C.F. Ramuz: apocalisse climatica
Uscito in Svizzera nel 1922 e in traduzione inglese a New York nel 1944 grazie a Kurt Wolff – l’illustre editore tedesco di Kafka, Joseph Roth, Karl Kraus, Heinrich Mann e altri che, rifugiatosi negli Stati Uniti, aveva da poco fondato la Pantheon Books –, Presenza della morte di C.F. Ramuz è ora finalmente disponibile anche in italiano grazie a Maria Nadotti, che lo ha tradotto, curato e proposto per la pubblicazione nei Classici Feltrinelli. Ramuz, poco noto in Italia benché sia autore di una trentina di romanzi, saggi e alcune raccolte di poesia, e fino a pochi anni fa figurasse sulla banconota da 200 franchi della Confederazione Elvetica, è uno dei più importanti autori svizzeri. Nel 1970 Storia del soldato, libretto di Ramuz con musica di Stravinskij, fu messo in scena al San Carlo di Napoli per la regia di Paolo Poli. E nel 1978-79 Dario Fo portò a teatro, nell’unico anno in cui collaborò con La Scala, l’adattamento della stessa opera con il titolo La storia di un soldato. Negli anni Ottanta e Novanta alcuni romanzi di Ramuz furono sì tradotti in italiano, ma curiosamente mai questo. Se ora Presenza della morte lo si può leggere nella nostra lingua è grazie a Maria Nadotti, e pure a John Berger per averle parlato di questo libro – Nadotti è la traduttrice e curatrice delle sue opere – e averle detto che Ramuz era diventato per lui una figura di riferimento importante quando alla fine degli anni Sessanta Berger si era trasferito in Svizzera e da lì nell’alta Savoia francese.
All’apparenza romanzo distopico, in realtà Presenza della morte narra nel 1922 ciò che ormai da anni è la realtà delle nostre estati. Sulle rive del Lago Lemano, poco lontano da Losanna, è la fine di luglio e fa molto caldo, 36 gradi all’ombra. Non solo, ogni giorno la temperatura aumenta di un grado, le acque del lago scendono in modo sempre più avvertibile, ma la vita prosegue come se niente fosse. Ciò che a poco a poco si scopre è che, in seguito a un incidente gravitazionale, la Terra comincia a essere irresistibilmente attratta dal Sole. I segni sono evidenti, ma molti non ci fanno caso, presi come sono dalla vita quotidiana: non li vedono proprio oppure li negano per tenere a bada l’angoscia da cui sarebbero altrimenti attanagliati? Chi invece li vede cerca di convincersi della scarsa importanza della cosa e dimentica i trafiletti sui giornali che ne danno notizia. Intanto il cielo diventa bianco, le lucertole non si muovono più, sciami di mosche ti volano dritto in faccia, il lago è silenzioso, dalle montagne arrivano rumori sordi e s’innalzano pennacchi di fumo. E il sole «è diventato rosso, rosso arancio prima, poi rosso rosso, poi rosso nero».
La vera protagonista del romanzo è la Natura e gli umani rimangono sullo sfondo. A turno il narratore li chiama in primo piano e per qualche pagina sono al centro della scena: alcuni impegnati a sopravvivere come possono, mentre chi ancora riesce a scherzare butta lì un: «Saremo in compagnia», perché se di solito è vero che la morte è un fatto individuale ormai è chiaro che in questo caso la gente se ne va tutta insieme; altri cominciano a trasgredire, a sovvertire le regole del buon vivere comune, a compiere i misfatti più esecrabili sopraffatti dagli istinti più brutali: «Ecco come sono fatti gli uomini. Vanno verso la morte per paura della morte». Poi sfumano di nuovo sullo sfondo e la Natura torna a essere al centro. Il paesaggio assume tratti sempre più metafisici, comincia a mostrare lande desolate e scenari spettrali come nei quadri di Kiefer e la presenza della morte si fa sentire ovunque: «Le cortine di cretonne pendevano increspate sul davanti come quell’altra cortina, quella del grande silenzio e di un’aria immobile, soffocante, che cercava di entrare». Perfino il narratore senza nome si disgrega – a volte in terza persona, a volte in prima persona, rimane vago, elusivo. Come è giusto che sia per uno scrittore che riduce la trama all’osso ma che con il suo spirito mistico e visionario mostra una accanita cura per il dettaglio, nella convinzione che meglio si conosce il particolare, più a fondo si entra nell’universale.
Chi ha letto Sebald, e in particolare Gli anelli di Saturno, in Ramuz si è già imbattuto, subito nelle prime pagine, quando il narratore nel suo letto d’ospedale a Norwich parla in breve di un amico, Michael Parkinson, da parecchi anni impegnato a scrivere un saggio su Ramuz, ragion per cui fa lunghi viaggi a piedi nel Vaud, il Vallese. Nato a Losanna nel 1878, Ramuz scriveva nella sua varietà locale di francese e non nel francese di Francia. Lo scrittore svizzero aveva precisato subito di non voler seguire i modelli del bello scrivere francese stampato in Francia, bensì di trarre ispirazione dalla lingua dei contadini della sua terra d’origine. Una lingua che nei suoi romanzi Ramuz ha ricreato, lasciando plasmare la propria opera narrativa dai ritmi lenti del cantone del Vaud, dalla concretezza della lingua parlata in questo angolo di Svizzera.

Per capire l’importanza della decisione presa da Ramuz bisogna partire dal concetto di letteratura minore. Con «letteratura minore» Deleuze e Guattari non intendono quella scritta in una lingua poco diffusa, né tantomeno una produzione marginale, bensì «quella che una minoranza fa in una lingua maggiore» e ne fanno il fulcro di un programma filosofico-politico per rileggere la letteratura del Novecento a partire dall’opera di Kafka. La letteratura praghese è proprio questo, una letteratura minore – come di fatto lo sono tutte le letterature postcoloniali –, perché prodotta da una minoranza che viveva a Praga ma scriveva in tedesco. Kafka ha deciso di usare il tedesco come lingua minore e di ascoltarlo come usciva dalla bocca di servi e impiegati; Ramuz fa lo stesso con il francese: rifiuta quello di Francia e usa un francese minore, come lo sente uscire dalla bocca dei contadini del Vaud e lo lavora. E in Presenza della morte l’autore, per il tramite del narratore, si pone un obiettivo esplicito: «Non mettere se non ciò che si vede. Documentare, lasciare che le cose accadano».
E così lavora le inflessioni tipiche della sua lingua madre e le cadenze bibliche – come osservava lo stesso Ramuz, per i popoli protestanti la Bibbia rappresenta il patrimonio degli Antichi, poiché per loro essa prende il posto dei miti greci e romani. Quel che ne esce è spesso una prosa poetica ma intervallata dagli smottamenti all’indietro della mente che portano alla reiterazione insistita di un pensiero ormai ossessivo che non riesce ad andare avanti e può solo ripiegare su se stesso: «Da dove si vede il lago, là ci sono le acque, ma ormai inabitate, contro la montagna inabitata che è anch’essa contro il cielo inabitato». Grazie alla sua struttura frammentaria, una delle caratteristiche della memoria traumatica, il romanzo non è ricco solo di ripetizioni e di devianze dalla lingua letteraria – «l’hai seduto a tavola, hai seduto il suo orso di peluche accanto a lui» –, ma anche di passaggi repentini dal presente al passato e viceversa. Ecco dunque che Ramuz lavora la sua varietà di francese pure con l’accavallarsi dei tempi verbali, così tipico dell’oralità, in cui un futuro tanto temuto diventa un presente imminente che si mescola al passato: «In quel momento le mattonelle cominciarono a crollare. Qualcosa di pesante fu rovesciato in cucina. Laddove manca la chiave, si forza la porta. Si erano impadroniti, per fare prima, di un’ascia per spaccare la legna. Ci siamo! A distruggere, il gusto della distruzione viene da sé». Il tutto reso mirabilmente da Maria Nadotti, che firma anche una ben documentata Nota della Traduttrice proprio sulla lingua di Ramuz e su cosa ha comportato tradurla. Assecondare, in nome dell’uniformazione, la marcata tendenza razionalizzante di una parte del sistema editoriale avrebbe significato cancellare le tracce del trauma riposte nelle pieghe del testo e pure infantilizzare chi legge, ritenendolo incapace di comprendere una situazione dolorosa, e dunque bene ha fatto Nadotti a opporre una ferma resistenza e accogliere tutta l’estraneità di una lingua altra, altra anche rispetto al francese di Francia. E coraggio ha avuto pure Anita Pietra, l’editor della UE e dunque anche dei Classici Feltrinelli, ad accogliere una traduzione audace.
In Melancholia di Lars von Trier due donne e un bambino aspettano sotto lo scheletro di una tenda indiana l’arrivo del pianeta in rotta di collisione con la Terra. Una delle due donne ha provveduto a far accomodare lì la sorella e il nipotino. In teoria dovrebbe essere la più debole, visto che entra ed esce dalla depressione, ma in questo momento Justine, il personaggio interpretato da Kirsten Dunst, è in realtà la più consapevole e, dopo aver preso entrambi per mano, con il suo sguardo fermo sostiene Claire, la sorella in lacrime, mentre la sfera del pianeta, sempre più grossa, si avvicina. Nel romanzo di Ramuz l’incontro/scontro della Terra con il Sole è affrontato dal narratore con altrettanto stoicismo e con la stessa poesia. E subito prima di dissolversi nell’universo, con sguardo altrettanto fermo il narratore ci consegna parole sulle quali, noi che possiamo ancora farlo, meditare.
