Tu chiamale se vuoi emozioni

27 Settembre 2022

In generale le emozioni nel diritto 

La scienza da tempo è penetrata nel mondo del diritto, in particolare in quello penale, fornendo un aiuto per comprendere i nessi sempre più intricati della complessità moderna. In particolare un settore, affascinante e perturbante, sta provocando ripercussioni: si tratta delle neuroscienze, cioè lo studio del cervello. In un passato non lontano si riteneva che la coscienza fosse un’entità inafferrabile, invisibile, percepibile solo indirettamente attraverso le parole e i sogni. Oggi non è più così: strumenti sempre più avanzati forniscono la ‘radiografia’ del cervello con eventuali imperfezioni insite e variazioni di fronte ad agenti esterni. Si scopre altresì che le emozioni non solo sono presenti nella vita collettiva interferendo nei rapporti, ma localizzate nei meccanismi neuronali svolgono un ruolo rilevante nell’orientare la conoscenza e la decisione. Ha osservato il neurologo Antonio Damasio che “le emozioni non sono macchine pensanti che si emozionano, ma macchine emotive che pensano”. 

Di questi temi si occupa il saggio di Ombretta Di Giovine, Dilemmi morali e diritto penale. Istruzioni per un uso giuridico delle emozioni (Il Mulino, 2022), giungendo ad approfondire da questo punto di vista il momento della decisione, sia morale che giudiziaria. Il punto di partenza è quello prima esposto, cioè la constatazione che attraverso le strutture cerebrali si nota che le emozioni si inseriscono immediatamente nei giudizi, lasciando ad un momento successivo l’intervento razionale. E questa acquisizione non può che ribaltarsi anche sul diritto penale che vede così intaccati i suoi pilastri tradizionali.

2. La morale nel diritto - I dilemmi e le decisioni

Uno di questi pilastri è che il diritto penale sia “secolare”, cioè laico, lontano dalla morale, mentre l’autrice ritiene che esista un legame stretto tra i due poli, il diritto e la morale, anche se non sempre percepibile. Le scelte legislative e le decisioni del giudice discendono senza dubbio da costruzioni giuridiche innervate dalla logica e dall’interpretazione razionale. Questo sipario però nasconde spesso intuizioni morali intrise da emozioni, negative come il desiderio di vendetta o di punizione, o positive come la scelta sul fine vita o sull’aborto. Il saggio tocca così i temi della bioetica, dell’eutanasia, del trapianto, della morte cerebrale, delle staminali embrionali, delle manipolazioni genetiche, e della clonazione per citarne alcuni. E non trascura i dilemmi morali: è possibile ricorrere eccezionalmente alla violenza su detenuti per ottenere informazioni che salverebbero molte vite? È ammissibile una trattativa tra Stato e mafia quando un accordo è l’unico modo per interrompere una spirale di stragi altrimenti inarrestabile? È giustificato il sacrificio della libertà e la compressione delle attività economiche in nome di politiche sanitarie, come sono state quelle anti-Covid? Come rapportarsi all’eutanasia legale e al conflitto tra il valore della vita e quello dell’autodeterminazione individuale? Situazione di scuola è quella del carrello ferroviario in cui si deve decidere se essere inerti e lasciar morire cinque persone in uno scontro inevitabile oppure deviare il carrello salvando le cinque persone ma uccidendone una che si trova sull’altro binario (Edmonds, Uccideresti l’uomo grasso? Il dilemma etico del male minore, Raffaello Cortina Editore, 2014). 

Secondo l’autrice in questi frangenti gli strumenti penali si mostrano insufficienti per il sopravvenire della crisi su come intendere il “bene giuridico”, cioè quel valore o interesse protetto dal codice penale come l’integrità fisica nel delitto di lesioni personali, la vita altrui nell’omicidio, la reputazione individuale nella diffamazione. Quel bene giuridico oggi non può più essere rigido perché divenuto più fluido in quanto le teorie morali si presentano attraverso molti aspetti, con la difficoltà di decretare la superiorità di una tesi sull’altra, osserva l’autrice. Alcune concezioni infatti prevalgono in certi luoghi e in certi momenti, e le società multiculturali e le culture che in essa convivono ne sono un esempio, come nel romanzo La ballata di Adam Henry di McEwan (Einaudi 2014), divenuto film nel 2017. L’autrice si chiede se alcuni dilemmi, irrisolti attraverso le vie giuridiche, possano trovare soluzione assegnando rilievo alle emozioni (p.41), giungendo ad una risposta affermativa. 

Discorso analogo vale per i sentimenti verso i quali il diritto penale non è indifferente. Alcuni infatti sono protetti (i beni giuridici della pietà per i defunti, del pudore, del sentimento religioso, dell’istigazione all’odio ad esempio), altri sono rivolti al comportamento (l’ira e la suggestione come circostanze attenuanti, articoli 62 e 599, la crudeltà come circostanza aggravante, articolo 61). Il diritto penale è indifferente invece agli ‘stati emotivi e passionali’ (articolo 90) che non sono considerati rilevanti.

3. La morale nel diritto. La decisione e i vantaggi

Il problema, per la decisione morale e giudiziaria, non è accertare quando il giudice si emoziona, ma quanto e in che misura le emozioni intaccano la razionalità del giudizio. 

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La Di Giovine è convinta, forte anche di altri contributi (Forza-Menegon-Rumiati Il giudice emotivo, Il Mulino 2017) che le emozioni non distorcano la decisione giuridica ottenebrandola, ma contribuiscano a formarla meglio. Le emozioni «possono in molti casi agevolare l’assunzione di decisioni penalisticamente giuste» –. “Nell’argomentazione logica e coerente si annidano insidiose distorsioni, i cd bias, generate dalla struttura della personalità soggettiva alla cui costituzione concorrono (oltre all’elemento genetico) il fattore sociale e culturale». Questo perché il giudice, come ogni individuo, è uno ‘psicologo ingenuo’ che giudica radunando molteplici variabili quali le impressioni soggettive sull’interlocutore, il suo stato d’animo, i tratti psicologici, il modo di presentarsi, l’aspetto, i comportamenti. Esistono poi le credenze e le convinzioni basate sulle conoscenze empiriche, sui fatti e sui luoghi comuni come nel caso delle “massime d’esperienza” cioè di quelle regole ammesse nel processo, costruite non su basi scientifiche ma sul “senso comune”, ben distinto manzonianamente dal “buon senso”.

Il baricentro così si sposta dall’astrattezza della legge alla reazione emotiva che diventa uno degli strumenti per risolvere i problemi penalistici. Con irruenza istintiva il cinema lo aveva già lasciato intravedere in una pellicola nota, La parola ai giurati di S. Lumet del 1957. Lì, in America, la giuria è composta senza giudici, da uomini comuni e le emozioni sono decisive, come sottofondo rispetto alla decisione finale che in quel paese è priva di motivazione. Per questo in America è rilevante la formazione della giuria per la quale vengono compiuti approfondimenti soggettivi e culturali, come ad esempio nel processo di J. Simpson o nella serie “Bull” o nel film con Gene Hackman non a caso intitolato La giuria. In Italia invece i cittadini giurati hanno a fianco i magistrati con l’obbligo congiunto di esporre successivamente le ragioni di quanto deciso con la motivazione. A questo fine il processo nel nostro Paese cerca di mantenersi lontano da eventuali contaminazioni, come ad esempio da un’opinione pubblica, ansiosa ed ansimante, che invoca una ‘sua’ giustizia. Inoltre, cerca di tutelare la serenità del giudizio segnalando ai cittadini la necessità di equilibrio rappresentata dalla bilancia come segno di riflessione ed equità.

A mio parere le virtù del giudice assumono così un duplice volto: quello di distanza, (imparzialità, indipendenza, disinteresse, rigore logico) e quello di prossimità, (empatia, simpatia, compassione, sollecitudine). Ma quali virtù “di prossimità” garantiscono giudizi ragionevoli, sono tutte sullo stesso piano e indistintamente accoglibili? È difficile fornire una risposta positiva, a differenza di quanto sostengono l’autrice e molti altri autori.

Ad esempio l’umanità e l’equità sono valori universali, presenti nelle carte costituzionali e nelle istituzioni giudiziarie come modello di comportamento senza essere mai state poste in discussione.

La compassione e l’empatia, perché più dense di soggettività e sconosciute nelle carte fondanti, si pongono in modo diverso. La prima, cioè la compassione, per la Di Giovine deve essere intesa comeistintiva, non mediata, che scatta in modo automatico nel contatto con la vicenda concreta: […] Quasi una categoria innata, e quindi universale, della conoscenza etica”. La seconda, cioè l’empatia, è la capacità di essere comprensivi di fronte alle difficoltà altrui, di puntare lo zoom sui loro stati affettivi. Pur godendo oggi di molto favore non tutti la esaltano, come recentemente Bloom (Contro l’empatia, Difesa della razionalità, Liberilibri, 2019) che la considera ‘una soda zuccherata’ che addolcisce la pillola mostrando solo i problemi di qualcuno a scapito del proclamato carattere universale. Del resto negli USA una corrente (“Anti-empatich turn”) considera l’empatia una parola ‘sporca’ per l’ampia discrezionalità che intacca la sottoposizione del giudice alla Costituzione. 

Sorge a questo punto un problema: fino a che punto la giustizia penale si “incarna” nei condizionamenti emotivi? Quanto può contare l’influsso delle emozioni nel decidere sulle responsabilità, nell’opinione della giuria, nell’impatto provocato dalla reazione delle vittime? Possiamo selezionare, bloccare, limitare le nostre emozioni? E in generale esistono rischi o conseguenze negative?

 

4. Conseguenze.

L’ampiezza dei temi trattati nel saggio difficilmente potrà trovare una soluzione unitaria, nonostante le aspettative dell’autrice. Mentre per la decisione sui problemi morali il ruolo delle emozioni può essere attivo, più problematico è il loro utilizzo per la decisione del giudice. Come viene riconosciuto dalle scienze cognitive esistono variabili soggettive che possono influenzare, anche inconsapevolmente, e che riguardano anche il magistrato. Ad esempio un magistrato memore di incidenti stradali subiti da un familiare sarà più incline a giudicare severamente. Esistono anche nei giudici atteggiamenti prevenuti e frettolosi che anticipano le decisioni a causa della percezione del rischio, dell’incertezza, dei campanelli d’allarme di timore o anche di paura. Si è notato che la tendenza a condannare sia più frequente quando tra le prove figuri materiale particolarmente scabroso, e per scongiurare queste situazioni alcuni legislatori sono intervenuti, come in USA, ritenendo inammissibili le fotografie raccapriccianti. 

Il verdetto, cioè ‘il vero dire’, è una decisione complessa, con regole che proteggono da deviazioni e arbitrarietà, regole difficili da rispettare con il riconoscimento della soggettività emotiva. Tra queste, ad esempio, primeggiano il principio di legalità, cioè il rispetto della legge, l’imparzialità e la terzietà del giudice, cioè la protezione da inclinazioni faziose, oltre ai gradi di giudizio tra cui il ricorso in cassazione previsto dalla Costituzione che consente ripensamenti di altri giudici sulle decisioni prese, la selezione dei magistrati attraverso il sapere tecnico, la presenza di norme, purtroppo spesso dimenticate, che raffreddano la pressione dell’ opinione pubblica (V. Manes, Giustizia mediatica, Il Mulino 2022) o che attenuano i ‘rumori’ esterni (Kahneman, Sibony, Cass R. Sunstein. Rumore. Un difetto del ragionamento umano, Utet 2021). 

Come per il libero arbitrio, scosso alle radici dalle scienze del cervello, anche in questo campo è auspicabile raggiungere un accordo sociale, pur nella consapevolezza delle controtendenze in atto, che accetti alcuni valori rassicuranti per la collettività con la tutela quelli costituzionali irrinunciabili. 

E questo equilibrio è indispensabile soprattutto in un momento in cui si affaccia alla finestra e si sta avvicinando alla porta d’ingresso un ospite ingombrante, il giudice-macchina. La posta in gioco è alta e per questo si è aperto uno scisma tra favorevoli e contrari alla decisione robotica. Che il diritto possa funzionare automaticamente rappresenta da tempo un sogno e un incubo. Un sogno perché l’aspirazione a basarsi su regole applicabili in maniera conforme alle norme appartiene al diritto moderno che ha visto trionfare il principio di ‘legalità’. Inoltre avvantaggerebbe la raccolta dei dati (banche dati dejureitaljure ecc..) aumentando l’innovazione nella ricerca. E ancora si potrebbe aspirare a una maggiore tempestività della decisione, come impone con scarso successo finora la Costituzione (art. 111), si potrebbero raggiungere obiettivi di certezza e prevedibilità perché il diritto diventerebbe calcolabile e la decisione prevedibile escludendo variabili impreviste: l’imparzialità sarebbe effettiva, depurando la decisione dai preconcetti, dai condizionamenti ambientali, dalla pressione collettiva. Si affaccia l’opinione che i giudici, compressi tra efficienza e opinione pubblica, non sarebbero poi molto scontenti di questa soluzione perché troverebbero negli algoritmi un conforto, una sorta di deresponsabilizzazione rispetto a decisioni gravose o ad alta sensibilità mediatica. Insomma un aiuto non ostile. 

Si tratta però anche di un incubo poiché proprio la realizzazione di questo sogno sancirebbe l’allontanamento del diritto da ciò che è emozionale, umano, sia per chi lo pratica sia per chi lo subisce, come l’autrice ha segnalato in precedenza “Il judge bot, le sequenze giuridiche in materia penale” (Intelligenza artificiale e stabilizzazione giurisprudenziale, 2020).

Comunque sia occorre prendere atto di realtà anche scomode, non rifugiandosi nella stanca e comoda ripetizione di vecchi miti. Il disincanto oramai è un compagno di viaggio non disposto a scendere dal treno del progresso. In questo come in altre realtà, nel processo penale come altrove. 

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TAGGED: giurisprudenza
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