Teatro povero con incubi

25 Luglio 2013

La Crisi domina anche quest’anno lo spettacolo del Teatro Povero di Montichiello. Con la ci maiuscola. Uno sconvolgimento che rimescola la vita di questo antico borgo contadino della Val d’Orcia, trasformato, con i suoi campi biondi, con i suoi olivi, col suo morbido paesaggio, da terra di contadini mezzadri dalle vite stente e dalla coscienza politica infiammata in paradiso turistico e agrituristico.

 

 

A differenza di altri luoghi, però, Montichiello non si è lasciato, semplicemente, travolgere dalla contemporaneità: l’ha questionata, l’ha confrontata alla vita antica, si è interrogato sul presente coltivando il passato, interrogandosi con ansia e intelligenza sul futuro. Dal 1967 i pochi abitanti rimasti e molti dei nuovi arrivati in fuga dalla città hanno realizzato un’esperienza unica, affidando l’analisi delle trasformazioni in atto al teatro, a un annuale spettacolo collettivo, composto durante tutto l’anno e presentato in piazza in estate.

 

 

Il titolo del 2013, Maestoso, Allegretto con incubi, è il quarantasettesimo di una serie che ha subito vari cambiamenti di rotta nel corso degli anni. Le rappresentazioni iniziarono, come racconta il sito, con lo spirito della festa popolare, a opera di un sacerdote. Negli anni caldi della contestazione, dopo il 1969, fu Marco Guidotti a indirizzarle verso la pratica di rappresentazione collettiva che affrontava i problemi della comunità che fu definita “autodramma”. Guidotti lasciò la guida del Teatro Povero nel 1981, anno in cui, con il titolo significativo di La piazza, lo spettacolo annuale divenne sempre più un’opera collettiva,. Ancora oggi invano cerchereste sul libretto di sala, che riporta il testo, il nome dell’autore, del regista e perfino quello degli interpreti: l’unica dicitura che trovate è “Autodramma della gente di Montichiello” (anche se animatore dell’esperienza è l’artista visivo e regista Andrea Cresti).

 

 

Maestoso inizia già quando il pubblico prende posto nell’anfiteatro assiepato di sedie nella piccola piazza, di fronte al palco con una poltrona e una finestra che mostra il paesaggio della Val d’Orcia ritratto in un quadro su cavalletto. Appena si spengono le luci tutto crolla, come per un terremoto. E la scena si riaccende con una famiglia intenta a raspare tra i detriti, in cerca di ciò che si può salvare.

 

 

Sulla poltrona ora sdrucita viene fatta accomodare una nonna che rifiuta di parlare ormai da molto tempo, che se ne starà per quasi tutta l’azione in un canto, a sferruzzare. Discutono, il padre, la madre, la figlia e il figlio Luca, con toni di volta in volta accesi, rassegnati, stanchi, fiduciosi, arrabbiati. È saltata ogni certezza di ieri. Le donne sono costrette a lavare i panni come gli antichi, in una tinozza, usando un legno per strofinare via lo sporco. E anche una vicina viene a approfittarne, per poi raccontare altre forme di economia di sussistenza. Il fratello sbraita contro un mondo di profittatori che ha permesso questa situazione, mentre la ragazza giovane ha trovato una strada per fare qualcosa, un lavoro per ora basato solo sul baratto, ma che le piace e le ricorda l’infanzia: ha messo su, con gli amici, una compagnia di teatro di burattini.

 

 

La crisi diventa qualcosa che entra nelle vite quotidiane e lo spettacolo, secondo lo stile consolidato di questa bella compagnia, mostra diversi modi di affrontarla in dialettica. Nel testo di quest’anno si ragiona molto, si sperimentano molte diverse reazioni a una situazione che accomuna. Il “popolo” si raduna, presto, intorno alla famiglia, vecchi, adulti, giovani e ragazzi, per assistere allo spettacolo dei burattini della compagnia con un nome benaugurale: “Tornare a vivere”. C’è uno che alla crisi non crede perché pensa che sia solo questione di chi sa darsi da fare e chi no; c’è qualcuno che ricorda il deserto dei “fittasi” e “vendesi” nelle città; c’è chi guarda al proprio orticello, chi scruta con paura il futuro, chi cerca un ancoraggio in un passato troppo in fretta dimenticato, mentre qualcun altro fa notare che allora si aveva poco ma si credeva di migliorare in avvenire e ora ci è stata tolta anche la speranza… E c’è un vecchio che davanti alla nonna muta ricorda storie di altri tempi…

 

 

Lo spettacolino mostrato in un teatrino nella parte alta del palco diviso in vari piani, come la coscienza stratificata di questa piccola comunità, narra di un paese lontano dove vive un popolo dei Vinti, soggetto a uno di pochi Vincitori. Per sposarsi bisogna indebitarsi, per seppellire i morti è necessario indebitarsi, e si paga vendendo i corpi delle giovani donne ai padroni dominatori. I burattini si dibattono su come rompere quello stato di cose, ma è Luca, il fratello, che risolve, interrompendo la recita, chiedendo di passare all’azione – loro, nella vita reale – contro i profittatori, di riconoscere di essere sconfitti e di avere dentro di sé tanta rassegnazione e molta complicità con gli avvoltoi. Il suo atteggiamento di insofferenza protestataria  non riesce però a diventare azione, anche se scatena la discussione dei presenti, che poi, a poco a poco, sfollano.

 

Foto di Umberto Bindi

 

Ma dopo il terremoto, dopo i burattini, un’altra sorpresa teatrale ci aspetta e il ritorno di una nota connaturata alla sensibilità di questi attori. Rimane sola in scena la nonna, che riacquista la parola: “Qui, vedi… qui drento c’ho un gomicciolo che ‘un si vòle sgomicciolà’”. Lo spettacolo vira verso l’ispirazione surreale, simbolica e popolare, con l’apparizione di un mostro fatto di molte teste che spunta, in livide luci verdastre, dalle botole del palco a dar voce e corpo contratto, mellifluo, invadente agli Incubi, ai quali l’anziana donna resiste, con l’aiuto di una voce amica che rimarrà sconfitta.

 

Foto di Umberto Bindi

 

Mostri d’oggi, che riaprono la memoria di antiche offese, di uno sgombero dalle terre sofferto da suo nonno mezzadro, col fattore col frustino, insensibile, il passato che ritorna, quel gomicciolo che non si sgomicciola, e gli Incubi sempre più prendono campo, e dilagano. Contrastati dai popolani, che tornano, che provano a chiudere le botole e a ricostruire il palcoscenico. Mentre la nonna in luce onirica sferruzza, sferruzza, e l’incrociarsi dei suoi ferri, amplificato, sembra il battito ansioso di un cuore agitato.

 

Foto di Umberto Bindi

 

Qualche voluta ingenuità come l’inventarsi un lavoro con i burattini, simbolo della necessità di aprire la mente di fronte alla sconfitta, qualche momento in cui la dialettica si incarta e si ripete o diventa troppo esplicativa contribuiscono al fascino di questo spettacolo sentito, che ricorda come il teatro possa essere domanda sul presente senza rinunciare all’immaginazione, al “ciarpame” teatrale se volete, che qui è soprattutto, anno dopo anno, sincero impegno di persone di diverse generazioni che compongono una pietanza dal sapore unico, portando ognuno un proprio peculiare ingrediente, sapido o sciapo, profumato o semplicemente nutriente, che però sempre risalta, in combinazione con gli altri.
Si replica fino al 14 agosto. Prenotazioni online.

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