Cuba: una famiglia esplode nel paese imploso / Carlos Manuel Álvarez, Cadere

11 Aprile 2020

“Non cerchi di aggrapparti a niente, ti abbandoni alla corrente, come un corpo rotto, fino a che ti impigli in un giunco o qualche mulinello ti trascina o ti assesti su una secca, e poi l’ultima cosa che pensi è che è andata, ora ti addormenti, e che quello, che ora ti addormenti, è l’ultimo pensiero che fai, e che poi nella tua testa non ci sarà nient’altro, e poi, in effetti, non c’è nient’altro.”

Una nuova generazione di scrittori attraversa e rinnova la letteratura sudamericana. Poeti, specialisti del cuento o del romanzo, hanno tutti tra i trenta e i quarant’anni, o poco più, conoscono la storia imponente e sofferta dei loro paesi d’origine, così come quella dei loro padri letterari e la rispettano, ma vogliono dimostrare che si può scrivere in maniera diversa. Scrittori come il colombiano Juan Cárdenas, l’uruguaiana Vera Giaconi, l’argentino Federico Falco, la messicana Brenda Navarro e la cilena Nona Fernández (di queste ultime due abbiamo parlato proprio su Doppiozero qui e qui), l’elenco potrebbe proseguire ancora  a lungo, mi limito ad aggiungere Carlos Manuel Álvarez, cubano, nato nel 1989, autore di Cadere (Sur 2020, traduzione di Violetta Colonnelli), un piccolo e folgorante romanzo. Álvarez, pur essendo molto giovane, vanta già varie e importanti pubblicazioni di non-fiction, su testate come The New York Times, The Washington Post e Internazionale; ed è fondatore della rivista El Estornudo.

“Telefono a mia madre per saper se è caduta e mi dice di no”. Questo è l’incipit del romanzo o, per essere precisi, uno dei quattro incipit. La particolare costruzione della narrazione fa sì che gli inizi di questo libro siano quattro. Quattro sono i punti di vista, quattro i personaggi, quattro le voci che raccontano la storia. I quattro, insieme, sono una famiglia cubana, nel nostro tempo, ai giorni nostri.

 

“Adesso tutti si prendono quello che gli danno, e pure quello che non gli danno. A volte penso, anche se naturalmente non lo dico, che gli eroi della patria abbiano avuto una vita più facile della mia.”

Il libro è diviso in cinque parti, per ogni parte ci sono quattro capitoli. I capitoli hanno questi titoli: Il figlio, La madre, Il padre, La figlia. Ognuno racconta un pezzo di questa storia, cominciando dove uno ha finito, riavvolgendo il nastro e mostrandoci qualcosa che è accaduto prima, qualcuno scava nella memoria, qualcuno si sente tradito, qualcuno è troppo giovane per capire il padre, qualcuna è troppo spaesata per stare accanto ai figli, il padre è troppo solo e deluso per poter fare alcunché.

“Dopo un certo numero di cadute, il corpo a volte fa lo stesso rumore dei sacchi di cemento o dei libri spessi e duri tipo i dizionari, ma a volte fa anche lo stesso rumore dei bicchieri di cristallo o dei vasi di porcellana.”

 


Álvarez racconta la storia di una famiglia come tante, come sono le famiglie nella Cuba di oggi, con i conflitti interni, le sofferenze, gli affetti sopiti e le paure, le disillusioni. La rivoluzione è qualcosa che non ha alcun senso, non ce l’ha più, secondo il figlio. Non è mai finita, secondo il padre, funzionario integerrimo, che cita Che Guevara ogni volta che può. Uomo incorruttibile, d’altri tempi, che punisce severamente chi non segue le regole, che non accetta raccomandazioni e che, inevitabilmente, pagherà un prezzo molto alto. Se non accetti raccomandati, non ci fidiamo di te, pare dirgli il governo. Ti dici incorruttibile ma forse sei più corrotto di noi. 

La figlia aspira a una vita normale e prova ad andare avanti, ma in questa Cuba è difficile, bisogna cedere per sopravvivere, tacere per provare a sperare. Tornare a casa non sapendo dove altro andare. “Sapevo di sapere sempre meno e che quella breccia d’ignoranza e incapacità sarebbe aumentata. Ma ogni volta che sapevo qualcosa di meno, ogni volta che un nuovo concetto si rifiutava di essere nominato da me, sapevo anche che non c’era niente di meglio di non sapere.”

 

Infine c’è la madre. Il personaggio attorno a cui tutta la storia gira. Dalla sua cucina e dalla sua fragilità dipendono le sorti della famiglia e si intravedono i destini della nazione. La donna cade, comincia a cadere in preda alle convulsioni, si ferisce, sbatte, sta male, a volte si assenta con la mente, o così pare al figlio, al marito, alla figlia. Eppure è il cardine, il suo stato di salute precario diventa l’unità di misura del caos famigliare. Ogni sua caduta apre una crepa nuova nei sentimenti che reggono il nucleo dei quattro personaggi. È una donna perduta e trascina con sé i figli ancora molto giovani in un mondo dove tutto pare crollare e abbandona il marito, già lasciato a terra dalla patria, lo abbandona come in una fotografia, con lei riversa sul pavimento del bagno, lui in poltrona che non riesce a soccorrerla. Con questa polaroid in testa me ne sono andato dal romanzo di Álvarez.

“Con il ritorno della coscienza il corpo emette i suoi segnali. La prima scarica la dà il dolore. La sofferenza è la pace.”

Sullo sfondo Cuba, che segue le sorti di questa famiglia, ed è perduta, dolente, seppur ancora meravigliosa. La rivoluzione è qualcosa che è stato e forse mai definitivamente compiuto. I poveri sono poveri, sul fatto che siano felici restano molti dubbi. Il servizio militare obbligatorio, che sta svolgendo il figlio, è una rappresentazione, un miraggio, un film surreale. Ci si addestra per cosa? Per chi? Dov’è Che Guevara? Dov’è Fidel?

 

Se la famiglia esplode è perché il paese è imploso. Dove stavano gli ideali ora regna la corruzione, l’approssimazione. Dentro casa, invece, dove regnava l’amore e l’unità, ora ci sono quattro direzioni diverse. Ognuno dei protagonisti pare essere rinchiuso in una stanza chiusa. Il padre è nella stanza dei sogni perduti. La madre è nella stanza della vita che va a scomparire, del corpo che non sa stare più in piedi. Nella camera della figlia non è presente alcuna speranza. Nella stanza del figlio c’è un futuro da immaginare ma mancano gli strumenti. In tutte le stanze, così come nel paese, ci sono molte ragnatele, più polvere che tappeti.

Álvarez ha una bellissima prosa (per questo ringraziamo anche Violetta Colonnelli per la traduzione molto riuscita), brillante e vivace e lirica, ci mostra il disagio della Cuba d’oggi, un posto di cui conosciamo molto poco, sceglie di farlo partendo da un piccolo nocciolo familiare e ci riesce, perché indovina i quattro protagonisti, l’intreccio tra dinamiche casalinghe e governative. Indovina le voci, ogni personaggio narra in prima persona, ognuno ha la propria versione, il proprio sentimento, il proprio posto al centro del palco.

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