Lo spazio mitico della antica sapienza / Dieta mediterranea: di che parliamo?

20 Luglio 2016

Qualche giorno fa durante una cena tra amici si parlava della dieta mediterranea. Sembrava che tutti avessero un’idea chiara di cosa fosse: olio di oliva contro burro e panna, pasta al pomodoro contro hamburger con ketchup, pesce azzurro contro cordon bleu, cibi freschi contro lunga conservazione. In generale, cibo che fa bene contro cibo che fa male. Sul punto della salubrità c’era un accordo unanime perché non si trattava di opinioni: è la Scienza che lo dice. Cosa di preciso dicesse la Scienza, però, non era affatto chiaro. Pochi grassi? Tante vitamine e antiossidanti? Qualcuno riconduceva le virtù di questa dieta al principio che mangiare molta pasta è pur sempre meglio che mangiare molta carne e citava la nota piramide alimentare, che compare occasionalmente nelle riviste. Ci fu chi tirò in ballo gli omega 3, presenti nell’extravergine e nelle sarde, ma altri obiettarono che ultimamente gli omega 3 si trovano anche nel salmone affumicato alla PAM, che non è proprio mediterraneo. Qualche dubbio su carbonara e amatriciana, per via del guanciale; nessun dubbio sulla caprese, invece, nonostante la bufala. 

 

Gli sviluppi di questa discussione attorno a una tavola, che racconterò più avanti, mi aiuteranno a riflettere su come noi ci rapportiamo alla Scienza e su come essa venga metabolizzata dai nostri imperfetti apparati critici, diventando nutrimento per le nostre opinioni. Un nutrimento corroborante, anche quando, come avviene a volte, è rimasticato. Nei nostri discorsi sulla dieta mediterranea, in particolare, la scienza manifesta la sua natura molteplice, ora di metodo per conoscere la realtà, ora di retorica che persuade, ora di mito a cui si crede.

 

Grassi saturi o zuccheri semplici?

 

La dieta mediterranea è stata teorizzata a partire dagli anni ’50 da un illustre fisiologo statunitense, Ancel Keys (Minneapolis, 1904-2004), nel quadro dei suoi studi sulla correlazione tra alimentazione e malattie cardiovascolari. Keys fu tra i primi a individuare nell’accumulo di colesterolo nel sangue uno dei principali fattori di rischio di infarto e a formulare l’ipotesi che questo accumulo fosse favorito da una dieta ricca di grassi saturi. Il suo primo successo editoriale Eat well and stay well (1959), oltre a divulgare le sue ipotesi, introducendo il colesterolo nei discorsi degli americani, tracciava le linee guida per una dieta salutare. Queste linee guida si ispiravano esplicitamente alle abitudini alimentari delle popolazioni dell’Italia meridionale, per la precisione gli operai e i contadini del Cilento, che lui aveva incontrato durante un viaggio di studio di alcuni anni antecedente alla pubblicazione. La bassa incidenza di infarti presso quelle popolazioni e la loro longevità lo avevano attirato in quei luoghi, dove sperava di trovare una spiegazione per l’enorme divario con gli Stati Uniti, dove al contrario l’incidenza di malattie coronariche aveva assunto proporzioni epidemiche.

 

Cercando la spiegazione nell’alimentazione, Keys individuò un possibile fattore discriminante nella quantità di grassi animali: elevatissima nella dieta tipica degli americani, scarsa in quella dei Cilentani, i quali provvedevano alla maggior parte del loro fabbisogno calorico con frutta, verdura, pane, pasta e olio d’oliva. Fu così che si formò nella sua mente, o si rafforzò, la cosiddetta lipid-hypothesis destinata a influenzare per decenni le raccomandazioni dei medici e le politiche dei governi occidentali in materia di alimentazione. Se siamo inclini a pensare, assieme ai miei amici, che il burro e la panna vadano evitati, se teniamo a freno la nostra passione compulsiva per il formaggio, se la dicitura senza grassi su una confezione ci rassicura a prescindere da altre considerazioni, come ad esempio il contenuto di zuccheri o di farine raffinate, se siamo convinti che un bicchierone di succo di arancia non possa fare che bene: se abbiamo delle convinzioni di questo tipo lo dobbiamo a un generale allineamento del pensiero sulla nutrizione alle tesi di Keys.

 

Ora, in uno stimolante articolo di Ian Leslie The Sugar Conspirancy, comparso su The Guardian ad aprile 2016, si sostiene che la lipid-hypothesis nella forma proposta da Keys potrebbe perdere la sua forza prescrittiva. Nella comunità scientifica si comincia a credere che il ruolo dei grassi saturi nell’insorgenza delle malattie cardiovascolari sia stato ampiamente sopravvalutato e ci si concentra sull’ipotesi antagonista, la sugar-hypothesis, secondo la quale la causa principale della preoccupante diffusione di malattie cardiovascolari, oltre che di obesità e diabete, va ricercata nell’eccessivo consumo di zuccheri semplici e in generale di carboidrati raffinati. Per oltre 40 anni i difensori della salute pubblica avrebbero sparato contro il bersaglio sbagliato, i grassi saturi, lasciando i veri killer, gli zuccheri semplici, agire relativamente indisturbati nei metabolismi delle società occidentali provocando i disastri evidenziati dalle statistiche: sempre più obesi, sempre più morti. Il consenso sulla lipid-hypothesis si formò, si dice nell’articolo, non tanto attorno a indiscutibili evidenze sperimentali, quanto attorno a personalità forti del mondo scientifico. L’autorevolezza di Ancel Keys, in particolare, pioniere degli studi epidemiologici sull’alimentazione, riuscì ad aggregare alleanze influenti dentro le istituzioni e le università, che contribuirono ad accreditare le sue ipotesi come fatti scientifici e a finanziare i dispendiosi studi sul campo con cui intendeva comprovarli.

 

 

 

I dissenzienti, che pure vi furono, ebbero presto ben poche chance di tenere aperta la controversia e tanto meno di vincerla contro un fronte così compatto. L’articolo di Leslie racconta la vicenda professionale e umana di John Yudkin, l’eminente nutrizionista britannico che per primo aveva opposto alle tesi di Keys la sua sugar-hypothesis e l’aveva divulgata nel 1972 con un libro che ebbe una certa risonanza Pure, White and Deadly: The Problem of Sugar. Il fronte avverso fu talmente efficiente nello screditare Yudkin e le sue idee, che lo studioso fu sospinto ai margini della comunità scientifica, dove terminò tristemente la carriera, e le sue idee furono accantonate per molto tempo.

 

Scienza in azione

 

Bruno Latour potrebbe considerare esemplare la storia appena tratteggiata: un’ipotesi controversa, da molti oggi considerata senza basi solide, si è imposta come verità scientifica per decenni perché sostenuta da alleanze forti, a scapito di un’ipotesi alternativa che oggi si ritiene migliore, che però è stata formulata da una personalità senza carisma.

In Science in Action (1987) un saggio fondamentale sul discorso scientifico, Latour studia i modi in cui un’affermazione diventa una verità scientifica accettata, un fatto, e osserva che ciò avviene spesso per il concorso di un insieme eterogeneo di fattori, taluni di un tipo che siamo propensi a definire oggettivo, come le statistiche, le analisi di laboratorio e gli esperimenti; altri di tipo sociale, come i rapporti di forza tra accademici, il carisma personale, le opportunità politiche ecc. I fattori del primo tipo sono quelli a cui è legata la forza persuasiva del discorso scientifico e si ritiene che alla lunga debbano prevalere su quelli dell’altro tipo, perché sono collegati con la realtà che la scienza vuole descrivere e in qualche modo determinati da essa. Per convincere qualcuno che la mia teoria è buona, una serie di test severi che potrebbero smentirla e invece la confermano, conta più della mia abilità oratoria, della mia autorevolezza o della corrispondenza della teoria con, poniamo, i testi sacri. Benché ci sia voluto molto tempo affinché si riconoscesse il valore delle osservazioni astronomiche di Galileo, nella disputa sull’eliocentrismo, alla fine il dato osservabile ha avuto la meglio sui dogmi e le credenze.

 

Spesso però il collegamento tra un dato osservabile e la realtà che si vuole spiegare passa attraverso una rete straordinariamente complessa di mediazioni e non è facilmente intelligibile, nemmeno per gli addetti ai lavori. La teoria di Higgs sul bosone, per fare un esempio, è stata confermata (o meglio non smentita) da un esperimento monumentale che ha richiesto un lavoro ingegneristico di anni, la conoscenza di molti testi scientifici, ricerche originali di fisica teorica, sviluppo di software, investimenti cospicui, collaborazioni tra politica, ricerca e industria. Nessuno ha visto il bosone, ovviamente, ma l’esperimento ha prodotto dati che erano compatibili ed anzi si spiegavano con la sua esistenza. Solo poche persone al mondo riescono a capire la relazione tra quei dati e la presunta particella e se uno di quei pochi nutrisse dei dubbi sull’esperimento e ne volesse mettere in discussione la correttezza, si troverebbe dinnanzi un compito immane. Dovrebbe verificare l’affidabilità degli strumenti meccanici ed elettronici utilizzati, l’affidabilità dei software, la correttezza dei calcoli e ripercorrere criticamente l’iter completo dell’esperimento a partire dai suoi presupposti teorici, essi stessi potenzialmente opinabili.

 

 È nel contesto di questa enorme complessità che i fattori sociali entrano in gioco. Chi, pur nutrendo dei dubbi, avrà il coraggio e la forza di intraprendere questo percorso critico di fronte a uno schieramento di menti e tecnologie così compatto e concorde? Qualcuno potrebbe farlo, prima o poi, ma nel frattempo il senso comune, che ha luogo anche nelle intelligenze non comuni, suggerisce di dare per buono l’esperimento: è costato tanto, sono coinvolti i migliori scienziati, avranno fatto senz’altro le cose per bene! 

 

Secondo l’articolo del Guardian, nella controversia sui grassi saturi è accaduto qualcosa di simile. L’allarme di John Yudkin contro gli zuccheri si levò nel 1972 in un contesto decisamente favorevole alla lipid-hypothesis di Keys. La sicurezza con cui quest’ultima era sostenuta dall’élite scientifica, corrispondeva alla determinazione della politica statunitense a intraprendere azioni appropriate contro il diffondersi delle malattie cardiovascolari e al conseguente bisogno di ottenere dalla scienza delle linee guida chiare. Keys, che aveva in effetti le idee chiare, poteva contare anche su una vasta e costosissima ricerca epidemiologica, la prima di quella portata, che stava producendo dati in linea con le sue attese: il Seven Countries Study. Si tratta di uno studio comparativo, cominciato nel ‘56 e tuttora in corso, con l’obiettivo ambizioso di monitorare per i decenni a seguire l’incidenza di infarti e tumori nelle popolazioni di sette paesi, e metterla in relazione con le abitudini alimentari prevalenti nei campioni esaminati. Il confronto tra i regimi ricchi e quelli poveri di grassi saturi evidenziò presto che i primi si associavano a una percentuale più alta di infarti e tumori. Oggi, dice sempre Leslie, abbiamo a disposizione studi che contraddicono questa associazione ed evidenziano, ad esempio, come il paese con la più bassa incidenza di infarti in Europa sia proprio la Francia, cioè il paese con la dieta più ricca di grassi saturi. Sono ricerche che intaccano la credibilità del Seven Countries Study, dal quale peraltro la Francia era stata esclusa – surrettiziamente, qualcuno insinua.

 

Negli anni '70, invece, alla luce delle prime risultanze di questo studio, fu molto difficile per Yudkin trovare ascolto e spostare l’attenzione della comunità scientifica e dei governi sulla nocività degli zuccheri semplici. Ancora più difficile fu ottenere finanziamenti per condurre in proprio ricerche di dimensioni adeguate per supportare le sue tesi. Il suo destino di isolamento scoraggiò altri a seguirlo sulla strada del dissenso, così la controversia si chiuse non tanto per mancanza di argomenti quanto per mancanza di forze. L’unica altra voce dissonante fu quella di Atkins, l’autore dell’omonima e milionaria dieta senza carboidrati, basata su tesi simili a quelle di Yudkin. Proprio a partire dagli anni '70 la dieta Atkins godette di una straordinaria popolarità, grazie a un gran numero di testimonianze sulla sua efficacia dimagrante. Ma non è stata mai presa sul serio dalla scienza ufficiale, se non per dimostrare che era dannosa, e Atkins stesso non ha mai prodotto ricerche rigorose che gli consentissero di accreditarsi nel dibattito scientifico.

 

La Scienza a cena.

 

I miei amici a tavola, durante la cena che ho ricordato all’inizio, parlavano di dieta mediterranea e di salute, rievocando con qualche incertezza alcune nozioni apprese negli inserti settimanali. Io li lasciai dire, poi, fresco di letture sull’argomento, attaccai con una tirata provocatoria contro la pasta e i carboidrati raffinati in generale, per far vacillare alcune delle loro convinzioni sulla nutrizione. Una performance di buon livello, culminata con la seguente argomentazione, ripresa quasi alla lettera dall’articolo del Guardian:

 

Il tessuto adiposo funziona come riserva di energia per il corpo. Le sue calorie sono richieste quando i livelli di glucosio nel sangue calano, cioè tra i pasti o durante i digiuni prolungati. Il grasso prende istruzioni dall’insulina, l’ormone responsabile della regolazione dello zucchero nel sangue. I carboidrati raffinati si scindono rapidamente in glucosio nel sangue, inducendo il pancreas a produrre insulina. Quando i livelli di insulina salgono, i tessuti adiposi sono indotti a succhiare energia dal sangue anziché a rilasciarla. Così se i livelli di insulina restano alti per un periodo innaturalmente lungo, [come quando la dieta è ricca di carboidrati raffinati] una persona aumenta di peso, avverte più fame e si sente stanca.

 

“Sono meccanismi che gli endocrinologi conoscono bene” aggiunsi: “l’ho letto in un articolo sul Guardian”.

Nessuno ebbe niente da obiettare. Presentavo un fenomeno biochimico come si presenta un fatto assodato e avevo dalla mia parte gli endocrinologi e una prestigiosa testata giornalistica. Nel contesto di una cena tra amici la mia descrizione aveva i caratteri di un’affermazione che non si discute. Bruno Latour, la definirebbe una scatola nera – locuzione mutuata dalle scienze informatiche. Una scatola nera è un’affermazione su cui ogni controversia è chiusa e per questo può definirsi come un fatto. “La terra gira attorno al sole lungo un’orbita ellittica”, “le forme di vita si evolvono in base al principio della selezione naturale”, “nulla è più veloce della luce”, “il bosone di Higgs esiste”: sono scatole nere. Esse contengono tutti gli esperimenti, le statistiche, i riferimenti, le bibliografie che è stato necessario produrre affinché queste affermazioni fossero riconosciute come fatti, ma a noi ormai basta quello che c’è scritto sull’etichetta: non abbiamo bisogno di riaprirle, perché siamo già convinti.

 

Così possiamo usarle come i presupposti accettati di altre teorie e di altri esperimenti. Quando manderemo il primo uomo su Marte non dovremo più dimostrare che Marte, come tutti gli altri pianeti, gira attorno al sole. In certi ambiti della scienza, come la nutrizione, le scatole nere possono diventare i presupposti dei nostri comportamenti. Se un tempo evitavo il burro, perché i grassi saturi aumentano il rischio di ischemia, ora cerco di mangiare meno pane perché la farina raffinata si scinde velocemente in glucosio stimolando la produzione di insulina ecc. L’affermazione sui grassi saturi per me non è più una scatola nera, perché la controversia al riguardo è stata vigorosamente riaperta, quindi forse riammetterò con cautela il burro nella mia alimentazione.

 

 Se qualcuno dei miei amici mi avesse chiesto: “Come fa il grasso a prendere ordini dall’insulina? Se uno mangia dei grassi invece cosa succede? Ma la pasta di grano duro si scinde anche lei velocemente in glucosio? Ma, soprattutto, sai quello che dici?”, avrei potuto rispondere solo all’ultima domanda, ammettendo che no, non sapevo quello che dicevo. Forse nemmeno Ian Leslie, l’autore dell’articolo, sa esattamente quello che dice quando riporta quella descrizione, ma è sicuramente più vicino di quanto non sia io ai testi tecnici endocrinologici nei quali si dimostra che nel nostro organismo le cose vanno proprio così. Testi incomprensibili anche per lui, che non è uno specialista, pieni di tabelle, formule chimiche, scatole nere e riferimenti bibliografici a loro volta inaccessibili. Si sarà sicuramente servito della mediazione di opere divulgative o della consulenza di un amico per estrarre la semplice vicenda ormonale dal corpus di ricerche che ha consentito di delinearla in quei termini.

 

 

 

Eppure, nonostante la nostra lontananza dai laboratori dove essa si è configurata come un fatto, la storia dell’insulina che dice ai grassi di assorbire energia dal sangue anziché rilasciarne non perde la sua forza persuasiva, in virtù della retorica che la informa. Nella nostra cultura, la riduzione del fenomeno macroscopico: se mangio molta pasta ingrasso e ho sempre fame, a un fenomeno biochimico con carboidrati che si scindono in glucosio e insulina che lancia segnali, produce l’effetto di senso di una spiegazione scientifica, cioè efficace e fondata, in base alla convinzione radicata che la Scienza descriva la realtà. Non produrrebbe lo stesso effetto dire che le farine raffinate fanno male perché sono troppo yin avendo perso tutta la componente yang che manteneva l’equilibrio cosmico nel seme di grano.

 

Nessuno dei miei amici mi mise in difficoltà con domande scomode, dopo la mia tirata contro i carboidrati. Tutti anzi si mostravano propensi a rivedere le loro opinioni su pane pasta e piadine. Ma a un certo punto Monica, la nuova fidanzata di uno dei presenti, che fino ad allora era rimasta in silenzio, attenta e divertita, ci rivelò di essere una nutrizionista vera, ricercatrice all’Università. Conosceva l’articolo di Leslie, che non conteneva niente di nuovo per lei. A suo parere, la relazione tra insulina e carboidrati raffinati è illustrata in modo corretto, le critiche al Seven Countries Study sono fondate, la nocività degli zuccheri semplici è stata effettivamente e inspiegabilmente sottovalutata per decenni, ma non si può negare, come sembra fare l’articolo, che i grassi saturi abbiano un ruolo centrale nell’insorgenza delle malattie cardiovascolari. Vi sono molte evidenze in proposito.

 

Il North Karelia Project, in Finlandia, ha fornito dati inequivocabili: quando le popolazioni della Carelia del Nord, che negli anni 70 era una delle regioni con il più alto tasso di mortalità per infarto in Europa, hanno cambiato le loro abitudini alimentari riducendo significativamente la quantità di grassi saturi, hanno smesso di ammalarsi. A parte gli studi epidemiologici, vi sono anche ricerche di laboratorio che mostrano le relazioni biochimiche tra grassi saturi alimentari, ipercolesterolemia e ischemia. Queste ricerche possono fornire storie simili a quella che avevo raccontato io e altrettanto convincenti. Il problema vero, però, secondo Monica, è che polarizzare la controversia come fa l’articolo del Guardian, opponendo grassi saturi e zuccheri semplici non ha senso. Gli effetti dell’alimentazione sull’organismo sono straordinariamente complessi e per di più variano da persona a persona. Una cosa che sicuramente si può rimproverare a Keys è che la sua strategia di comunicazione scientifica ha indotto le persone a ridurre questa complessità a pochi principi semplici e universali. I grassi saturi, tanto per cominciare, non sono tutti uguali: tra quelli presenti nella carne e quelli presenti nei latticini ci sono differenze importanti. Monica provò a spiegarcele, addentrandosi in tecnicismi dove faticavamo a seguirla. Una cosa però si chiariva: la semplice domanda “come dobbiamo mangiare?” non avrà dalla Scienza una risposta semplice.

Per fortuna di lì a poco ci servirono le lasagne, che, per non far torto a nessuno, combinavano mirabilmente una grande concentrazione di grassi saturi nella forma di ragù, besciamella e parmigiano, con strati compatti di carboidrati raffinati nella forma di pasta all’uovo, sapientemente tirata a mano da sfogline esperte.

 

Quindi? La dieta mediterranea? 

 

Posto che sarebbe inopportuno ormai, oltre che riduttivo, caratterizzarla come un’alimentazione a basso tenore di grassi saturi, come si definirà il valore della dieta mediterranea? Questo quadro di controversie aperte e di incertezza nella scienza nutrizionale avrà conseguenze negative sulla sua valorizzazione? 

In realtà la nozione di dieta mediterranea si è emancipata dal discorso scientifico entro il quale era stata formulata per la prima volta e la sua reputazione non sembra legata ai destini della lipid-hypothesis. Si è emancipata perfino da una caratterizzazione strettamente nutrizionale. Nella definizione dell’UNESCO, che dal 2010 l’ha inclusa tra i patrimoni immateriali dell’umanità, il suo valore nutrizionale resta sullo sfondo: non si parla di basso tenore di grassi saturi, né delle proprietà antiossidanti di olio d’oliva e pomodori, ma di “abilità, conoscenze, rituali, simboli e tradizioni che hanno a che fare con la coltivazione, la raccolta, la pesca, l’allevamento, la conservazione, la lavorazione, la cottura e in particolare la condivisione e il consumo di cibo” (dal sito dell’UNESCO).

 

La parola dieta si riappropria così del suo significato etimologico di stile di vita. Non si tratta soltanto di come e cosa mangiamo, ma anche di come viviamo. L’UNESCO non dà una descrizione precisa delle conoscenze, rituali, simboli ecc. a cui si riferisce. Si limita a indicare 7 comunità prototipo, individuate nel bacino del Mediterraneo, che ne forniscono esempi concreti e viventi. La comunità italiana è nel Cilento, quella greca a Koroni, nel Peloponneso. Le altre sono in Spagna, Marocco, Cipro, Croazia e Portogallo. In quei luoghi specifici si vive la dieta mediterranea e se volete capire cos’è, sembrano dirci, guardate cosa fanno là. 

La storia di come dagli studi di Keys sull’alimentazione dei Cilentani si è arrivati all’inclusione tra i patrimoni immateriali dell’umanità è raccontata in un libro di Elisabetta Moro La dieta mediterranea: mito e storia di uno stile di vita (Il Mulino 2014). A ben vedere, è la storia insolita della costruzione di un mito a partire da un’osservazione scientifica. Siamo abituati a pensare che la Scienza, il più potente generatore di fatti, distrugga i miti, spiegandoli o smentendoli. Non pensiamo che possa crearli. Con la dieta mediterranea invece sembra che sia avvenuto proprio questo. I poveri Cilentani che Keys incontrò nei primi anni 50 (poveri in senso stretto) non pensavano di avere qualcosa di speciale, non pensavano di incarnare un modello di vita ideale che sarebbe stato riconosciuto globalmente come dieta mediterranea. Loro si limitavano a mangiare fichi secchi e verdure dell’orto e probabilmente a desiderare un po’ di carne in più. Non un granché dal loro punto di vista.

 

Ma erano in buona salute e Keys, che veniva da una società opulenta e insalubre, ha dato valore al loro modo di vivere e lo ha fatto nei termini della sua scienza. Il valore del loro modo di vivere, però, non era riducibile ai termini della sua scienza, così, a lungo andare, il discorso scientifico si è rivelato insufficiente. Come poteva spiegare, infatti, il piacere nella frugalità, i benefici della convivialità, l’importanza dei riti nella trasmissione dei saperi e altri elementi non caratterizzabili da un punto di vista nutrizionale, ma costitutivi della dieta mediterranea per come la intendeva Keys stesso? Nelle ultime riflessioni di Keys e in quelle che successivamente hanno portato alla definizione dell’UNESCO, si è passati dal discorso scientifico, al discorso antropologico e filosofico, fino a interpretare lo stile di vita dei cilentani come l’espressione di una sapienza antica, trasmessa attraverso i secoli a partire da un passato mitico. Una sapienza orientata al bene non solo del corpo, ma anche dello spirito, della comunità e del territorio, che avvicina la dieta mediterranea più alla nozione di eco-gastronomia di Slow Food o a quella di abbondanza frugale di Latouche, che alla piramide alimentare dell’USDA (il dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti). Elisabetta Moro, nel suo racconto suggestivo, mostra come l’origine di questa sapienza sia stata collocata, attraverso la costruzione di una sorta di mito di fondazione, nella cultura scientifica e filosofica della Magna Grecia. Keys stesso, che visse in quei luoghi per 34 anni, dal 1966 al 2000, contribuì a questa costruzione con la sua testimonianza.

 

La sua residenza venne da lui chiamata significativamente Minnelea, un incrocio tra Minneapolis, dov’era nato, ed Elea, l’antico insediamento greco della zona, sede della scuola di Parmenide e Zenone, stabilendo una connessione ideale con quella scuola e attraverso essa con Pitagora.

L’originaria caratterizzazione scientifica della dieta in base a determinate proprietà nutrizionali, quindi, è solo il punto di partenza di un lungo processo di valorizzazione di tradizioni, culture materiali e luoghi come depositari di una sapienza antichissima: la mitica sapienza dei padri. Una sapienza che, benché incorporata nelle tradizioni popolari, nasce da un’elaborazione culturale alta, allo stesso tempo scientifica e morale.

 

Credo che questa interpretazione colta circoli solo entro la ristretta cerchia di intellettuali che si sono occupati del riconoscimento UNESCO, in veste di studiosi o promotori. Al di fuori di questa cerchia, ben poche persone penserebbero a Zenone, Ancel Keys e Minnelea di fronte a un piatto di sarde alla beccafico e ancora meno manifesterebbero un atteggiamento pitagorico. Ma anche nelle interpretazioni più superficiali e imprecise, la dieta mediterranea si configura come lo straordinario punto d’incontro di due retoriche potentissime, che spesso, in altri contesti, sono in contraddizione tra loro: la Scienza e la Tradizione. 

Anche la Tradizione, come la Scienza, è un generatore di scatole nere, cioè di affermazioni che siamo propensi ad accettare senza discutere. Scatole che contengono secoli di storie e di prove ed errori, generazioni di padri e madri che trasmettono ai figli quello che sanno, lunghe pratiche che hanno trasformato il territorio. Non abbiamo bisogno di aprirle per convincerci che quello che c’è scritto sopra è vero – soprattutto se lì a fianco c’è il bollino di un consorzio di tutela. Il gusto inconfondibile delle castrature dell’autentico carciofo violetto di sant’Erasmo deriva da quella terra e dalle mani sapienti di chi l’ha sempre coltivato. Oppure: solo nello speciale microclima delle colline di Pescia, il fagiolo di Sorana, selezionato nei secoli, acquista le caratteristiche di gusto e digeribilità per cui è conosciuto (e pagato: €28,00 al kg!).

 

Concludo. Per la maggior parte di noi la dieta mediterranea è un repertorio gastronomico tradizionale, più o meno chiaramente identificato, che gode di una certificazione scientifica di salubrità, generica e universalmente riconosciuta. Non sapremmo dire precisamente quali dati osservabili supportino questa certificazione e tanto meno sapremmo mettere in questione la sua fondatezza. Non ha importanza. Ci fidiamo di questa somma autorità certificatrice, la Scienza, che per noi occupa lo stesso spazio dell’antica sapienza dei padri. Uno spazio mitico. 

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