O della responsabilità dell’essere adulti / Ancora su Michael Jackson

29 Agosto 2019

A pagina 68 del libro Su Michael Jackson della scrittrice e premio Pulitzer Margo Jefferson (66thand2nd, pag. 160, traduzione di Sara Antonelli, € 15) ci si imbatte in questa dichiarazione di Jackson: “Ci sono musicisti – Springsteen e gli U2 per esempio – che pensano di aver imparato tutto dalla strada. Io sono un performer fino al midollo. Tutto quel che so viene dal palcoscenico”. Spavalderia e rilievo polemico a parte, la frase consente di distinguere in modo molto chiaro ciò che pone Michael Jackson e la sua arte in una prospettiva diversa rispetto al rock e alla cultura “da strada” che ha determinato molta cultura popolare del Novecento.

 

Ciò che Michael Jackson sostiene è che in ambito di performance artistica il rock e, per esteso, la controcultura ad esso associata, stanno un gradino sotto l’intrattenimento. L’interprete di rock, anche il più autentico e di successo, come Springsteen e gli U2 certamente erano all’epoca della dichiarazione, può poco nei confronti di chi, come lui, è cresciuto a pane e palcoscenico fin dall’età di cinque anni. Michael Jackson sta cioè distinguendo non solo fra cultura classica (la scuola, i libri) e quella che, parafrasando Mario Vargas Llosa, chiameremmo “civiltà dello spettacolo”, ma anche, ed è questo il vero distinguo, fra la controcultura e l’odierna cultura dell’intrattenimento. Per cogliere al meglio Michael Jackson e la sua arte si deve partire dal presupposto che i suoi riferimenti non stanno nei libri (con l’eccezione forse del Peter Pan di Sir James Matthew Barrie), ma neanche nei bar di Tijuana o lungo le arterie d’America che hanno nutrito molti dei protagonisti del rock, bensì dietro un sipario. Vita e realtà sono quanto si manifesta su un palcoscenico.

 

C’è un momento nella vicenda artistica di Michael Jackson in cui il primato della rappresentazione sulla vita (la vita che diventa spettatrice di sé stessa, riallacciandosi sempre a Vargas Llosa) s’impone con particolare evidenza sul principio di rappresentazione della vita, ed è l’esibizione che lo stesso Jackson tenne in occasione della festa per i 25 anni della casa discografica Motown, Motown 25: Yesterday, Today, Forever, uno speciale televisivo registrato il 25 marzo del 1983 a Pasadena, in California. Accanto ad altre stelle di casa Motown (Smokey Robinson, i Temptations, i Four Tops, Marvin Gaye, Diana Ross), Michael Jackson, dopo aver cantato con i fratelli in una sorta di reunion dei Jackson 5, rimane da solo sul palcoscenico per interpretare Billie Jean, il suo hit del momento.

 

Margo Jefferson nel libro descrive l’esibizione nei minimi dettagli, e a pagina 27 appunta: Michael Jackson chiude al centro del palco, braccio destro in aria, stanco, ma esultante. Ha creato lo show, è lo show. Su quella storica esibizione si sono soffermati in molti, e a giusto titolo. Lo scrittore John Jeremiah Sullivan l’ha definita, in modo forse un po’ iperbolico, la cosa più ipnotica mai registrata su un palco; appena più sfumato il giudizio dell’attore e comico Richard Pryor: la più grande performance che abbia mai visto; quanto a Fred Astaire, amico di Jackson, gli riservò un encomio che poteva essere letto come un solenne passaggio di consegne: il più grande ballerino naturale vivente. Nei pochi minuti della sua esibizione Michael Jackson riuscì a distillare l’essenza dell’intrattenimento americano così come s’era andato modellando sull’arco di decenni dapprima nei minstrel show, poi nel teatro di varietà, in quello musicale, nei film di Hollywood e infine nei video clip (MTV era nata un anno prima dell’uscita di Thriller, il disco che conteneva, fra le altre, anche Billie Jean). Sul palco, nel corpo e nelle movenze di Michael Jackson, è possibile cogliere sia l’eleganza di un Fred Astaire che la disinvoltura di Sammy Davis Jr., ma troviamo soprattutto convocati buona parte dei tic, degli stilemi e degli ammiccamenti che hanno accompagnato l’intrattenimento afro-americano del secondo Novecento grazie ad artisti come James Brown o Marvin Gaye, George Clinton o Sly Stone, Jimi Hendrix o Jackie Wilson, Diana Ross o Little Richard. La quintessenza di ciò che l’intrattenimento afro-americano era stato fin lì in quanto corpo, movimento e sensualità, fu trasfigurata da Michael Jackson in una mirabolante proiezione pop, facendo di lui la stella polare della civiltà dello spettacolo.

 

 

 

(Michael Jackson, Billie Jean)

 

Margo Jefferson, nell’introduzione al libro, scritta dodici anni dopo la pubblicazione del libro stesso e dopo la diffusione del documentario Leaving Neverland che ha rinnovato le accuse di pedofilia a Michael Jackson, definisce Jackson uno dei grandi del Ventesimo secolo – l’artista popolare più elettrizzante, innovativo e influente (l’affermazione difetta però di sostegno critico e suona piuttosto come il giudizio parziale di una fan, ciò che la Jefferson fin da subito ammette di essere; un patito di Prince, per dire, troverebbe probabilmente di che obiettare), ma soprattutto gli riserva una poltrona alla destra del Padre allorquando lo definisce una divinità della nostra cultura.

 

 

Nel dubbio se attribuire a Michael Jackson uno statuto divino maggiore o minore, conviene forse sostenere che molte divinità della nostra cultura si presentano sovente sotto forma di divinità minorenni. Minorenni di fatto, per età anagrafica, o minorenni per manifesto rifiuto di crescere, a immagine di Peter Pan (a un certo punto nel libro Margo Jefferson riporta le parole stupefatte di un amico psicanalista di fronte al caso Michael Jackson: “ma ti rendi conto che stiamo parlando di uno che ha la vita interiore di Tom & Jerry?”). Probabilmente nessuno meglio di Michael Jackson potrebbe avvalorare la tesi richiamata sulla copertina del libro di George Boas Il culto della fanciullezza di cui ha scritto di recente Marco Belpoliti su queste pagine: se gli adulti sono spinti a conservare la loro giovinezza, a “pensare giovane”, a comportarsi e vestirsi come ragazzi, ciò avviene perché il fanciullo è stato imposto come paradigma di uomo ideale. Dal libro di Margo Jefferson emerge un Michael Jackson drammaticamente e inesorabilmente incapace di sottrarsi alla dimensione infantile che gli fu sottratta da bambino, ossessionato dai personaggi di Walt Disney e da un trasformismo che da cosmetico si fece vieppiù disturbante, fra il fumettistico e l’eugenetico (è totalmente Waltdisneyizzato!, dichiarò Keith Haring, ha rifiutato l’irrevocabilità della creazione divina e l’ha fatta diventare una sua responsabilità. Credo sarebbe ancora più cool se diventasse più radicale, se si facesse le orecchie a punta e si attaccasse una coda), un adulto che battezzò la sua dimora Neverland Ranch, l’isola che non c’è di Peter Pan (isola felice e pre-sessuale la definisce la Jefferson), un luogo ch’era insieme casa-rifugio della star più amata del pianeta e parco dei divertimenti dove invitare bambini in difficoltà o malati terminali. Al Michael Jackson protettore puro di cuore di tutti i bambini innocenti del mondo d’un tratto la cronaca sovrappose quella di uno scaltro pedofilo, provocando un vero e proprio corto circuito non solo nella nostra percezione di Michael Jackson, ma anche nella già precaria fiducia che s’era disposti a riporre nella nascente civiltà dell’intrattenimento. Se il fanciullo è il paradigma dell’uomo ideale, com’è possibile che se ne abusi? Dall’elogio del fanciullo all’abuso del fanciullo. Il culto dell’innocenza proprio della cultura contemporanea d’un tratto venne a coincidere in Michael Jackson con l’incubo dell’infanzia violata.

 

Nel rivedere oggi i video di Michael Jackson, quasi in opposizione al sofisticato sfoggio di mosse e ammiccamenti a forte connotazione sessuale o erotica caratteristici della black music e arrivati a Jackson via James Brown, Jackie Wilson o Marvin Gaye, appare evidente come Michael Jackson di quel catalogo sessuale ed erotico non fosse che un riflesso. Un genitore avrebbe potuto nutrire comprensibili dubbi nell’affidare la figlia a James Brown (Mister Sex Machine) o a Marvin Gaye (Mister Let’s get it on – diamoci dentro), ma a Michael Jackson…? Chi non ricorda il video di Thriller? Ambientazione horror e morti viventi a parte (altra ossessione di Michael: la perenne emersione del doppio), prima della trasformazione in lupo mannaro Michael Jackson si presenta come il più innocente dei pretendenti. Ma la manifesta assenza di passione nel modo in cui Michael si dichiara alla ragazza e la abbraccia, la sua incapacità di essere altro che bambino innocente o mostro che danza con gli zombie, impermeabile a un’arte della seduzione che dichiari, seppur velatamente, del desiderio di natura sessuale, cozza violentemente con le movenze e i sospiri che lo stesso Jackson si ostinava a rappresentare attraverso il suo corpo e la sua voce in scena (il gesto di afferrarsi virilmente l’inguine, ad esempio, appreso alla scuola del funk più maschio e debosciato, del tutto incompatibile con il personaggio Michael Jackson tutto dolcezza e gentilezza). In uno dei saggi contenuti in La civiltà dello spettacolo Mario Vargas Llosa scrive: l’erotismo rappresenta un elemento elevato di civiltà. Per sapere quanto sia primitiva una comunità o quanto sia avanzata nel suo processo di civilizzazione nulla è utile quanto esaminarne i segreti d’alcova e vedere come i suoi membri fanno l’amore. Se è vero, come pure sostiene Vargas Llosa, che la società dello spettacolo ha provocato, fra le altre cose, anche la scomparsa dell’erotismo, è altrettanto vero che Michael Jackson dell’erotismo non fu mai altro che mero riflesso, un elaborato quanto inoffensivo facsimile, una proiezione pop. L’erotismo e la libertà sessuale intese come conquiste culturali e sociali in Michael Jackson non sono date. Erotismo e sesso in lui sono come tutto il resto: un’immacolata rappresentazione di qualcosa accaduto altrove, su un altro terreno, quello della vita vera.

 

 

Dopo la diffusione del documentario Leaving Neverland e le rinnovate accuse di pedofilia, mezzo mondo si sta chiedendo che cosa fare a questo punto con la strana creatura mutante chiamata Michael Jackson. Molte radio hanno bandito le sue canzoni, altre ne hanno provvisoriamente moderato la diffusione e un po’ ovunque si è ripresentata l’annosa questione se sia o meno opportuno distinguere l’artista dall’uomo e l’arte dalla vita. La stessa Margo Jefferson si pone la domanda nella fresca introduzione al suo libro, abbozzando una risposta che appare non solo ragionevole ma anche ragionevolmente adulta: la sfida è comprendere l’arte e la vita mentre si attorcigliano e si sbrigliano l’una nell’altra, cambiando forma e direzione. Michael Jackson rappresenta qualcosa di complesso e di ingombrante per la nostra cultura. Le sue canzoni si sono depositate al fondo di ognuno di noi al punto che una loro eventuale rimozione appare non solo problematica ma persino innaturale. La sua presunta colpevolezza cozza ormai con la necessità di salvaguardare la nostra innocenza sia sul piano morale che su quello culturale. Quelle canzoni stanno lì, inestricabilmente aggrovigliate alla nostra vita, ai nostri ricordi e alle nostre emozioni. E quindi non c’è scampo: tocca diventare adulti e affrontare le responsabilità che l’età adulta comporta, compresa quella di scegliere se ascoltare o meno una canzone di Michael Jackson, continuando magari anche ad amarla, una volta che la si è scelta.

 

(Michael Jackson, Thriller)

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