Speciale

La cultura del consumo / La natura sociale del centro commerciale

24 Ottobre 2017

 

 

Ormai da tempo, le famiglie italiane vanno a fare la loro spesa settimanale in un centro commerciale. Nonostante la crisi economica sopraggiunta negli ultimi anni, questo infatti continua ad essere per esse il luogo d’acquisto ideale. È utile allora interrogarsi sulla natura di tale luogo. Storicamente, il centro commerciale è il risultato della sintesi dei precedenti modelli della galleria e del grande magazzino. La sua struttura è infatti generalmente costituita da una o più gallerie contenenti un grande ipermercato e decine di negozi, ristoranti, punti di ristoro e di divertimento. Si tratta anche di un incontro perfettamente riuscito tra due diversi modelli commerciali: quello pre-industriale del mercato, nel quale il rapporto di vendita era fortemente umanizzato e personalizzato, e quello industriale, nato con il grande magazzino e perfezionatosi successivamente con il supermercato e l’ipermercato. 

 

La formula del centro commerciale è nata negli Stati Uniti nel 1924, con il Country Club Plaza di Kansas City, e ha cominciato a moltiplicarsi negli anni Trenta, ma è stato soltanto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale che ha avuto una vera diffusione su tutto il territorio statunitense, in conseguenza dello sviluppo verso l’esterno delle città e della costruzione di numerose strade extraurbane. Il centro commerciale però si è imposto anche perché in molti sobborghi statunitensi privi di piazze e luoghi pubblici si è proposto come il vero centro della vita comunitaria. Sulla scia del notevole successo ottenuto nel territorio nordamericano, i centri commerciali si sono progressivamente diffusi negli ultimi decenni anche nel resto del mondo. Il più vasto attualmente si trova in Cina ed è il New Century Global Center di Schengdu, che occupa quasi due milioni di metri quadrati di superficie. In Italia, i centri commerciali sono arrivati in ritardo rispetto agli altri Paesi economicamente avanzati, in quanto hanno cominciato a diffondersi soltanto dall’inizio degli anni Novanta. Oggi però sono diventati oltre 600 e alcuni di essi sono anche di notevoli dimensioni. 

 

 

Inizialmente, il centro commerciale era molto semplice e progettato più pensando alle esigenze della distribuzione dei prodotti che alla sua qualità architettonica ed espressiva. La progettazione degli spazi interni si concentrava infatti principalmente nel cercare di facilitare la circolazione dei carrelli della spesa. In seguito però il centro commerciale ha dovuto cominciare ad attirare l’attenzione aumentando l’importanza della qualità del suo design e dei suoi elementi d’arredo (aree di relax con panchine, fontane, sculture, portici, chioschi, piante e lampioni). Si è avuto anche uno sviluppo delle attrazioni: bar, ristoranti, sale cinematografiche, parchi gioco, ecc. Insomma, un centro commerciale oggi, se vuole avere successo, deve essere in grado di offrire alle persone soprattutto degli spazi adatti per la socializzazione e il divertimento. 

 

È dunque ben diverso da quelli che qualche anno fa sono stati denominati «nonluoghi» dall’antropologo Marc Augé nel libro dal titolo omonimo (Elèuthera). Infatti, secondo questo autore, i grandi spazi commerciali contemporanei si contrappongono alla tradizionale concezione antropologica che considera il luogo come uno spazio fisico legato a una precisa cultura, cioè dotato di solide radici in un contesto sociale e storico ben determinato, e pertanto in grado di consentire quelle relazioni con il prossimo grazie alle quali ciascuna forma di identità, sia essa personale o di gruppo, può costituirsi e mantenersi stabile nel tempo. Augé ha sostenuto infatti che nei nonluoghi l’individuo è costretto a vivere in una condizione di solitudine e provvisorietà e che pertanto deve liberarsi completamente dalla sua identità personale, che può ritrovare soltanto al momento dell’uscita. Diventa cioè una sorta di anonimo viaggiatore che attraversa un territorio a lui estraneo. 

 

In realtà, in quelli che Augé ha chiamato nonluoghi l’individuo non perde la sua identità, la quale viene invece trasformata e resa adeguata ad una situazione che si presenta all’insegna del consumo. Perché se possiamo trovare oggi un tratto comune ai tanti e diversi nonluoghi considerati da Augé questo è senz’altro l’esplicita appartenenza alla cultura del consumo contemporanea. Il processo di espansione dei nonluoghi è infatti principalmente stimolato dalla sempre più urgente necessità per l’individuo di costruire e radicare la propria identità sociale soprattutto mediante l’impiego dei prodotti acquistati e delle loro marche. I criteri tradizionali di definizione sociale non funzionano più e soltanto attraverso l’identità posseduta da prodotti e marche gli individui possono collocarsi socialmente. 

 

I centri commerciali dunque sono in grado di produrre identità allo stesso modo dei luoghi tradizionalmente studiati dagli antropologi. Perché per gli individui, lungi dall’essere asettici e privi di socialità, sono altrettanto ricchi di significato dei classici luoghi antropologici. Certo, in essi la storicità è di solito limitata, data la loro recente nascita, ma non è comunque assente, perché l’individuo si affeziona progressivamente ai nuovi luoghi del consumo, di cui impara a riconoscere gli spazi, i percorsi e gli ambienti di ritrovo. Soprattutto, però, ci sono l’identità e la relazione, gli altri due elementi che insieme alla storicità, secondo Augé, caratterizzano il luogo antropologico tradizionale. Il consumatore, infatti, è in grado di costruirsi delle paradossali identità temporaneamente stabili ma “nomadiche”, cioè legate al territorio sebbene non radicate in nessun luogo particolare. 

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