Speciale
A tavola con Montalbano
Come mangia un detective? cosa? quando? quanto? Rispondere a queste domanda è riscrivere la storia del romanzo giallo. Potremmo dire che la presenza del cibo nella narrazione poliziesca attraversa grosso modo due fasi. Nella prima il detective è più che altro una macchina per pensare, quasi un essere senza corpo, senza particolari interessi per i piaceri della buona tavola. Così Sherlock Holmes si nutre col cervello. Per il detective di Baker street l’atto del mangiare costituisce una delle caratteristiche accessorie del suo personaggio, contribuendo a connotare in generale la sua raffinatezza. Beve Bourgogne o Chianti, mangia caviale, ma non li gusta, si limita a riconoscerli perché stereotipicamente raffinati. Non è un caso, allora, che in questa fase il cibo e soprattutto le bevande siano presenti all’interno delle trame poliziesche più in relazione alle vittime che non agli investigatori, e quindi in termini negativi: di solito servono per uccidere tramite avvelenamento. Il caso di Agata Christie è da questo punto di vista esemplare.
La seconda fase, novecentesca, deve essere a sua volta suddivisa. Da un lato c’è l’hard boiled americano, dove figure come Marlowe o Spade mangiano malissimo e in fretta, spesso in strada e solo per esigenze di sostentamento. Semmai bevono tanto, procurandosi epiche sbornie e terribili hangover. Da un altro lato ci sono detective come Nero Wolfe, che godono della passione per il cibo nutrendosi di pietanze eleganti preparate da cuochi-artisti, ricette che vanno assaporate in silenzio e solitudine. Per Wolfe mangiare è un’esperienza estetica intima che, ancora una volta, contribuisce più alla costruzione del carattere del personaggio che non allo sviluppo della sua indagine poliziesca.
In questa sezione dei detective buongustai un posto d’onore ha certamente il commissario Maigret, per il quale il cibo non è una caratteristica esterna rispetto all’investigazione, sorta di sosta corroborante rispetto al lavoro. Nelle sue storie il consumo del cibo fa parte dell’azione e della ponderazione investigativa: se Jules gusta i manicaretti della signora Maigret, parla con lei del caso a cui lavora; se pranza alla brasserie Dauphine, ne discute coi colleghi; spesso, poi, beve la sua demi sul luogo del delitto. Sappiamo che il suo metodo consiste nell’immergersi nel milieu della vittima, e per farlo la prima cosa è cibarsi là dove costui trascorreva il suo tempo – nella brasserie sotto casa o nel solito bar dell’angolo –, in modo da carpirne l’atmosfera sensoriale. In questa stessa sezione va annoverato Pepe Carvalho di Vasquez Montálban, mangione e, caso raro, cuoco competente, capace di preparare pietanze elaborate ed esotiche da condividere con la sua compagna, la prostituta Charo.
In omaggio al centenario camilleriano appena festeggiato chiediamoci allora: e il commissario Montalbano? Si dice spesso della sua tradizionalistica voracità. Ma vediamo meglio. Volendo giocare il gioco delle fonti intertestuali, potremmo dire che la celebre creatura di Andrea Camilleri riprende da Wolfe la golosità e l’abitudine di mangiare da solo, da Maigret il gusto per il cibo tradizionale e da Carvalho l’esagerazione pantagruelica. Ma a differenza di Wolfe, le pietanze di Montalbano sono tradizionali; i suoi piatti preferiti sono sarde a beccafico, pasta ‘ncasciata, purpiceddi, triglie fritte, caponatina, pappanozza, arancini. Diversamente dal personaggio di Montálban, non è in grado di cucinare; tutt’al più riscalda nel forno quel che la mitica cameriera Adelina ha preventivamente preparato. E contrariamente a Maigret, non usa il momento del pranzo per riflettere sul caso poliziesco o, addirittura, per indagare su di esso. In particolare poi, come Camilleri stesso ha dichiarato, laddove in Simenon esiste la figura della moglie di Maigret, grande cuoca e consigliera del commissario, in Camilleri questo personaggio viene sdoppiato: da un lato Livia, la fidanzata eterna, che non ama stare ai fornelli; dall’altro Adelina, che bada alle faccende domestiche e che soprattutto prepara meravigliosi manicaretti. Inutile dire che le due donne non si tollerano reciprocamente: e ne scaturisce un conflitto silente fra gola e eros. Così nella Voce di violino, nonostante Livia fosse appena arrivata dall’aeroporto, lui spietatamente la fa attendere fermandosi a mangiare un succulento piatto di triglie fritte al ristorante di Calogero; dichiarando poi mendacemente alla fidanzata (che sospetta qualcosa dall’odore dei suoi abiti) d’aver dovuto interrogare il gestore d’una friggitoria...

In generale, nelle storie letterarie di Montalbano il cibo è il più delle volte soltanto nominato, quasi mai descritto nei particolari della sua preparazione o nei rituali del suo consumo. Fanno eccezione gli arancini, la cui ricetta viene descritta, in perfetto siciliano, come un rituale religioso – “ringraziannu u Signuruzzu” – che non può non ricordare il celebre risotto di Gadda. Il Montalbano dei romanzi è goloso, privo di misura e moderazione; mangia isolandosi dal mondo esterno, senza alcuna convivialità, concentrandosi sulle proprie emozioni. Per lui, il cibo è un decisivo oggetto del desiderio, ma anche un classificatore implicito di uomini e cose. Da cui una forte caratterizzazione dei personaggi che lo circondano. Da un lato ci sono gli individui da evitare, come il vicecommissario Mimì Augello, che non sanno mangiare, scelgono ristoranti improbabili e malsani, sono spesso a dieta, si tengono leggeri prima di un interrogatorio, mettono il formaggio sulla pasta col pesce. Da un altro lato ci sono i personaggi positivi, che sono tali proprio perché hanno gli stessi rituali alimentari del commissario: Beba, che come lui mangia in silenzio, Ingrid, che in generale fa sempre la cosa giusta al momento giusto, o figure minori che pranzano con Montalbano in religioso mutismo.
Il famigerato trasporto di Montalbano per il cibo non va però legato soltanto alle sue relazioni con gli altri personaggi. Esso entra anche in rapporto con le sue più recondite prerogative. Tale passione viene spesso associata ai suoi ricordi d’infanzia. Per esempio nella Voce del violino, mangiando pane con olio e pecorino offertogli dalla sorella di Augello, il commissario si sente “tornare picciliddro” perché “era come glielo conzava la nonna”; mentre nel Cane di terracotta le pietanze di Adelina gli danno “la stessa trepidazione di quando, picciliddro, alla mattina presto del due novembre cercava il canestro di vimini nel quale durante la notte i morti avevano deposto i loro regali”. Questo legame fra voracità e ritorno onirico all’infanzia va messo in rapporto con i ben precisi gusti alimentari del commissario, assolutamente legati alle tradizioni gastronomiche della sua odiamata Sicilia. Nel racconto intitolato Gli arancini di Montalbano, per esempio, viene detto che il commissario non si recherebbe mai a cena (come invece, manco a dirlo, fa Augello) al Central Park, una specie di enorme sala per trattenimenti alla periferia di Fela, solo perché vi cucinano “cose amiricane”, le quali risultano essere assolutamente indigeribili per lo stomaco tutt’altro che delicato del nostro commissario.
Cosa accade nella trasposizione televisiva? Sulla base dei presunti imperativi dell’audience, Montalbano non può star zitto e inattivo mentre mangia: nello schermo televisivo deve nel frattempo accadere qualcosa. Così, molto spesso il commissario, interpretato dalla sua icona Luca Zingaretti, mangia mentre guarda la tv, sia a casa sia al ristorante: e si mantiene la caratterizzazione del personaggio come di un goloso senza interrompere l’azione, la quale sotto forma di informazioni rilevanti si svolge negli schermi televisivi – con evidente myse en abyme. In altri casi, Montalbano mangia discutendo di lavoro, per esempio con il giornalista Zito o con l’ispettore Fazio. Più spesso viene accentuata la presenza di antagonisti che interrompono il rito del mangiare in silenzio o lo rendono inattuabile: si tratta di attori umani (lo stesso Augello che irrompe a casa del commissario con i suoi problemi sentimentali) o di attori non umani (il telefono, il citofono, rumori vari). In televisione, poi, l’opposizione Adelina vs Livia viene accentuata per diventare un vero e proprio conflitto fra le due donne.
Ma come si sa, il personaggio di Camilleri ha da tempo preso altre strade nell’universo dei media, dunque della vita di tutti i giorni. Divenendo, da un lato, una specie di ambasciatore del gusto siciliano nel mondo (diversi ristoranti qui e là portano il suo nome), e, dall’altro, ha dato luogo a un massiccio turismo televisivo, soprattutto nella provincia di Ragusa, dove si trovano le location della serie. L’afflusso di persone, dunque di denaro, ha finito per raddoppiare la proverbiale differenza semiotica fra testo e film, lingua e audiovisivo. La Vigàta dei libri non è quella della serie: nel primo caso dietro di essa si percepisce Porto Empedocle, città natale di Camilleri, di modo che il ristorante preferito dal commissario, Calogero, sta proprio lì, ha in menu i piatti nominati nei romanzi montalbaneschi, ed è meta di (relativamente) pochi appassionati lettori. Ma il flusso di turisti sceglie altri luoghi di ristorazione, ubicati ovviamente nel ragusano: Ragusa Ibla, Scicli, Punta Secca a Santa Croce di Camerina, Sampieri, Donnalucata, Marina di Ragusa, Scoglitti, Capo Passero. È guerra all’ultimo polipetto. Camilleri, interrogato sulla questione (qual è ‘il vero’ ristorante di Montalbano?), ovviamente tergiversa (“vanno bene tutti”). Ma poi, nel Giro di boa risponde a suo modo, ossia da scrittore: Calogero, nel romanzo, chiude per raggiunti limiti di età, Montalbano deve cercare un altro posto dove pranzare quotidianamente. E trova Enzo, rinnovato luogo dell’anima e della pancia. Ma nessuno sa dove si trovi.
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