonizzano nell'insieme”. “La tua disabilità – scrive Ada alla figlia – da questo punto di vista, mi appariva come un'autentica beffa. Proprio io, abituata a tenere sotto controllo la posizione di un mignolo, mi ritrovavo alle prese con un corpo completamente fuori controllo, con scatti epilettici, una schiena e una testa incapace di stare dritte”. 

“Fin dall'inizio il tuo corpo insorto si è imposto con una forza che contravveniva a qualsiasi regola” dice Ada, che si trova a fare i conti con una totale mancanza di controllo, armonia, equilibrio, il contrario della danza, verrebbe da pensare, con tutti quegli ostacoli al movimento, le ruote, il ferro, le imbottiture che proteggono e separano il corpo di Daria. “Cerco allora una danza piccola, delle mani o delle braccia, mi rifugio nella ripetizione solitaria di movimenti ritmici confidando in una prossimità che tu possa sentire, che possa passare attraverso lo schermo della tua pelle risuonando dentro con la sua vibrazione”. 

Si cerca allora, un’altra volta, di rifondare un linguaggio nuovo, che deve attingere i suoi verbi dall’universo del sentire, dell’ascoltare, del ricordare, dell’immaginare, una grammatica dei corpi, che deve affidarsi al contatto, alle vibrazioni sotto la pelle, procedere per tentativi, spalancare i sensi, sentire insieme, sentirsi.

“Chi ha la fortuna di godere di buona salute ha pochi motivi per soffermarsi sul corpo e sulla sua relazione con l'esterno”, è nel momento in cui il meccanismo si rompe che si è costretti a sentirsi, ad allenare quello che funziona per compensare ciò che si è guastato, in sé stessi o in qualcun altro. E per reggere il corpo di Daria serve un corpo forte, prestante, in salute, capace di farsi carico delle sue mancanze, di dialogare, di contenere, di reggere, di consolare.

Per questo quando qualcosa nel corpo di Ada cede, il primo pensiero è per Daria e per quel che sarà del loro delicato equilibrio. Quando Ada scopre la diagnosi che per la prima volta porta il suo nome è costretta, ancora una volta, a riposizionarsi di fronte alla sua vita e a sé stessa, “se la diagnosi di tumore mi ha dato piena cittadinanza nel paese dei malati, di cui fino a quel momento grazie a te ero stata solo una cittadina onoraria, come gestire il mio ingresso nel lato notturno della vita?” si chiede.

Il tumore e le cure che spezzano il suo corpo, lo affaticano e lo costringono al riposo sembrano separarla improvvisamente da Daria, dalla loro relazione, in cui ogni comunicazione passa attraverso il contatto fisico, “se volevo guarire – scrive Ada – tu non potevi essere più il mio centro, dovevo spostarmi, riposizionarmi altrove. Per sopravvivere dovevo trovare un centro mio, la cura di me. Ma come? E a quale prezzo? Non correvo forse il rischio di allontanarmi da te?”.

Invece, forse anche in virtù della malattia i loro corpi continuano a parlarsi, in un modo nuovo, sono ancora più vicini, “e così che, ancora e ancora, continuo a identificarmi con te. Il mio corpo sperimenta, seppur in misura ridotta, i limiti del tuo. Prima li conoscevo, li sentivo, li toccavo attraverso te; poi ho cominciato via via a incorporarli.” Negli studi sulla danza il concetto dell’incorporazione è centrale, “ha a che fare con la nozione di corpo come luogo della memoria, con la trasmissione e l'apprendimento, con il passaggio da corpo a corpo di informazioni, pratiche e tecniche, quindi con la capacità del corpo di creare conoscenza”.

Come d’aria è la memoria e l’insieme di tutta la conoscenza raccolta in quel tempo sottratto e poi riguadagnato un pezzetto alla volta. È una straziante dichiarazione d’amore, un’eredità di parole che dicono quello che non si riesce a dire, posate una dopo l’altra, come pietre di un ponte, per consentire quell’attraversamento doloroso. Nel libro, l’autrice parla a sua figlia, ma le sue parole sono per tutti, per chi sta da una parte e per chi dall’altra di quel crepaccio che è la malattia, la fragilità, la vulnerabilità delle persone, quel buco nero che sembra voler risucchiare vita, sogni, memoria di chiunque vi si trovi, suo malgrado, in mezzo. La storia di Ada, Daria e Alfredo dimostra che invece qualcosa resiste e continua a fare luce, in mezzo a quel buio, e quella luce, faticosamente difesa e custodita, il libro di Ada d’Adamo la raccoglie e la offre in dono.

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