Chiara Frugoni: fermare il ricordo

8 Novembre 2013

Che ci fa ancora a Solto, paesino dell’alta bergamasca, Chiara Frugoni, studiosa di grande prestigio del medioevo nonché autrice di libri irrinunciabili su Francesco e Chiara di Assisi?
Su Solto, esattamente dieci anni fa, Chiara Frugoni aveva già scritto Da stelle a stelle. Memorie di un paese contadino, uscito da Laterza.

 

Di quel libro, dalla scrittura nitida come uno scatto fotografico ben riuscito, aveva spiegato con deliziosa semplicità, nella pagine iniziali, l’origine: “Solto, il protagonista di questo libro, è un paese a mezza costa, sulla collina che guarda il lago d’Iseo, rimasto immobile fino agli anni Cinquanta, quando il benessere ha cancellato la sua vocazione agricola, ha mutato le case, il paesaggio, la mentalità. E’ il paese dove sono tornata tutte le estati delle mia vita e dove ho a lungo vissuto nella mia infanzia. Il Comune mi ha chiesto di scriverne la storia attraverso la storia dei suoi anziani abitanti, la storia di Solto com’era: quando tutti cominciavano a lavorare mentre brillavano ancora le stelle e smettevano al loro ritorno”.

 

Per incarico dell’amministrazione comunale alcuni ricercatori avevano sottoposto un questionario alle persone più avanti negli anni. Poi avevano lasciato che i ricordi prendessero il sopravvento e si snodassero in libertà: le registrazioni di quelle rievocazioni, spesso in stretto dialetto, era state quindi affidate a Chiara Frugoni. La studiosa, con la stessa capacità di attenzione con la quale ha individuato ad Assisi il profilo di un diavolo celato da Giotto tra le nuvole di uno dei suoi affreschi, ha riascoltato tutto. Così ha ridato vita alla quotidianità di quel paese che aveva conosciuto così bene e che, ora, era diventato ben altra cosa.

 

dieci anni dopo

 

Dieci anni sono passati ed ecco il suo ritorno ancora a quella realtà che adesso, in Perfino le stelle devono separarsi, pubblicato da Feltrinelli, affronta con diverso approccio. Percorre quel piccolo mondo seguendo i cerchi più interni della propria vita. Innanzitutto la famiglia, anzi le due famiglie – quella materna e quella paterna, così dissimili, così distanti socialmente e culturalmente da essere entità senza alcun rapporto reciproco. Ne fa uscire una galleria di personaggi che si sono stagliati sulla sua infanzia.

 

 

 

Accanto a questo primo cerchio ci sono poi figure non di famiglia ma di casa. Sono coloro che erano alle dipendenze dei nonni materni, agiati proprietari terreni, e altri semplicemente contigui al cammino della bambina, nata qualche anno prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale, che era allora Chiara Frugoni. E’ un ritratto affollato che prende posto nelle centoventi pagine, o poco più, di questo libro nato non più per la committenza virtuosa e perfetta di una comunità che vuole fissare memoria di sé ma per motivazioni molto più personali che impongono il ritorno a Solto.

 

Come sempre Chiara Frugoni sa dire cose importanti, ed emotivamente coinvolgenti, in modo sommesso: “Giunta sulla soglia, ho cercato di non lasciare scivolare come sabbia fra le dita il passato delle tante persone che mi si sono affidate, chiedendo di vivere attraverso la memoria che di loro ho conservato. Sento le loro voci, le voci della casa scomparsa, e vorrei che per qualcuno continuassero a essere care”. Tante persone, appunto, distribuite dentro questo libro: il lettore cerca di orientarsi, affidandosi anche alle due pagine in cui appare l’elenco di tutte le vite che vengono ricordate.

 

Esistenze sulle quali a volte la Frugoni si sofferma per diverse pagine e, altre volte, per poche righe. Di alcuni personaggi viene riprodotto il ritratto che avevano commissionato a qualche artista locale, una fotografia significativa, le parole scolpite su lapidi che ne celebrano la pubblica memoria. Per altri invece solo momenti, piccoli episodi con cui la famiglia ne tramanda il ricordo.

 

vite a perdere

 

Questo lungo elenco, sono quaranta nomi, l’ho percorso con attenzione. Ho sottolineato a matita i nomi di alcune figure. Alla fine mi è venuto spontaneo cercare di capire perché ho tenuto con me non i ritratti di personaggi che occupano pagine e pagine ma la memoria, e la figura, di Barbunsì, lo stradino di Solto; di Censo, il falegname capace di costruire, con le sue mani, gli oggetti più complicati; di Mariella l’amica d’infanzia votata a una vita apparentemente senza rilievo; di Diodata Chiappa, la sorella “peccatrice” (ma vorace di vita), del nonno Serafino, tutto Avemarie e Orapronobis e uno zero assoluto quanto a calore umano e generosità verso gli altri.

 

 

Nonno più che benestante ma che, assieme alla consorte, la nonna Teresa, riesce a invitare a cena la nipotina Chiara con la sua mamma offrendo loro solo la minestra. Se le due, in tempi in cui se la passano piuttosto male, vorranno altro, dovranno portarselo da casa: e questo mentre i nonni banchettano senza pudore davanti a loro servendosi più volte di tutto il ben di Dio che la cuoca di famiglia fa arrivare in tavola dalla cucina.

 

Barbunsì, Celso, Mariella, Diodata: vite che, senza le righe che ha dedicato loro Chiara Frugoni, sparirebbero per sempre. Come non fossero mai passate su questa terra. Ed è per questo, penso, che la forza del ricordo nel prenderli con sé esprime una tensione non solo narrativa ma più misteriosa e profonda.

 

prima dell’apocalisse

 

Questo pensiero mi è sopraggiunto in giorni in cui più volte, in facebook, ho visto linkare un sito, credo relativo ad un mostra in corso, dove sono riprodotti i volti sorridenti di persone sparite nei campi di sterminio: qualcuno, puntigliosamente, è andato a recuperare immagini di quando la catastrofe era ancora lontana ed ecco, allora, il succedersi di visi di ragazze dal sorriso raggiante, di persone che hanno una vita davanti a sé, da vivere e da plasmare inseguendo i propri progetti, i propri desideri.

 

Un altro link mi ha colpito perché collegato a questo compito svolto da chi si fa carico di recuperare il ricordo di quelli che nessuno ricorda. O, peggio ancora, coloro che condannati dal potere all’eliminazione fisica hanno subito come ulteriore punizione e pena la cancellazione di ogni ricordo che non fosse quello sancito dalla orrenda burocrazia repressiva. Ed ecco dunque apparire in rete gli scatti dove sfilano, uno dopo l’altro, i volti di centinaia di prigionieri dei gulag staliniani. Fotografati appena prima della loro esecuzione: una galleria straziante dove ogni viso, ogni espressione – dolore e sfida, smarrimento e coraggio – è parte di un racconto che non avremo più modo di ascoltare.

 

pelliccetta & penicillina

 

La parola scritta e/o l’immagine: per fermare il ricordo di chi non c’è più. Nel mondo contadino, ancora nei primi anni Cinquanta, almeno nei paesi più poveri, era diffusa la preoccupazione, anzi, si trattava di dolore inaccettabile, davanti all’eventualità di perdere qualcuno dei propri cari prima che fosse stato possibile fissare con una fotografia il suo volto. Il ritratto fotografico, nelle nostre campagne, non era ancora una pratica diffusa, al contrario: si faceva andando a militare o al momento delle nozze.

 

Le priorità della vita quotidiana erano altre, lontane dal farsi fare una bella fotografia.
La mia famiglia, contadini della campagna lombarda, non faceva eccezione e dunque quando verso i quattro anni fui colpito da una gravissima broncopolmonite i miei genitori, che avevano perso in precedenza due figlie di pochi mesi senza aver potuto mettere sulla tomba la loro foto, decisero che la cosa, a qualsiasi costo, non doveva più ripetersi.

 

Non la morte, ovviamente, verso la quale non c’era rimedio possibile. Ma scomparire senza foto, no: mai più.
Così investirono quel che avevano e noleggiarono un’auto per portarmi, nonostante la febbre altissima, in città, nel più importante studio fotografico, affinché mi facessero la foto da usare per la mia sepoltura.
Avevo quattro anni, molta febbre e una pelliccetta troppo larga che era stata prestata da una famiglia di vicini benestanti.

 

 

Il fotografo, nel mettermi in posa, aveva chiesto il motivo per cui volevano con tanta urgenza quel mio ritratto fotografico. Così suggerì che, visto che erano già città, mi portassero subito all’ospedale. Lì usavano una nuova medicina, pare si chiamasse penicillina, che faceva miracoli.
Per farla breve la penicillina mi salvò. Anzi, mi ha salvato quella fotografia – con la pelliccetta e lo sguardo febbricitante, da mettere sulla tomba. Perché le parole o l’immagine possono far vivere nel ricordo chi non c’è più. Ma una fotografia può non far morire. A me è successo..

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