Il racconto dei nostri geni / Breve storia di chiunque sia mai vissuto

18 Dicembre 2017

Sono sempre stato affascinato dagli uomini di Neanderthal e tra letture e fantasie questi antichi abitatori della Terra mi hanno accompagnato negli anni. Ora, in questo libro, ho trovato una tale dovizia di informazioni su quelle enigmatiche creature che non mi stanco di leggerlo e rileggerlo. Nel 1856 furono scoperte nella valle di Neander, in Germania, alcune ossa fossilizzate che furono attribuite a un ominide non Homo sapiens, e questa identificazione segnò l’inizio effettivo della paleantropologia. Molti anni più tardi, nel 1997, si riuscì a estrarre da queste ossa quantità esigue di DNA, un DNA vecchio di decine di migliaia di anni: ebbe così inizio la paleogenetica, lo studio del DNA attraverso i millenni. Da questi studi si è potuto vedere ciò che era accaduto all’umanità durante quelle lunghe ere: il genoma si è rivelato una vera e propria macchina del tempo, che ci narra una storia affascinante, fatta di nascite, morti, malattie, guerre, carestie, migrazioni, epidemie. 

 

Per anni il DNA è stato letto solo come un manuale di istruzioni: il “codice sorgente” della nostra vita. Lo si è studiato, tagliato, sperimentato con le sue sequenze e si continua a farlo alacremente. Ma dal 2001, da quando cioè è stato per la prima volta pubblicato il risultato dello Human Genome Project, quella stringa di ATGC lunga un paio di metri contenuta nel nucleo di ogni nostra cellula può essere letta come un libro di storia. Questa prospettiva ha chiarito e insieme complicato enormemente l’immagine lineare che si aveva dell’evoluzione di cui siamo frutto noi Sapiens. Così si scopre che l’umano da cui siamo derivati noi si differenziò da quello che generò i Neanderthal circa 500.000 anni fa. Tuttavia quando, partendo dall’Africa, i nostri progenitori giunsero in Europa, circa 60.000 anni fa, i Neanderthal vi si erano stanziati già da tempo, sia pure in comunità piuttosto esigue. Per alcuni sarà sorprendente, ma tra i Sapiens e i Neanderthal vi furono accoppiamenti continui e ripetuti, di cui noi portiamo ancora le vestigia: qualche unità percentuale del nostro DNA è di origine neanderthaliana, diciamo tra il 2 e il 5 percento, confermando che i Neanderthal furono anche nostri antenati: l’interfecondità ci suggerisce che Sapiens e Neanderthal non erano due specie distinte. Rutherford ci informa che questo DNA residuale viene via via eliminato dal nostro genoma al passare delle generazioni e non è più alimentato dagli incroci interspecifici, dato che gli ultimi Neanderthal sono scomparsi da circa 30.000. 

 

Visto il livello culturale piuttosto elevato conseguito da quegli ominidi, specie in campo artigianale e artistico, sorge la domanda se essi sapessero parlare. Per quanto riguarda Homo sapiens il linguaggio parlato è stato uno dei motori fondamentali del pensiero simbolico astratto e dello sviluppo della civiltà (gli altri due sono stati il cervello e la mano, in feconda e reciproca interazione positiva con la parola): il linguaggio, consentendo la coordinazione delle attività e la coesione del gruppo, ha originato l’intelligenza collettiva, uno strumento virtuale ma concretissimo che ha continuato a svilupparsi, alimentando il progresso della scienza, della filosofia e della tecnica. Una specie che acquisisca il linguaggio subisce una metamorfosi radicale e globale, fa tutto in modo diverso e vede il mondo in modo diverso. 

Dunque: i Neanderthal parlavano? Con tutta probabilità sì, ci dice l’autore. Ma allora perché una stirpe piuttosto evoluta, in grado di parlare, dotata di un cervello più grosso del nostro, con una spiccata attrazione sessuale nei nostri confronti e depositaria di una cultura progredita è scomparsa? Il DNA dei Neanderthal testimonia di un’esigua diversità genetica, indice di una popolazione scarsa, forse qualche migliaio di individui, quindi sempre a rischio di estinzione.

 

 

Ma ci sono altre possibili cause della loro scomparsa: forse erano meno aggressivi e violenti di noi, forse li abbiamo cacciati e magari mangiati, forse li abbiamo contagiati con patologie africane contro cui non erano attrezzati e che si sono rivelate letali... Fatto sta che “Alla fine la nostra esistenza ha inglobato la loro. I Neanderthal erano una protospecie, una luce allo stato embrionale balenata nel tempo dell’evoluzione, non abbastanza forte, però, da sopravvivere al trascorrere delle epoche. Quale che sia stato il loro motivo di scemare da pochi a nessuno, noi portiamo dentro i loro geni, e la loro immortalità durerà quanto durerà la nostra” (61).

 

Mi sono dilungato sui Neanderthal per il fascino che ne promana e anche perché quanto ci racconta Rutherford su di loro dissipa in gran parte il falso stereotipo per cui nel linguaggio comune Neanderthal è sinonimo di rozzo cavernicolo, stupido e impacciato. Ma il libro contiene molto altro, compresa una reiterata confutazione del fissismo: “Aderiamo a un sistema pensato per dimostrare la perfezione della creazione divina, fatto di organismi statici nel tempo e scolpiti nella pietra. Darwin distrusse quell’ideale con la sua grande intuizione, perché riconobbe che la vita attraversa il tempo e subisce continui cambiamenti. Le uniche forme di vita che non cambiano sono quelle già morte” (68). La paleoantropologia e la paleogenetica ci dimostrano che i Neanderthal e altri nostri cugini ormai estinti rendevano il mondo di un tempo molto più cosmopolita di oggi: “L’albero genealogico è stato potato e ora stiamo ridisegnando gli affluenti, i fiumi e i ruscelli che hanno formato il lago in cui oggi tutti noi nuotiamo” (68). La visione del tempo profondo consentitaci dalle nuove tecniche ci insegna che ci portiamo appresso il passato: “Non c’è stato un inizio e non ci sono anelli mancanti. C’è solo il flusso, il deflusso e ancora il riflusso della vita attraverso le epoche. Quegli antichi uomini non si sono mai estinti: ci siamo solo mescolati” tramite un’intensa attività sessuale!

 

Ricorrente nel libro è pure la confutazione del determinismo genetico, pregiudizio ancora diffuso nella cultura non solo popolare e alimentato da una concezione estremamente semplificata dell’incredibile complessità della biologia umana: “La sequenza genetica di un individuo fornisce poche e limitate informazioni” (49). E comunque la genetica non determina affatto il destino di una persona. Tornando ai nostri amici scomparsi, “Nonostante si conoscano potenzialmente tutti i geni dell’Homo neanderthalensis, resta il fatto che nella maggioranza dei casi conoscere l’esatta sequenza di un gene non basta per sapere con esattezza che cosa faccia davvero quel gene” (55).

 

Come tutte le discipline del vivente, anche la genetica ha carattere probabilistico e rifugge dalle asserzioni perentorie e immutabili, soprattutto a causa della complessità del suo oggetto, costituito da una quantità enorme di componenti legate tra loro da un numero ancora maggiore di relazioni non lineari. Inoltre vi sono aspetti che non conosciamo e aspetti che non sappiamo neppure di non conoscere. Ma questo è il bello della ricerca, che ad ogni svolta ci può spalancare un paesaggio straordinario e insospettato! Inoltre la poca o tanta influenza che ha su di noi il genoma dei nostri antenati si diluisce risalendo all’indietro nel tempo: “Il continuo rimescolamento dei geni e l’influenza altamente variabile e incredibilmente complessa che i geni hanno sui nostri comportamenti fanno sì che i nostri progenitori abbiano in assoluto un minimo ascendente su di noi” (139).

 

Un capitolo intero, il quarto, è dedicato alla confutazione di uno dei pregiudizi più tenaci e sinistri, quello della razza. Ciascuno naturalmente è libero di coltivare i preconcetti che più gli aggradano, ma non al punto di servirsene per adottare o imporre comportamenti odiosi o addirittura atroci e distruttivi, com’è accaduto e purtroppo continua ad accadere a proposito appunto della razza. Sotto il profilo genetico le razze non esistono: il mito della razza pura, al pari di quello della purezza della lingua o della scienza, è insostenibile non appena si indaghi un po’ a fondo con un minimo di obiettività e di rigore. A livello popolare, ma non solo, si chiama ‘razza’ quel quid che s’incarna in certe differenze superficiali ed evidenti (il colore della pelle, la forma degli occhi, lo spessore e il colore dei capelli e così via), mentre a livello profondo, genetico, le cose vanno assai diversamente: “La biologia inganna i nostri occhi. Geneticamente parlando, due persone nere hanno più probabilità di essere più diverse tra loro di quanto non lo siano una persona bianca e una persona nera” (204). Ma le differenze genetiche non si vedono, mentre le differenze fisiche, fenotipiche, tra un bianco e un nero sono molto visibili e questa evidenza ha contribuito al mito della razza. 

 

“A mio parere non esiste un linguaggio in grado di allineare il nostro modo di parlare delle razze con quello che ci stanno mostrando la genetica e l’evoluzione. La genetica ci ha mostrato che la variabilità umana e la sua distribuzione sul pianeta sono una faccenda più complessa, che richiede un’indagine più sofisticata rispetto ai tentativi di farla collimare con termini rozzi e imprecisi come ‘razza’ o ‘bianco’ e ‘nero’... il concetto di razza è privo di qualunque valore scientifico” (229). Vero, ma la scienza e il sentire comune non si sono ancora incontrati.

Questo di Rutherford è dunque un libro di storia, o meglio un libro dove la storia e la genetica, due discipline tradizionalmente distanti, s’intersecano e si fecondano a vicenda. La ricerca storica fa sempre più uso di concetti e di tecniche provenienti dalla scienza e la scienza sta acquisendo a mano a mano una maggiore consapevolezza della storia. E dal meticciamento nascono, come sempre, novità e prospettive illuminanti.

 

Adam Rutherford, Breve storia di chiunque sia mai vissuto. Il racconto dei nostri geni, Bollati Boringhieri, Torino 2017.

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