Il triangolo materialistico di Jon Fosse
Vaim di Jon Fosse (La Nave di Teseo, traduzione di Margherita Podestà Heir) arriva in continuità con la Settologia, che in testa alle altre sue opere gli è valso il Nobel, riconoscimento riuscito finalmente a sdoganarlo, essendo stato lo scrittore norvegese noto fuori dal suo Paese per la produzione teatrale prima che per quella narrativa, rimasta tuttavia legata a due ipoteche: la forte toponomastica che impone la conoscenza dei luoghi fossiani e l’uso del norreno e rurale Nynorsk, che è minoritario rispetto al Bokmål, la lingua ufficiale norvegese derivata dal danese.
È però proprio nella narrativa che si precisa ancor meglio, fra Ibsen dunque e soprattutto Hamsun, uno spirito di ricerca interiore inteso a interrogare il surreale, l’onirico, il doppio, nella sfera di un soprannaturale che Vaim porta adesso a maturazione nel segno, come vedremo, anche dell’inesplorato e del remoto. La differenza è nella voce: se nella trilogia in sette parti è stata di un solo “io narrante”, colta in età diverse e molte volte delegata a un narratore onnisciente o al Doppelgänger di Asle, qui è diventata polifonica, affidata com’è a tre autori impliciti che si esprimono però nello stesso registro linguistico di un flusso di coscienza reso entro un costante presente indicativo che, cadenzando proposizioni temporali e concessive per distinguere i periodi, maschera tuttavia i modi del presente storico quando è dato dal recupero della memoria – un gioco virtuosistico questo che Fosse locupleta e complica con un lessico capace di liquidare l’interpunzione e i modelli comuni dell’interlocuzione nello stesso tempo in cui moltiplica gli effetti della narrazione spingendoli ai limiti postmodernisti della comprensione e della plausibilità. E ciò fa servendosi di una forma di presente indicativo di tipo riflessivo-psicologico che fa sua la maniera del discorso indiretto libero nel quale azione e coscienza si scambiano continuamente le cime. Non è una trama di locuzioni il testo di Fosse, ma un geyser di circonvoluzioni temerarie e ipnotiche.
Anche Vaim integra nondimeno una trilogia, ma propone una vicenda che non avrà seguito nei successivi due titoli, ognuno dei quali riguarderà, per quanto ha annunciato Fosse, personaggi e svolgimenti distinti, il solo fil rouge essendo costituito dal villaggio di Vaim, che fa da teatro a una nuova tranche de vie corale e claustrale dove inscenare ancora una volta la condizione umana tra desiderio individuale e dolore del mondo. Nel 2026 uscirà “Vaim Hotel” (titolo originale), storia di sottomissione e inganno nell’ambito circoscritto di un albergo, e l’anno dopo arriverà probabilmente anche in Italia, come Vaim (secondo una prassi della concomitanza che premia i soli autori stranieri di successo) “The Vaim Weekly”, ambientato con vertiginose fughe nel surreale dentro la redazione di un settimanale locale, specchio di una realtà di provincia che da vicino richiama la Dylgja della Settologia se non ne è la riproduzione, salvo il fatto che la Dylgja di Fosse è la Dingja in Bokmål realmente esistente, mentre Vaim è un topos immaginario: senonché l’indicazione fornita dall’autore che Vaim si trova nella contea anch’essa inesistente di Sygnefylket, eco sicura di Sygnefjord, il grande fiordo di Dylgja, conferma il proposito di ripopolare lo stesso borgo di pescatori, dove ha avuto casa il vecchio pittore Asle, di nuove figure, le prime delle quali sono in Vaim Jatgeir, Frank, Elias ed Eline, gli “io narranti” delle tre parti più la donna che Jatgeir ha amato in silenzio, “l’amore segreto della mia gioventù”, al punto da chiamare la sua barca con il suo nome fino a quando, per imprevedibili e curiose circostanze date dal caso o dal fato, i due mitologemi sacri di Fosse, non vivono per decenni insieme.
Ma non dura per sempre: quando Jatgeir muore, lei che ha lasciato il marito Frank per non vivere a Sartor, l’isola di Sotra prospiciente Bergen (Bjørgvin in Nynorsk), dove a Sund Frank fa il pescatore, torna con lui ma per stare a Vaim nella casa di Jatgeir. Eline è insomma una ulisside che non esita a lasciare il paese natio pur di avere una vita diversa, mentre Jatgeir è un penelopide radicato al suo piccolo mondo dal quale persino Bjørgvin, capoluogo di contea, appare come straniero e sicuramente estraneo.
Talmente è sentito in Jatgeir il senso di appartenenza territoriale da dichiararsi un sygning e non uno stril, “anche se mi definivo” dice “di solito così”. Sygning è l’abitante del fiordo più grande della Norvegia, il Sognefjord (Sygnefjord in Fosse), mentre stril è il pescatore o il contadino che vive nello Strilelandet, l’area a un giorno di barca da Bjørgvin, e che si contrappone al børgvinar, il residente in città. Stril è dunque chi è meno ancorato a un determinato toponimo, ancor più perché Fosse ha voluto emarginare Vaim molto più di quanto ha fatto con Dylgja, immaginandola un’isola, come ha detto a gennaio in un’intervista: “Volevo un posto completamente isolato, un’isola dove nessuno passa per caso. Vaim non è basata su un luogo reale, ma su tante piccole isole che ho visto lungo la costa”. Vaim è perciò il rifugio, ma anche l’ultima terra e il luogo della morte.
Elias, l’amico unicamente con il quale a Vaim Jatgeir intrattiene rapporti, si fa nella seconda parte voce narrante quando anni dopo lo riceve in casa convincendosi di aver visto un fantasma giacché apprende subito dopo che è appena morto annegato sulla sua Eline ormeggiata e dunque in circostanze fatte per sospettarne il suicidio: verosimile esito invero dell’impossibilità di vivere, per la preponderanza del sentimento solipsistico, con una persona sia pure la sola amata e desiderata in tutta la vita qual è Eline.
La teoria di Fosse è chiara: una terra isolata e desolata – ecco pienamente Hamsun – non può non connaturarsi in una persona preda dello stesso stato di isolamento e desolazione, nel dubbio se sia la natura a plagiare l’uomo o sia viceversa l’uomo a modellare la natura alla propria vocazione. È la stessa atmosfera che pervade il romanzo precedente, Un bagliore, dove il contatto tra uomo e natura favorito dal soprannaturale si instaura nei modi di una compenetrazione intimistica che qui però muta l’elemento soprannaturale in ipernaturale entro una prospettiva più propriamente fisica.
Elias è l’eremita assoluto, l’homo naturalis di Vaim, il posto che non lascia mai, nemmeno per un salto a Bjørgvin, per la paura che ha del mare, da cui è tuttavia circondato. È il depositario e il custode del credo nel reclusorio volontario come atto di separazione dal mondo. Pienamente ricalcato su Åsleik, l’amico e vicino di casa di Asle della Settologia, è però reso ancora più isolazionista e dunque genuino e rousseauiano. È per lui che Fosse tradisce la propria predilezione.
Frank, il marito che Eline ha prima letteralmente selezionato in un bar, poi lasciato e infine ripreso, nominandolo arbitrariamente “Frank”, quando in realtà si chiama Olav, è l’uomo che da un’isola, Sartor, va in un’altra, Vaim, ma infine torna a Sund una volta morta anche Eline, che lui chiamava “Frenka”, della quale è lui a fornire la sola descrizione per conto dell’autore: “A comandare è la volontà di Eline, adesso come prima, adesso come sempre, qualsiasi cosa si possa pensare e dire, sì, non ha nessuna importanza, così era, così è e cosi sarà”.
Eline è allora il volano della storia nonché il fattore vettoriale sul quale la natura si trasferisce, nel rapporto con l’uomo, da un piano materiale a un altro artificiale: la barca che porta il suo nome – e che per Jatgeir come per Olav (che a sua volta ha già chiamato anch’egli con lo stesso nome il suo peschereccio) rappresenta il mondo sublimato nella vita – è l’ipostasi concreta, vera e palpabile di un bene astratto, generale e impersonale qual è il creato nella specie di un’isola irraggiungibile e sconosciuta, forse posta ai limiti della realtà: per modo che Jatgeir possa così ritenere “impossibile che provassi ancora gli stessi sentimenti che avevo ai tempi per Eline, no, non era possibile, si confondevano con quelli che nutrivo per la barca”.
Ma il triangolo a distanza, sia di spazio che di tempo, tra Eline, Iatgeir e Frank non è fondato sull’amore, che è una qualità umana, ma sul bisogno e sull’istinto che è un dato di natura: per Eline è la stessa cosa vivere con l’uno o con l’altro, per cui li avvicenda con la naturalezza di un’opportunista; per Frank lei è una moglie che è stata utile come donna di casa ma che non gli ha dato figli, lo ha dominato e usato, motivo per cui perderla o averla è solo questione di convenienza e comodità personale; per Jatgeir è la donna angelicata che divenuta reale si rivela un intralcio alla sua routine di uomo solo, ormai impedito pure di frequentare Elias, il rapporto con il quale, fatto di profonda amicizia fraterna, è il solo gurgite sentimentale che rileva in un sistema reificato e ridotto ai suoi costituenti elementari. L’altro, altrettanto radicato, è per la barca (Jatgeir) e il peschereccio (Frank), che significano anche porti, darsene, bar, taverne fino a comprendere per estensione il villaggio, ma non oltre.
Quando Jatgeir, per procurarsi un ago con il filo si mette in mare (nella riduttiva copertina italiana è un bottone da cucito che campeggia nel profondo di un opinabile mare) e va a Bjørgvin finisce raggirato da un’astuta venditrice di città che gli spilla duecentocinquanta corone, la stessa somma che gli chiede un’altra bottegaia a Sartor, dove decide di andare ad ormeggiare per trascorrere la notte, senza pensare che lì vive da molti anni Eline con il marito.
Lo stril che lasci la sua Vaim (probabile accezione dialettale che sta per “baia”, “insenatura”) è destinato a essere gabbato, intende dirci l’autore. Il quale è proprio nel microcosmo a ridosso degli scali portuali che stabilisce la sua cittadinanza letteraria.
Fosse scrive di Vaim ma pensa a Dylgja e a Bjørgvin. In Vaim troviamo infatti la Caffetteria e il Caffè degli autobus, due ritrovi di Bjørgvin che nella Settologia ricordano altrettante mete fisse di Asle. È al Caffè degli autobus, dove si dice che “le donne vendano il proprio corpo, che in Un nuovo nome Ales incontra infatti Asle “per provvidenza divina”. Ed è alla Caffetteria, “uno dei caffè più accoglienti di Bjørgvin” che in Io è un altro Ales vede la misteriosa “donna dai capelli biondi” che avrà gran parte nella sua vicenda.
Ritroviamo anche il “Gula Tidend”, il quotidiano Nynorsk di Bergen di cui Jatgeir è un appassionato quanto disordinato collezionista, perché dissemina le copie arretrate per tutto il salotto. E grande è l’impressione di Elias, la sola volta in cui va a trovarlo a casa dopo l’arrivo di Eline, di non trovare una sola in giro. Il “Gula Tidend” è in Io è un altro “un buon giornale” del quale Ales dice: “Leggo sempre e soltanto il Gula Tidend e mai il Bjørgvin Tidende perché ci sono solo stupidaggini”.
Il foglio, realmente esistente, ha chiuso nel 1996 ed è dunque a un periodo precedente che occorre ricondurre la testimonianza di Elias che comprende la seconda delle tre parti del romanzo. Nell’assoluta e deliberata assenza di riferimenti temporali e di eventi storici indicatori, questo è il solo dato che implicitamente permette, fermo restando lo scrupolo di Fosse di tenersi aderente al vero certo, di delineare uno svolgimento diacronico dell’intera parabola narrativa.
Giacché Frank ha settantacinque anni quando scrive la sua parte, ne deriva che nel 1996 ne ha quarantasei e almeno da un decennio Eline lo ha lasciato per Jatgeir, giusto che anche su di lui ha avuto il sopravvento riuscendo a liberare la sua casa di tutti i numeri di “Gula Tidend” a lui così cari.
È a questa altezza temporale che può essere fissato il diario di Jatgeir, ormai ingrigito (“giovane non lo ero più da un pezzo ma neppure anziano, in là con gli anni si sarebbe potuto dire”), diario scritto in presa diretta – come compilato perlopiù in coincidenza con l’azione narrata ma aperto al recupero memoriale, sicché il tempo della scrittura integra un arco temporale ristretto mentre quello della narrazione si apre a uno spettro pluridecennale.
Jaitgeir è coetaneo sommicapi di Frank e muore dunque tra i cinquanta e i cinquantacinque anni. Essendo l’espressione “molti anni” il più frequente marcatore usato da Fosse per distinguere i fatti secondo le epoche, il diario di Elias è cronologicamente successivo a quello di Jatgeir di oltre una dozzina di anni, la stessa distanza che lo separa dal terzo di Frank, presumibilmente vicino dunque ai nostri giorni.
Dato che Eline ha lasciato Viam per andare a vivere a Sator con Frank “da ragazzina”, come precisa Jatgeir, il tempo coperto dalla narrazione copre la vita intera dei quattro personaggi sulla scena, ma per brani sciolti, per highilight o res gestae. Come dire che stavolta Jon Fosse ha voluto alzare lo sguardo, anzi espanderlo, sui valori assoluti, sui significanti dell’esistenza e dell’esperienza umana, tralasciando i passi quotidiani e quasi diaristici che hanno segnato l’andamento della Settologia. Significanti che però non rimangono né presenti né pesanti. Dalla mastodonticità della Settologia l’autore norvegese è infatti passato a una stringatezza di dettato che guadagna in simbolismo ma perde in capienza narrativa.
Alla fine le vite intere di Jatgeir, Frank, Eline ed Elias si sviliscono in pochi momenti, più che altro stati di coscienza: Jatgeir roso dal dubbio di aver fatto bene a volere con sé Eline, Frank preso dall’ossessione dell’abbandono, Eline combattuta tra due uomini che invero sono speculari, e Elias macerato nella morte senza perché dell’amico. Fosse ci dà profili, non ritratti. Non descrive i suoi personaggi, non ne segue le vicissitudini, lascia che depongano sui fatti loro più concludenti e necessari. Nel suo complesso il testo si presta più a un traitment teatrale e forse per la scena è stato da Fosse concepito, salvo poi mutarlo in romanzo, che però romanzo vero non è se non alla maniera dello scrittore premio Nobel.
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