Balduina, Roma. Che cosa sono venuto a cercare?

24 Gennaio 2016

Due giorni fa mi ha scritto F.: “Ci vediamo a Belsito. C’è un’edicola, si chiama Lo Strillone, è in viale delle Medaglie d’Oro 429. Non ci sarà nessuno, sarà bellissimo”. F. è la mia guida, è cresciuta fra queste strade, ha insistito affinché ci vedessimo di domenica per fare il giro del quartiere: “A Balduina è una perenne domenica pomeriggio”. Belsito è la zona di piazzale delle Medaglie d’Oro che si affaccia sulle pendici del parco della Vittoria, rientra nella categoria dei toponimi confidenziali (Roma ne è piena: “piazza Quadrata”, “l’Esedra”, “la Rotonda”…), ossia è uno di quei nomi propri di luogo che fanno riferimento ad antiche definizioni sopravvissute al progresso, in genere chi ne fa uso tende a rimarcare la propria appartenenza territoriale. Ma F. non è tipo da “appartenenza territoriale”, il sentimento che prova verso il clima sonnacchioso che ammanta il quartiere è netto: “Qui l’atmosfera è da strage nella bifamiliare”.

 

 

 

Tuttavia, alle tre e mezza del pomeriggio dicembrino, la luce in piazzale delle Medaglie d’Oro è deliziosa, sa di trine, di confetti, di auguri, di poltrenti giorni di festa. La strada è deserta, l’unico mezzo che passa è una carrozzina elettrica per disabili guidata da una donna, si ferma al centro della carreggiata, in curva, in un punto molto pericoloso, la totale sicumera con cui sfida il traffico assente è la riprova del coma balduinico. F. addita una fila di palazzine color biscotto con i balconi arancioni, verdi e rossi, modernismo d’annata alla Le Corbusier. “È di Luccichenti”, dice. La parola palazzina a Roma ha un suo preciso universo evocativo: prototipo micragnoso di abitazione piccolo borghese, focolare del buonsenso, dimora di qualunquismo. Se la città imperiale era la Roma dei templi dagli ordini colonnati dell’architettura greca, e la Roma barocca prosperava sotto il dominio delle basiliche dalle linee curve, la città contemporanea è inequivocabilmente la Roma delle palazzine.

 

Di Luccichenti è pure un’altra struttura che incontriamo poco dopo, la Casa dell’Ammiraglio in via Carlo Evangelisti, un edificio a forma di battello affacciato sul parco del Cavalieri Hilton. F. mi mostra un timone piazzato sulla balconata anteriore del complesso, che sembra a tutti gli effetti una nave che fa capolino dal punto più alto di Roma. Osservo la Casa dell’Ammiraglio arrampicandomi su un muricciolo, mentre il sole precocemente basso sferza la collina. Scendiamo lungo via Cadlolo e chiedo a F. se nella percezione degli abitanti esiste una Balduina “alta” e una Balduina “bassa”. Davanti a noi si erge in controluce la sagoma del ripetitore di Monte Mario. È una piccola torre della televisione in stile DDR. Berlino è a due ore di volo, penso. Ma se Alexanderplatz è lontana, la DDR è sepolta nel secolo scorso, e il comunismo qui non è mai stato di casa. Su un muro rosa, tra villette a schiera e palazzine a tre piani con balconi ornati di erica e ciclamini, campeggia una scritta a spray: “Fascist love”. “Boh…”, risponde F. sulla questione Balduina alta/bassa.

 

Palazzine di Amedeo Luccichenti, P.le delle Medaglio d'Oro

 

Mentre riprendiamo viale delle Medaglie d’Oro, parliamo di Carlo Valletti, il protagonista di Petrolio. “Non abitava alla Balduina?” Abitava in una palazzina ai Parioli. Tuttavia poteva essere un qualsiasi quartiere romano, purché ricco e borghese. Quindi anche la Balduina. Ciò che per Pasolini contava era la ripugnanza del lusso, delle belle auto nei garage, dei citofoni luccicanti in ottone, la collusione col potere, e lo sguardo di Carlo su una Roma che fosse degradata, anonima, in rovina: “Correvano nel cielo nuvole calde, covando in terra, l’umido della pioggia che poco prima vi avevano tristemente scaricato. Pareva che la vita nella città si fosse interrotta. Carlo, come sempre, era oppresso dall’angoscia; il non aver niente da fare se non l’occuparsi della casa – con la certezza che in queste cose hanno gli uomini sui trent’anni – lo obbligava a stare solo con se stesso, come un’ombra; e quindi a recitare quella scena di solitudine di fronte al panorama di Roma (che da lì sembrava una città come Atene o Beirut)”.

 

Ci immettiamo in via Seneca. F. mi mostra una palazzina con la facciata al quarzo plastico. È un tipo di intonaco che andava di moda trent’anni fa, mi spiega, aggiungendo che il quarzo plastico è caratterizzato da una bassa capacità di traspirazione, per cui è stato rimosso in molti edifici della zona per evitare danni strutturali. Passiamo davanti a un solarium, luccica il neon di un’insegna blu e gialla: Tropicana. Nell’anestesia totale del quartiere, il Tropicana fa la figura di un acrobata in un reparto di traumatologia. Arriviamo nella piazza del mercato, uno slargo quadrato coperto sui quattro lati da grossi palazzi di otto piani, le facciate sono incerottate da un’infinita ripetizione di terrazzine chiuse con vecchi infissi in anodizzato. Al centro della piazza la struttura del mercato ha una copertura a sbalzi dall’aspetto asfissiante.

 

La Casa dell'Ammiraglio

 

Il quartiere è un continuo saliscendi. F. mi parla delle scalinate della Balduina. Nascoste tra i palazzi si trovano queste rampe che dalla strada risultano quasi invisibili. Servono a raccordare interi isolati costruiti su diversi livelli di altitudine. Me ne mostra una che appare all’improvviso sotto i portici di piazza della Balduina, accanto a una gelateria-creperia con la radio accesa che diffonde nella strada un gargarismo di Venditti tra i più operistici. Sui marmi ci sono dei graffiti, il più grande raffigura un’emoticon triste con accanto la scritta “Shock”; il più piccolo dice: “Mi hai fatto soffrire. Soffrendo sono cresciuta”. Mi piace immaginare che si riferisca al quartiere.

 

Il sole scende dietro le cime dei palazzi, le poche nuvole sparse nel cielo diventano soffuse del colore di un cranio in una lastra radiografica. Fa freddo, sempre di più mi sembra. Georges Perec, che è il nume tutelare di queste passeggiate, il 19 ottobre 1974, seduto al Tabacchi Saint-Sulpice, scriveva: “Curiosità insoddisfatta (che cosa sono venuto a cercare, la memoria che galleggia in questo caffè)” – da Tentativo di esaurimento di un luogo parigino. Io pure mi pongo la stessa domanda di Perec, una domanda che Perec si pone senza punto interrogativo, come se fosse un’affermazione riferita alla seconda parte della frase, alla memoria. Perec va a cercare la memoria che galleggia nei luoghi. Io adesso, seduto a questa scrivania, mentre batto sulla tastiera di un computer, vado invece cercando i luoghi che galleggiano nella memoria, luoghi non particolarmente memorabili, luoghi che non hanno attrattiva, luoghi che mi sono successi giorni addietro, come succedono i fatti, nonostante questa simulazione di tempo presente che vado sciorinando, come se i luoghi mi succedano adesso, cioè come se io scrivessi in tempo reale le cose che vedo e le strade che attraverso. Che cosa sono venuto a cercare? Cerco nei quartieri che visito, nelle strade senza fascino, nei passanti senza mistero, la più acuta intuizione, un insieme spaiato di parole che formi il calligramma della vita corrente. E lo restituisco – il calligramma – nella finzione del tempo presente (cosa c’è di più finto del presente?).

 

Da sinistra: Il ripetitore di onte Mario; La pista ciclabile

 

La luce si affievolisce un minuto dopo l’altro, voglio arrivare alla stazione ferroviaria prima che faccia notte. Attraversiamo strade tutte uguali, risalendo la collina, è come se attraversassimo una casa fatta di un unico corridoio sul quale si aprono stanze colme di grandi specchi, modanature, caminetti, pavimenti in legno, odore di vecchia borghesia, antiche proibizioni che ancora aleggiano nell’aria, la doratura del silenzio che ammanta ogni cosa. C’è un Babbo Natale appeso su un balcone al secondo piano e un cartello davanti a un’edicola chiusa su cui è scritto: “Tutto può cambiare in soli cinque minuti”. Non c’è niente da vedere, solo portoni, serrande abbassate, qualche misurato addobbo, i manifesti in memoria di Gabriele Sandri, il tifoso laziale ammazzato in un autogrill da un pistolero senza onore: “Gabriele Roma ti piange”. Io e F. non riusciamo a intavolare una discussione prolungata, non facciamo che rimbalzare da una strada all’altra come palle da biliardo che reagiscono a una fisica casuale. Mi sento come John Locke nel Saggio sull'intelletto umano: “Dopo esserci un po’ tormentati, senza avvicinarci alla soluzione dei dubbi che ci angustiavano, mi venne in mente che avevamo preso una strada sbagliata”.

 

Quando arriviamo nei pressi della stazione, sulla strada passa un uomo in moto, ha un cappello da Babbo Natale infilato sopra il casco e una barba bianca posticcia legata alla visiera. Due bambini sul marciapiede lo additano, la madre dei bambini sorride, il motociclista fa inversione a U e passa nuovamente davanti ai bambini e alla madre, alza il braccio sinistro e mostra loro il dito medio. Nei quartieri austeri rintraccio sempre una vena di follia. La stazione è sulla ferrovia Roma-Capranica-Viterbo, è un piccolo edificio in mattonato ocra e verde che domina una pista ciclabile. Avvisto da lontano un gruppo di ragazzi radunati attorno a una panchina, e un uomo che passeggia al lato della pista, i palazzi che affacciano sulla ciclabile sono baciati dall’ultimo sole del giorno. F. dice che oltre la stazione comincia la Valle dell’inferno. Il Monte Ciocci domina la Valle Aurelia. La denominazione dantesca deriva dalle fornaci ormai dismesse che un tempo ricoprivano di fumo la vallata. Sulla sommità del monte c’è quello che Ettore Scola, nel film Brutti, sporchi e cattivi con Nino Manfredi, ribattezza il Borghetto dei sorci, ossia l’agglomerato di baracche in cui vivono i derelitti della famiglia Mazzatella.

 

 

Giorgio Manganelli scriveva: “Il nostro tempo feroce e fatuo ci ha imposto una scoperta terribile e stupenda: la solitudine. Oggi non occorre essere eremiti, c’è solitudine per tutti”. Mentre andiamo in cerca di un caffè aperto quasi scivolo su un incarto abbandonato in mezzo alla strada. È una scatola di camomilla Sognidoro. Con la mente vado a una mia vecchia ossessione poetica: il mondo prima della comparsa dell’uomo. Per assecondare la mia ossessione a volte vado in cerca delle definizioni delle ere geologiche più remote. Leggo frasi così: “La base del Famenniano, è fissata alla prima comparsa negli orizzonti stratigrafici dei conodonti della specie Palmatolepis triangularis. Questo limite è appena al di sopra dell’evento di estinzione di massa, noto come Kellwasser Event, che ha portato all’estinzione di tutti i conodonti dei generi Ancyrodella e Ozarkodina e di quasi tutte le specie di Palmatolepis, Polygnathus e Ancyrognathus”. Lo faccio perché mi sento attratto da questo linguaggio scientifico così impassibile e freddo,  un linguaggio che liquida milioni di anni di storia in un soffio di parole. Di quei millenni non so niente. Mi faccio delle domande ma non so niente. La memoria della specie umana, di cui conservo nei condotti genetici, come ogni creatura vivente, una particella infinitesimale, non ha tenuto nulla di queste epoche remotissime, del vento che batteva le lande disabitate del mondo, delle piogge preistoriche che bagnavano la solitudine cosmica. È un paradosso spettacolare. Tutto questo tempo – questa volume sterminato, abnorme, di tempo – è passato, e questo timido, fugace e caldo essere umano che sono diventato cerca di ricordare, di condensare in un’immagine un paesaggio terrestre inviolato, abbacinante e limpido come una stella appena nata. Il ricordo della preistoria è caldo e pacifico. Il paradosso, dicevo, è che la poesia precede la storia.

 

Balduina svanisce nella notte dalle tinte invernali e nell’immagine mentale della collina liscia che fu, prima della Roma delle palazzine, prima della Roma delle basiliche dalle linee curve, e prima della Roma dei templi dagli ordini colonnati dell’architettura greca. Sotto i nostri piedi ora c’è l’asfalto umido. Ogni cosa sembra bagnata e scura. Eppure la mia mente mi parla dei colori che ha avuto questa terra, di come scintillava il muschio illuminato dal sole, della luce. Ci sediamo ai tavoli all’aperto di un caffè, guardo i pochi clienti che sorseggiano vino da aperitivo, già si avverte la tristezza della festa passata, il presentimento delle giornate incolori che verranno col nuovo anno. La vita intorno a noi ritorna ad essere una vita qualunque.

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