Villalobos. Se vivessimo in un paese normale

26 Maggio 2014

Messico, primi anni Ottanta. Oreste vive a Lagos de Moreno, un anonimo paesotto nello stato di Jalisco dove la gente tende a credere all’esistenza dei santi e degli extraterrestri, i preti condizionano irreparabilmente l’educazione sentimentale maschile e l’erotismo è una questione tanto umana quanto bovina. Ha quasi quattordici anni, vive con la sua famiglia in una casetta che pare una scatola delle scarpe, ha sei fratelli – Aristotele, Archiloco, Callimaco, Elettra, Castore e Polluce – ed è il protagonista di Se vivessimo in un paese normale, l’ultimo, divertente romanzo di Juan Pablo Villalobos, tradotto dallo spagnolo da Stefania Marinoni per gran vía edizioni.

 

Oreo (così lo chiamano familiari e amici) trascorre le sue giornate impegnato principalmente in due attività. La prima: ingollare il maggior numero possibile di quesadillas durante i pasti, veri e propri scenari di guerra domestica. La seconda: affinare le sue strategie investigative per scoprire la reale condizione economica della famiglia, sempre edulcorata dalle risposte evasive dei genitori: “Per avvalorare le bugie di mia madre, mio padre rispondeva allo stesso modo quando gli chiedevo se eravamo poveri o di classe media. Mi diceva che i soldi non contano, che l’importante è la dignità. Confermato: eravamo poveri” (p. 26). Come spiega Alain Rouquié (L’America latina, Milano, Bruno Mondadori, 2007), una delle interpretazioni più diffuse dell’espressione “ceto medio”, di stampo nordamericano, vedrebbe negli strati intermedi della popolazione “la punta di diamante dello sviluppo capitalistico e dell’economia di mercato” (Rouquié, p. 122).

 

Fortemente ideologica in patria e del tutto inadeguata rispetto alle realtà dell’America Centrale e Meridionale – dove spesso un numero considerevole di cittadini considerati appartenenti a questo settore scivolano verso l’emarginazione – tale concezione sembra ignorare le categorie salariate del ceto medio, che sono il “sottoprodotto di un tipo di sviluppo di cui non sono protagoniste” (Rouquié, p. 121). A questo proposito, lungi dall’essere il risultato del progresso economico e del consolidarsi della democrazia, l’estrema elasticità dell’economia familiare del padre di Oreo, un professore di educazione civica appassionato dell’Antica Grecia, ha piuttosto a che fare con l’aggressività dei programmi neoliberisti adottati da Miguel de la Madrid Hurtado prima e da Carlos Salinas de Gortari poi, che, di carattere prevalentemente speculativo, sfoceranno, nel 1994, in una delle peggiori crisi del subcontinente.

 

Juan Pablo Villalobos

 

Tuttavia, una decina d’anni prima del cosiddetto Efecto Tequila, Oreo e i suoi fratelli riescono a conoscere alla perfezione, e con qualche giorno d’anticipo, le montagne russe dell’economia nazionale grazie alla quantità di formaggio che la mamma mette nelle quesadillas: si passa, a seconda dei cicli alternati di boom e di panico finanziario, dalle quesadillas inflazionistiche a quelle dei poveri, “in cui la presenza del formaggio era letteraria: le aprivi e al posto del formaggio fuso mia madre aveva scritto la parola ‘formaggio’ sulla superficie della tortilla” (p. 12).

 

Dunque, attraverso il filtro dell’invenzione romanzesca e di alcune metafore dalla forte carica umoristica, Villalobos costruisce un convincente impianto affabulativo che attinge alle forme del fantastico senza però far leva sulla riluttanza dell’ordine costituito rispetto a un disordine indotto. In effetti, non c’è alcun passaggio dalla dimensione del consueto alla dimensione dell’inspiegabile; piuttosto, ci si è già dentro, ed è un quotidiano sconcertante, dove le anomalie non sono supplemento della quotidianità ma materiale di base nella costruzione di un ordine iniquo, così iniquo da sfiorare la dimensione parodica.

 

L’incredulità lascia il posto a continue constatazioni (non prive di cinismo) da parte dei personaggi e della voce narrante (Oreste adulto) sulla scelleratezza della realtà in cui vivono. In questo senso, è l’autore stesso a chiarire, durante un’intervista per Granta (UK), la sua operazione estetica, spiegando come il romanzo sia una satira dell’identità messicana intesa come costruzione, filtrata dallo sguardo europeo, di un immaginario magico, surreale e surrealista.

 

Nella stessa intervista, l’autore ironizza sulla celebre frase di André Breton, che aveva visto nel Messico un succulento frutto esotico: ciò che a Breton era parsa una felice coincidenza, vale a dire il carattere marcatamente surrealista di questa nazione, se guardato in controluce e dal punto di vista di chi ci vive, ha più l’aspetto di una condanna. L’esistenza di un fragile contesto istituzionale, la continua sospensione dell’ordine legale da parte di governi dal carattere autoritario, il suffragio inteso come bene di scambio, la violenza endemica, la costante spoliazione materiale di alcune fasce della popolazione sono ben lontani dal costituire fortunate manifestazioni artistiche.

 

La mescolanza fra elementi parodici, umoristici e grotteschi acquista allora un valore conoscitivo, quasi mitologico, anch’esso però contemporaneamente ridicolizzato, in questo caso dalla scelta dei nomi dei figli, quello del protagonista su tutti: Oreste, che da eroe greco passa ad essere un portavoce della tribolata mitologia americana: Oreo, come i biscotti, nero fuori e bianco dentro, nel suo dimenarsi tra il risentimento, la rabbia impotente e il forte sentimento di riscatto sociale.

 

La coerenza interna dell’opera si regge su accorte scelte lessicali dell’autore con cui elabora un modo fantastico sgangherato, fondato tutto su ciò che si potrebbe definire come microfisica del fottere e dell’essere fottuti, resa bene nell’opera dalla presenza costante del verbo chingar (fottere, appunto) e delle sue derivazioni. A questo proposito, la scelta di chiamare “Colle della Merda” quello che in spagnolo è il Cerro de la Chingada rischia di incidere sull’apprezzamento di tale coerenza interna da parte del pubblico italiano. Il motivo: un cambio di rotta che depotenzia un immaginario specifico, di derivazione marcatamente coloniale, caratterizzato dall’uso della violenza di chi sa fottere come mezzo dialettico da una parte, e da una psicologia servile dall’altra, la sfiducia e la dissimulazione, l’autoironia del dominato e lo sberleffo di chi domina.

 

Avendo la “materia gioiosa” – così come Bachtin definisce le feci all’interno della tradizione comica occidentale – ben poco a che fare con la presa di posizione da parte dell’autore all’interno di una tradizione farsesca tutta centroamericana, si rischia in questo modo l’addomesticamento culturale dell’opera che, se da una parte la rende più intelligibile nel contesto italiano, dall’altra impoverisce il suo dialogare con la tormentata storia del Paese da cui proviene.

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