Svetlana Velmar Janković

8 Maggio 2014

È morta il nove aprile Svetlana Velmar Janković, la più popolare scrittrice serba, gran dama delle lettere, capace di rappresentare il fascino discreto della borghesia e gli ideali di un socialismo dal volto umano, di tenere insieme sulla pagina quello che nella storia marcia diviso. I suoi numerosissimi lettori ora la ricordano a passeggio per le vie di Belgrado, la città protagonista dei titoli più significativi della sua opera. Membro dell'Accademia delle scienze, studiosa di letteratura francese, ha vinto tutti i premi letterari con i suoi romanzi – tradotti anche all'estero, soprattutto in Francia dove era molto conosciuta.


La sua biografia incrocia personaggi pubblici e privati di una costruzione storica come quella serba che nel Novecento ha più volte rovesciato i destini, trasformando i colpevoli in innocenti, le vittime in carnefici. E viceversa.


Svetlana Velmar Janković era nata nel 1933 in una famiglia intellettuale. La madre Milica Mimi Vulović, figlia di un ministro, aveva studiato a Parigi e prima di sposarsi aveva pubblicato testi letterari. Il padre, Vladimir Velmar Janković, nato nel 1895 a Novi Sad, uomo di gran cultura, psicologo, drammaturgo e scrittore, diventerà una figura importante del governo quisling di “salvezza popolare” di Milan Nedić, che collabora con le autorità di occupazione tedesche. Quando i partigiani liberano la città, Janković sceglierà la via dell’emigrazione. La figlia lo rivedrà solo vent’anni dopo, in Spagna, dove Janković trova lavoro in una clinica di salute mentale. La storia della famiglia sarà segnata. Espropriati dei beni e senza il permesso di lavoro, le due figlie sopravvivranno grazie alla forza della madre.


Svetlana Velmar si rifugia nel mondo dei libri, si specializza in francese, pubblica il suo primo romanzo poco più che ventenne, sta già per vincere il prestigioso premio Nin, ma viene considerata troppo giovane. Giornalista, redattrice nella rivista Književnost, redattrice nella casa editrice Prosveta – ai tempi della Jugoslavia, dunque serbocroati, alternava testi con caratteri latini e cirillico, ora è rimasto il cirillico – scrive saggi. Solo nel 1990 pubblica di nuovo un romanzo, Lagum, considerato il suo capolavoro, seguito da drammi e altri romanzi, una monografia su Belgrado, i racconti Dorćol dal nome di un quartiere dalla intensa stratificazione sociale, racconti per bambini, testi autobiografici.   


Attraversate da esperienze di vita, le sue saghe familiari ricostruiscono vicende del passato prossimo e remoto – diceva spesso che la famiglia era fonte di sostegno spirituale ma anche fonte di sofferenza. “Ho l’impressione di aver sempre cercato la luce senza la quale non c’è vita e ho sempre combattuto per la bellezza e l’umanità. Mi ispirano e parlano i dettagli, le cose piccole e prima di tutto l’amore”.


Eppure il suo romanzo bestseller ha come titolo proprio Lagum (trad. di Isabella Meloncelli, Jaca Book, 2012, pp. 268, € 16,00), la parola turca che indica un tenebroso passaggio sotterraneo, un cunicolo senza luce. Lagum è il luogo delle tenebre, nel significato più antico indicava lo scavo sottostante una fortificazione. E la fortezza belgradese del Kalegmedan era famosa per i passaggi sotto il fiume Sava.


Il romanzo è una tela di ricordi scritti sulla sabbia di una signora ormai anziana che, nell’orwelliano anno 1984, cristallizza date precise, rivelatasi fatidiche. Il tempo soggettivo rende il passato presente, così il lettore segue in contemporanea, con un senso di apprensione, la minaccia che aleggia sulla vita dei singoli avvolti in un complotto al quale non è possibile sfuggire.


“L’oscurità avanzava come imperscrutabile polvere cosmica. Era il novembre del 1944”. I bombardamenti americani segnano la fine dell’occupazione tedesca, la presa del potere comunista manda in frantumi un sistema di vite nascoste. La protagonista di Lagum, la signora Milica, nella quale è riconoscibile la madre della scrittrice, non usciva più di casa. Era la guerra che penetrava nel suo interno borghese con l’attivismo del marito Dušan, che collabora con il governo fantoccio convinto che sia comunque un modo per salvare vite serbe. Arriva Zora, la ragazza che lui ha liberato dai campi di concentramento ustascia, arriva il partigiano che la signora Milica nasconde nel suo salottino all’insaputa del marito dal quale si sente sempre più in distante… Per tre anni, dopo i bombardamenti e l’occupazione tedesca, Belgrado è stata una città fredda e chiusa, battuta dal vento e dallo spavento. Nel romanzo appare brevemente anche Ivo Andrić, che in quegli anni incubava i romanzi che gli daranno il premio Nobel. Dopo aver lasciato la carriera diplomatica, era tornato a Belgrado e temeva per la pelle. Sgusciava fuori poco prima del coprifuoco per vedere i cadaveri nel punto in cui la Sava entra nel Danubio. Nello stesso periodo, a Zagabria, un altro grande scrittore, Miroslav Krleža, viveva tappato in casa per il terrore di essere fatto fuori dagli uni o dagli altri – teneva un diario dove registrava i sogni che le notizie della radio, le risse e le voci che provenivano dalla strada gli provocavano.


L’anteguerra scompare insieme agli edifici distrutti, è la lingua che registra la distruzione del vecchio, i pronomi che passano dal lei al tu segnano la cancellazione di tutto quanto è mio e nostro: “L’uso della nuova lingua sottintendeva anche un nuovo modo di comportarsi, e in questo rientravano la camminata, il comportamento, l’abbigliamento”. È il trionfo del momento presente che cancella il passato e Milica diventa quella lei nemica che il popolo apostrofa con il tu.


Il prima è condensato nel ricordo della mostra di Sava Šumanović, il tardo pomeriggio di una domenica afosa del 3 settembre, quella stessa che le foto europee d’epoca ritraggono piena di bagnanti, mentre la Polonia è stata già invasa e Varsavia bombardata. E alla mostra del pittore, che tornato da Parigi aveva introdotto lo stile cubista, i personaggi principali ci sono già tutti. Presente, ma presaga del buio futuro – che inghiottirà il pittore fucilato dagli ustascia, suo marito fucilato dai partigiani, lei stessa… – Milica ha un malore.
Gli spostamenti delle forze in campo si rifletteranno nella disposizione delle camere dell’appartamento: la padrona di casa finirà con i figli nella camera che fu della domestica Zora, mentre il parquet verrà infangato dagli scarponi del droghiere divenuto capo militare. Alla cancellazione dell’arredamento borghese resisterà il salotto barocco inglese, un Chippendale originale. Comprato a Londra, sarà conservato dal partigiano che diverrà un esponente della “nuova classe” con villa sulla collina di Dedinje: non ha voluto salvare Milica ma si è impadronito del suo salotto.


Lagum ha avuto quattro versioni tutte distrutte, la scrittrice non lo dice ma forse sono gli anni Ottanta, quelli che seguono la morte di Tito, a permetterle di nominare gli argomenti tabù dell’epoca comunista. Uno di questi è proprio l’eliminazione fisica e morale della borghesia belgradese, di cui è simbolo quel fronte dello Srem che per decenni nessuno ha nominato a voce alta. In una delle ultime battaglie, i tedeschi già in fuga, i sovietici già passati, in una battaglia strategicamente inutile nella bassa Pannonia, perirono miglia di giovani, spesso studenti. Un “poligono ideale” per prevenire, secondo alcuni, una opposizione democratica dei figli della borghesia belgradese al futuro monopartitismo. I primi a parlarne sono gli scrittori. Ha perso il figlio nello Srem l’avvocato protagonista di Očevi i oci (Avi e padri) romanzo bellissimo dello scrittore Slobodan Selenić (il tema dello Srem è quasi un topos nell’opera dello scrittore belgradese-istriano Dragan Velikić, pubblicato in italiano da Zandonai). Unico a scegliere un tono tragicomico per descrivere l’arrivo degli uomini dei boschi sull’asfalto belgradese, mentre i pianoforti diventano legna, è Bora Ćosić in Il ruolo della mia famiglia nella rivoluzione mondiale (edizioni e/o, 1997).


Nonostante la presenza di significative figure femminili e di elementi autobiografici, la scrittura realista di Svetlana Velmar Janković non è diventata un modello per le scrittrici “neorealiste” degli anni Novanta. Considerata tradizionale, dunque passé, si può immaginare, però, che la sua eredità continuerà a nutrire in modo sotterraneo le pagine della letteratura serba.

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