Utile e slow

29 Gennaio 2014

Fra i criteri (ah, i criteri!) di giudizio degli ultimi concorsi universitari – quelli soprannominati burla delle abilitazioni – ce n’è uno che merita stupita attenzione: è la capacità di attrarre risorse. Che significa, terra terra, portare soldi all’ateneo che deve pagarti lo stipendio. Cioè pagartelo da solo. Ora, al di là delle palesi contraddizioni della maledetta spending review che sta ossessionando i nostri pomeriggi, questo sedicente criterio presuppone una cosa molto precisa. Ufficializza il fatto che una persona è in grado di far bene il mestiere del ricercatore (i professori sono innanzitutto ricercatori), meritando perciò un posto di ruolo, non se sa fare ricerca, se possiede cioè cultura e competenza per saperla fare, magari avendo letto qualche libro in più degli altri, e magari ancora avendone scritto pure di interessanti, ma se sa trovare denaro, in qualsiasi modo ciò accada (e lasciamo perdere i modi in cui accade). Ecco il destino dell’intellettuale contemporaneo: essere manager di se stesso. Una volta era lo Stato, o il mecenate di turno, a pagarti per produrre cultura: e ben sapeva perché. Ora sei tu che devi saperti autopagare per poterti autopagare, a prescindere da quello che dovrebbe essere il lavoro per il quale ti autopaghi, cioè appunto produrre cultura, senza più sapere perché.

 

Per fortuna la tautologia, si sa, è il contrario dell’ossimoro. E alla sfilza di tautologie, per giunta intransitive, di cui sopra si oppone di fatto il recente bestseller di Nuccio Ordine L’utilità dell’inutile (Bompiani), catalogo ragionato di pensieri, massime e citazioni che (da Platone a Forster Wallace, da Shakespeare a Bataille, da Bruno a Hadot e tantissimi altri) declinano la contraddizione in termini evocata dal titolo in modi vari ma ostinatamente indirizzati verso un unico obiettivo: quello di contrastare la tirannia del profitto immediato, della visione aziendalistica del mondo, per la quale, fra le altre cose, i docenti universitari, assillati dai bilanci in rosso dei propri atenei, devono farsi manager di se stessi. Ma la cosa va ben oltre i tristi destini delle nostre accademie. E riguarda in generale la progressiva ignoranza verso la quale la società contemporanea globalizzata si sta dirigendo proprio a causa di questa becera ideologia del guadagno istantaneo.

 

Ora, però, sappiamo anche che gli ossimori sono reversibili, biforcando il loro ragionamento in direzioni opposte e complementari: l’utilità dell’inutile (pars costruens del libro di Ordine) presuppone un’inutilità dell’utile (pars destruens). E se sulla parte distruttiva sostanzialmente ci siamo (difficile difendere l’economicismo generalizzato), su quella costruttiva le cose sono meno evidenti di quanto sembri. Che cosa significa che il supposto inutile (ovvero quella cultura con la quale, diceva un non rimpianto ministro dell’economia, non si mangia) sia invece utile? Tante cose diverse, tutte presenti nel libro. Significa che la cultura umanistica rende migliori (restando da decidere che cosa significhi migliore). Significa saper comprendere il senso e il valore della vita di ogni giorno (evitando di far la fine di quei pesci che non sanno spiegare che cosa sia l’acqua). Significa saper distinguere fra conoscenza e interpretazione, informazione e comunicazione (e si veda in merito il bel testo di Yves Citton pubblicato da duepunti Future umanità, Traduzione di Isabella Mattazzi). Ma significa anche che, perseguendo gli ideali di una curiositas fine a se stessa, ossia di una ricerca di base non direttamente finalizzata ad alcuna applicazione tecnologica o sociale, alla fine l’applicazione arriva, anche se non prevista, o forse proprio perché non prevista. E gli esempi sono infiniti: ne trovate a bizzeffe soprattutto nel saggio di Abraham Flexner in appendice al libro.

 

Messa in questi ultimi termini, la cosa si fa al tempo stesso più precisa e meno tragica. Sembra infatti che il dispregio per la cultura (umanistica e non) sia soprattutto un problema di gestione della temporalità. Ciò che trasforma la cultura in economia, l’uomo in macchina, il professore in manager non è tanto la ricerca del guadagno ma l’affanno che ne scaturisce. Il problema sembra essere non quello del profitto in sé ma della sua immediatezza. L’ossessione dei bilanci non sta nel fatto generico che devono pareggiare o essere in attivo, ma nell’aspirazione che accada al più presto. È questa la missione che i consigli di amministrazione delle aziende assegnano al loro ramo commerciale, e che, prima ancora, le banche richiedono ai consigli di amministrazione: la rapidità nel chiudere i conti, l’accelerazione progressiva nel dover fare cassa.

 

In fondo, dice Ordine, è una questione di durate: alla celebre longue durée evocata dagli storici, entro cui si assesta costitutivamente l’umanesimo più opportuno, si oppongono le brevi durate entro cui invece si collocano i meccanismi del profitto. E tutto viene affrettato, velocizzato, sveltito, con un culto della rapidità a ogni costo – che non è, sia chiaro, quella evocata come ideale dall’ultimo Calvino (prontezza del pensiero e agilità della scrittura), ma, molto più banalmente, il semplice stato ansiogeno provocato, e vissuto, dal marketing peggiore. La domanda implicita a tutto ciò sembra essere: quanto tempo deve trascorrere affinché l’inutilità dei miei studi divenga utile? quanto è possibile socialmente tollerare l’inutilità attendendo che serva a qualcosa?

 

Una risposta indiretta, o quanto meno una ventata di speranza, sembra arrivare da un altro libro recente che involontariamente dialoga con quello di Nuccio Ordine. Si tratta di Slow brand di Patrizia Musso (FrancoAngeli), dove si mostra come l’ossimoro presente anche in questo titolo stia progressivamente perdendo la sua ragion d’essere. Il valore della lentezza, da Milan Kundera a Carlo Petrini, è sempre stato in controtendenza rispetto ai meccanismi generalizzati del profitto, e perfino al mito della simultaneità che il web e i nuovi media stanno cavalcando a più non posso. Slow food è nato quando, negli anni Ottanta, ha aperto in Italia il primo McDonald’s, dunque in aperta opposizione al mondo fast delle marche.

 

E da allora ha sempre perseguito i suoi principi di fondo, per cui non solo a tavola non si invecchia, ma lentamente si vive meglio. Al punto che, ripete Petrini ogni giorno, una via concreta per uscire dalla crisi attuale è proprio quella, solo apparentemente incongrua in un mondo dominato dal marketing, di tornare alla terra. Adesso Patrizia Musso, fra i maggiori esperti di brand nel nostro paese, ci mostra come le cose stiano però progressivamente cambiando. E che è proprio il marketing della marca ad aver compreso la lezione della lentezza, applicandola fruttuosamente a livello di comunicazione pubblicitaria, di progettazione degli spazi di vendita, di organizzazione aziendale e perfino nel web. Sono parecchi ormai i brand che seguono questa strada, di varia estrazione e natura.
Tutto ciò per ricollegarmi a quanto avevo sostenuto, nel dibattito lanciato da cheFare, circa lo scontro fra ignoranti istruiti e dilettanti per professione, ripreso fra gli altri su doppiozero da Andrea Danielli.

 

L’elogio della figura del dilettante aveva ovviamente un carattere provocatorio. E l’idea di un ritorno all’umanesimo – a prescindere dalle proposte di un Da Empoli, che avevo usato come puro spunto, o da quelle più forti e problematiche di Martha Nussbaum – va presa secondo me fra virgolette, ironicamente e strategicamente. Sappiamo bene che nozioni come quella di individuo, o peggio ancora di persona, sono costruzioni antropologiche prodotte da strutture economico-sociali (Marx), culturali (Nietzsche) e psichiche (Freud).

 

Foucault ha da tempo decretato la morte dell’uomo, e lo ha fatto non solo contro l’umanesimo esistenzialista di un Sartre o di un Camus, ma soprattutto in nome della convinzione secondo cui è la lingua, la discorsività sociale, i dispositivi epistemologici e politici a costituirci non come uomini ma come plurali e momentanei effetti di soggettività. Invocare oggi l’umanesimo ha dunque un valore tattico, di contro agli schiaccianti funzionalismi, economicismi e specialismi degli ignoranti istruiti. È curioso però che fra le tante voci possibili che di tutto ciò oggi discutono, i suggerimenti più interessanti in merito arrivino proprio dal mondo del marketing, più cosciente di quanto non si creda dell’utilità dell’inutile.

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