Whitehead e la sindrome di Harlem

11 Dicembre 2023

Il primo libro, Il ritmo di Harlem, della trilogia di Colson Whitehead, uscito in Italia nel 2021, comincia così: “Suo cugino Freddie lo coinvolse nella rapina in una calda sera di inizio giugno. Ray Carney stava vivendo una delle sue giornate frenetiche – uptown, downtown, sfrecciando da un capo all’altro della città”. La Città è quella che nel 1992 il premio Nobel Toni Morrison assumeva a indistinto mondo del suo romanzo Jazz ed è Manhattan: “Questa Città mi piace un casino. La luce del giorno fende gli edifici come la lama di un rasoio, tagliandoli in due”; e più avanti: “Una città così mi fa volare e le cose me le fa sentire dentro. Brrr”. 

Ma trent’anni dopo, lo scrittore anch’egli afroamericano e vincitore (due volte) del Pulitzer e di altri premi, ricordando la City degli anni Settanta, chiude i conti con le lusinghe, ereditate dalla Morrison, della “Harlem Renaissance” sostenuta da Langston Hughes, Zora Neale Hurston, Countee Cullen e altri autori dei mitici Anni Venti e Trenta sottesi al sogno del quartiere nero di diventare icona culturale. In Manifesto criminale (secondo titolo uscito quest’anno da Mondadori, tradotto anch’esso da Silvia Pareschi) la centralissima Herald Square nel midtown diventa esempio tralignante: “Qualche chilometro più su, Harlem cominciava il suo declino, nei casermoni bruciati pieni di fantasmi, nei negozi che non riaprivano mai, nelle scuole senza libri di testo. Nei decenni successivi Herald Square l’aveva raggiunta. Si raggiungono sempre le conseguenze di come hai scelto di vivere e gli abitanti della città stavano facendo cattive scelte”. La City nera si era tinta di bianco. E viceversa. “Una volta il ghetto era il ghetto, ora l’intera città è il ghetto”.

Proposta come “un esilarante dramma morale mascherato da poliziesco”, la trilogia di Harlem, profilata in una patina di umorismo amaro e beffardo, è piuttosto un dolente epicedio sulle sorti di una condizione sociale e umana che si perpetua nello spirito della separazione razziale e che ha dismesso ogni vagheggiamento di rinascimento: la stessa condizione che per la cultura araba è stata la “Nahda”, il vano sogno di una rinascita infranto a contatto con l’Occidente e per colpa di esso. Allo stesso modo, nel processo di integrazione con i bianchi, i neri sono spinti a emularne i fasti e mutuarne i modelli ma, secondo Whitehead, hanno finito per guastarsi, giacché la supremazia bianca, responsabile dello stato di degrado radicato persino del cuore della City, ha portato la Harlerm dello swing, del jazz e del gospel a contaminarsi. 

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William Munson, detective bianco e corrottissimo, è la prova della City allo sfascio: “L’uomo e la sua città erano versioni diverse di sé stessi, braci che si seppellivano sotto strati della propria cenere”. Munson è l’uomo che con Ray Carney, il personaggio principale della trilogia, commerciante di arredi-casa, figlio di un criminale di primo piano, insospettato ricettatore di preziosi, stabilisce un rapporto di fagocitazione che diventa connivenza e correità. E Alexander Oakes, politico nero altrettanto corrotto, già poliziotto, non è che il rovescio di Munson. Le cime, nella cosmogonia di Whitehead, si sono congiunte in un groviglio di trame illecite e oscure: Oakes, amico d’infanzia della moglie di Ray, vuole mettere le mani sulla City candidandosi alla presidenza del Distretto, ma nell’ambizione di scalzare i bianchi, finisce ucciso proprio da loro, rispondendo così a una teoria di Whitehead: i criminali bianchi delinquono e portano a segno “colpi grossi” o vincono il Jackpot, mentre quelli neri non delinquono ma “scavalcano”, cercano cioè “il modo di aggirare le regole dei bianchi”, ciò nell’assunto che i neri sono sostanzialmente onesti. 

Più volte in Manifesto criminale (che non può essere letto indipendentemente da Il ritmo di Harlem, costituendone non una prosecuzione diegetica ma una componente strutturale, tanto che l’autore era partito con l’idea di un solo romanzo e non di tre) Whitehead ripete il convincimento della supremazia bianca in rapporto alla capacità di “scavalcare” dei neri, che trovano “sempre una soluzione, anche nelle più misere circostanze, altrimenti saremmo stati sterminati dai bianchi molto tempo fa” scrive in Il ritmo di Harlem. Precisa in Manifesto criminale che “in un mondo così meschino, stupido e crudele, ogni giorno in cui i bianchi non ti hanno ancora ammazzato è una vittoria”. E in un altro passo testimonia l’umore di un nero braccato e insonne che aspetta l’alba: “La luce del sole voleva dire che i bianchi non l’avevano ancora ammazzato”. La sindrome di Harlem è la febbre e il lenitivo al tempo stesso di una coscienza popolare di cui si fa interprete Carney, “entrato in quella fase della vita di un nero in cui certe mattine l’unica cosa per cui alzarsi dal letto era la prospettiva di raccontare storie dei Primi Neri e visionari trascurati della loro razza”.

Ray Carney è una figura che offre di Harlem l’immagine di un mondo sospeso: uomo dal doppio volto e forse di duplice natura, quanto più prova a tenersi nella legalità, tanto più finisce invischiato in malaffari fino alla rovina. Vuole procurare dei biglietti ai figli per un concerto e si rivolge a Munson che lo trascina in una serie di reati; vuole che sia fatta giustizia su un bambino vittima di un incendio doloso e arriva ad avere il negozio messo a fuoco. Carney è l’eponimo di uno stato sociale fissato in uno statuto: “Un uomo ha una gerarchia del crimine, di ciò che è moralmente accettabile e di ciò che non lo è, un manifesto criminale, e chi aderisce a un codice inferiore è uno scarafaggio. Un niente”. Il “manifesto criminale” di Harlem non dà scampo. Il bene non può che evolvere in male. 

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Avendo abituato il suo pubblico a romanzi di tipo ucronico-fantastico (La ferrovia sotterranea), autobiografico (La nobile arte del bluff), documentaristico (I ragazzi della Nickel e John Henry Festival), del genere della commedia brillante (Apex nasconde il dolore) e nostalgica (Sag Harbor), Whitehead è stato visto anche stavolta come un colorista, uno scrittore impegnato nel tratteggiare il carattere nazionale degli americani, sulla scia di autori mainstream, che pure hanno con cura indagato New York alla ricerca della sua identità, quali Saul Bellow, Philip Roth, Don DeLillo. Un malinteso, sul quale lo stesso autore non è stato nelle sue interviste e presentazioni del tutto chiaro, forse per non confondere i lettori. La trilogia di Harlem ha invece molto del drammatico, venato non tanto di ironia quanto di sapido. E se è vero che porta la maschera del poliziesco, di esilarante non ha proprio niente se non uno stile linguistico del parlato sintetico tipico in autori del nostro tempo come Don Winslow e Cormac Mc Carthy, che si servono del lessico della strada, scorciato, lapidario, perlopiù fatto di proposizioni nominali, più voce che scrittura: uno stile che può indurre al sorriso, ma che nulla toglie al tono di denuncia e di sconforto, quasi un disperato grido di dolore, che Whitehead ha inteso stavolta levare. 

Semmai è ad altri autori più recenti, boomers e millennials, che occorre accostare lo scrittore di colore, in particolare alla grande triade Usa del momento, formata da Jonathan Safran Foer, Jay McInerney e Bret Easton Ellis. Escluso quest’ultimo, che pure si è mosso nel campo della disamina sociale, ma occupandosi di Los Angeles, gli altri due hanno offerto significativo materiale di riflessione sulla Grande Mela di oggi (Molto forte, incredibilmente vicino sul dopo 11 Settembre il primo e Le mille luci di New York il secondo) non però sul piano della ricerca dell’identità collettiva bensì degli errori, dei guasti e delle storture che hanno determinato un condiviso stato di degrado. Colson Whitehead è però il solo nero e perché tale, dopo il successo dei precedenti romanzi, è uscito allo scoperto con un’opera che non è un thriller né un hard boiled, ma un documento che pretesta una fabula narrativa per addurre una controstoria civile di Harlem partendo dalla fine degli anni Cinquanta e probabilmente arrivando con il terzo volume quasi alla fine del secolo scorso – non di più se Ray Carney rimarrà sulla scena senza essere centenario. Il ritmo di Harlem ha ricostruito gli anni Sessanta, Manifesto criminale il decennio successivo, l’ultimo occuperà il resto della parabola di un uomo comune in lotta contro il mondo e sé stesso. Che ha così fortuna nel commercio e nel riciclaggio da aprire il suo negozio sulla 125th Street, esattamente nel cuore di Harlem.

A ben vedere, nei primi due titoli quel che conta non è la ribalta sulla quale si muovono i personaggi, ma lo sfondo dove trascorre la storia recente del quartiere e di tutta Manhattan. L’acribia con la quale l’autore ne rileva vie, locali e vicende storiche tradisce l’intento di raccontare la città piuttosto che i suoi abitanti, proprio nell’ambito di una definizione di quartieri che costituiscono forme di enclave autonome. Harlem è uptown, area da tenere ben distinta da midtown e downtown anche nei modi e nei costumi, oltre che nell’accento. Il cineasta, anch’egli criminale, Zippo Flood “downtown avrebbe respinto il personale della maggior parte dei negozi. Chi cavolo è questo hippy nero in pantaloni di pelle di serpente e blusa giallo fosforescente. Uptown non sembra affatto strano, anzi. Addirittura conformista in alcune cerchie”. E Pepper, l’amico di Ray, ovviamente criminale, quando va downtown scopre con disappunto che i locali hanno un solo ingresso e resta spiazzato davanti alle Twin Towers, che “apparivano all’improvviso, liberate da una svolta nella strada. Incombevano sulla città come due sbirri che cercavano di capire per cosa potevano pizzicarli”. La sua idea di Lover Manhattan tradisce la concezione che ne ha lo stesso Whitehead: “Pepper era abituato alla versione di quella gente che vedeva in 125th Street, con i vestiti da barbone e l’atteggiamento insolente. Faceva fatica a comprendere la versione bianca che popolava downtown, soprattutto per quanto riguarda barba e capelli. Abbigliamento hippy a parte, in genere i neri avevano barba e baffi ben regolati e un’acconciatura afro impeccabile. Quei ragazzi bianchi andavano in giro con certa roba in testa che… be’ i gatti randagi morti che marcivano dietro i bidoni della spazzatura erano messi meglio”.

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Whitehead ha chiaro anche l’identikit del bianco razzista: “Capelli pettinati all’indietro come in un ritratto da museo e il loro candore faceva risaltare l’incarnato roseo della faccia lunga, bitorzolata sui lobi, sulle guance e sul mento. Gli occhi azzurri manifestavano una rabbia fredda, a stento trattenuta. Non c’erano dubbi: era una faccia da razzista, più da razzista Bifolco del Sud che da razzista Padre Fondatore del New England”. A dispetto dunque di ogni principio di tolleranza e di qualsiasi avanzamento nel processo di integrazione, è proprio Whitehead a segnare le differenze e parlare di razzismo. Che evidentemente vede e vive. L’America “crogiolo e polveriera”, come egli la chiama, è ancora oggi quella della discriminazione e dello scontro. “L’America era grande e segnata da vergognose chiazze di violenza e intolleranza razziale” si legge in Il ritmo di Harlem, sicché Zippo può dire in Manifesto criminale che il segreto di un film Blaxploitation, genere in voga nella Harlem degli anni Settanta produttrice di pellicole fin troppo politicamente corrette, quando i bianchi ubbidivano ai neri, è semplice: “Dai una pistola a un nero e fagli ammazzare po’ di bianchi”. L’approccio a questa visione delle cose è nel modo in cui viene presentata Lucinda, l’attrice nera protagonista di Agente segreto: Nefertiti, il film di Zippo, fatta credere una donna povera di Harlem, ma in realtà una “forestiera”, nell’idea che una ragazza povera di Harlem piaccia più di una ragazza dei sobborghi. “Dici Harlem e i bianchi si mettono subito delle idee in testa”: di ammirazione per una nera che ha avuto successo nel cinema. Un altro inganno alla Harlem per “scavalcare”.

Scavalca Ray Carney quando, in Il ritmo di Harlem, si fa convincere dal cugino Freddie di fare un colpo temerario all’Hotel Theresa, che “era come pisciare sulla Statua della libertà”. Scavalca ancora Carney in Manifesto criminale quando segue Munson come “copilota della sua furia distruttrice nella sua corsa di kamikaze attraverso Harlem” finendo ad avere a che fare addirittura con il Black Panther Party e le sue forsennate “Pantere”, militanti della liberazione nera, di fatto anch’essi criminali. E scavalca sempre Carney quando incarica Pepper di scoprire i piromani di un edificio nel quale stava per morire un bambino, finendo fra le grinfie dei “liquidatori”, la sfera occulta che riunisce politici, poliziotti e criminali bianchi e neri dedita a incendiare palazzi per ricostruire e speculare sui benefici statali relativi al rinnovamento urbano, fenomeno che ha segnato per sempre la City puntellata com’è di scale esterne antincendio divenute caratteristiche quanto il suo Skyline. Gli incendi di Harlem, molti dei quali appiccati dagli stessi inquilini per ottenere gli incentivi al trasloco, hanno ridisegnato il quartiere al pari dello scisto, la roccia granitica sotto Manhattan che ha stabilito “dove poteva passare la metropolitana” e dove costruire grattacieli. Con la sua trilogia, Whitehead sembra che abbia pensato di scavare nello scisto più profondo di Harlem.

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