Confusione

18 Ottobre 2015

È difficile saper raccontare la contemporaneità. Balzac l’‘800 lo aveva descritto con monumentali cicli di narrazioni. La chiave del contemporaneo era nel milieu. Se si pensa al celebre Père Goriot non potrà non tornare alla mente l’acuta osservazione di Erich Auerbach sull’interrelazione tra Madame Vaquer e la sua sudicia pensione. Secondo il noto studioso infatti: “toute sa personne explique la pension, comme la pension implique sa personne”. Il mondo con i suoi “tipi umani” si rispecchia nell’ambiente in un gioco di complementarietà con cui Balzac rese esaustivamente esplorabile anche il più inaccessibile fenomeno della sua epoca. Anche oggi c’è chi tenta di dare voce al contemporaneo. Sono scomparsi i progetti enciclopedici, epici, le cosiddette opere mondo e sono apparsi invece romanzi brevi, duecento pagine al massimo, copertine curate nel dettaglio, al cui interno emergono brevi spaccati di contemporaneità.

 

Dalla calura romana e dal tedio cittadino prende vita Un’estate breve (edizioni e/o 2015) il romanzo di Michele Bentivoglio. Protagoniste del racconto l’ambiguità e l’indecisione sessuale. L’intreccio si sviluppa a partire dall’incontro casuale tra Carlo e Fabio. Carlo, oltre che designer affermato, è dichiaratamente gay anche se non disdegna del tutto le donne. Fabio, pianista dalla controversa personalità, a cui basta poco per sentirsi “impotente, inutile, un bluff vivente di artista” – ha una relazione “intiepidita” con l’avvenente salentina Marta, ma in certe sere solitarie frequenta le dark room poiché, nonostante il timore, “è più forte l’eccitazione all’idea di uomini che s’incontrano nell’oscurità unicamente per soddisfare i loro desideri sessuali”. Tra i due personaggi troppo stereotipati e rappresentati a volte in modo superficiale, avviene una fugace conoscenza quando, dopo sguardi languidi dalla strada al balcone, l’uno invita l’altro a salire. Tutti i presupposti erotici si sgonfiano (proprio dove il lettore disinibito e di larghe vedute avrebbe desiderato una bella, gratificante, scena esplicita), perché Fabio si tira indietro. Il risultato di questo rifiuto è che l’affascinante Carlo incontra sulle scale la “fatale” fidanzata di Fabio con la quale, ovviamente, scatta il colpo di fulmine. Il romanzo ondeggia quindi tra la dilagante confusione sessuale di Fabio e l’eccentrica “apertura mentale” di Carlo che nonostante l’omosessualità, non si sa “se per un limite culturale o perché è fatto così, può concepire una relazione stabile solo con una donna”. La tematica del romanzo è fin troppo attuale, ma appunto per questo meriterebbe di essere sviluppata in modo più articolato. La conclusione arriva improvvisa e inaspettata proprio quando lo scrittore era riuscito a creare terreno fertile per un’autentica familiarizzazione con i conflitti interiori dei personaggi.

 

 

Con La questione più che altro (Nottetempo 2015) dell’esordiente Ginevra Lamberti i riflettori sono puntati su una questione (a ripresa del titolo) più concreta e pratica rispetto a quella dell’ambiguità sessuale. Attorno alla quotidianità di una ragazza che si divide tra un ultimo esame che non riesce a passare, una tesi da scrivere, un relatore poco presente e un’infinità di lavoretti che non risolvono mai nulla, vortica la piaga italiana per eccellenza: il precariato. Gaia è una ragazza qualunque, la narrazione stimola l’immedesimazione e in questo il romanzo è vincente. L’intreccio non è particolarmente articolato; il racconto infatti si limita a esprimere l’atmosfera che si respira in ateneo, sui pullman, ascoltando un telegiornale. Gaia ha dei “nonni di su” e “dei nonni di giù”, un padre che nonostante i frequenti ricoveri in ospedale non perde il senso dell’umorismo, un amico medievista che le fa da spalla e il lavoro al call center. Forse l’aspetto più interessante del libro è dato dalla scrittura volutamente ripetitiva e cantilenante che a tratti prende persino la forma di una filastrocca. In questo modo la scrittrice trova un corrispettivo stilistico al “limbo contemporaneo” per cui i giovani si ritrovano (chissà se per propria scelta o per cause di forza maggiore) sospesi tra l’infanzia e l’età adulta. I confini non sono netti, auto-cullarsi in una specie di “lecita immaturità” sembra essere a volte l’unica soluzione a estenuanti giornate passate a inviare curricula. Gaia non si dà per vinta, supera la frustrazione con una sana ironia. Tra le sue prerogative caratteriali una buffa ipocondria, con tratti divertenti, che sottolinea quella curiosa “psicosi giovanile” in cui si fondono insieme bisogno di attenzioni, paura della morte (questo perché il tempo “non impegnato” genera riflessioni, spesso più catastrofiche che filosofiche) e mancata accettazione della propria “condizione di normalità”. “Condizione di normalità” che è una delle espressioni chiave per interpretare il disagio di cui è pregno il romanzo. Il giovane (ipocondriaco) contemporaneo è sballottato tra illusioni hollywoodiane, letteratura male interpretata e un paradossale “sconveniente benessere” che gli fa credere di essere al di sopra degli altri e di meritare una sorta di “vita da star”; come infatti ben ricorda la Lamberti: “se sei maschio, suoni in un gruppo o fai le foto o entrambe le cose, se sei femmina, fai le foto o canti in un gruppo o sei stata fidanzata con uno che suona in un gruppo. È probabile che ci sia una qualche ragione per cui puoi essere definito un artista e quasi sicuramente c’è un libro nel tuo cassetto”. Dall’altra parte c’è un mondo di precariato, lavoretti saltuari e pagamenti in ritardo, sospeso tra “bovarismo professionale” e quasi totale mancanza di possibilità lavorative e di realizzazione, una sconfortate “condizione di normalità” che non è nemmeno percepita come tale e manda in crisi il povero giovane contemporaneo giustificatamente ipocondriaco.

 

 

Il terzo spaccato di attualità lo troviamo in I giorni della nepente (Effequ 2015), romanzo d’esordio di Matteo Pascoletti. La trama è semplice, ma persuasiva. Un tossicodipendente, dopo essere stato raggirato dal suo spacciatore, in preda a una terribile crisi d’astinenza, scippa una vecchietta e involontariamente la uccide. Il figlio della donna che ha assistito da poco distante all’omicidio, insegue e massacra brutalmente l’assassino. L’episodio innesca un’incontenibile esplosione mediatica; articoli distorti, telegiornali, feroci twittate, interviste, comunicati stampa e pareri sulla rete fanno da protagonisti in una virtuale caccia al colpevole. L’obiettivo apparente è puntare il dito, distruggere, diffamare, ridurre a etichetta. La vera volontà però è quella di liberarsi dalla colpa quasi adamitica che grava sugli uomini e che Pascoletti metaforizza con intelligenza e originalità attraverso l’immagine della nepente, spaventosa pianta carnivora che trascina nel più oscuro degli abissi coloro che conducono una vita priva di autocoscienza e che si lasciano vincere dalle debolezze: “poiché scegliete d’essere ciechi, voi vivrete la condanna e nessuno intenderà la colpa!”. I personaggi del romanzo, nonostante siano tratteggiati accuratamente dall’autore, hanno la funzione di pedine, di attori che ungono e mettono in moto gli ingranaggi della narrazione. Il Profeta che grida alla piazza i suoi anatemi, il tossico che “scolletta” per comprare la roba, il professore precario divorato da una repressa (o quasi) aggressività, il giornalista che ha venduto la sua etica per un grosso scoop e la ragazza incinta dal passato tragico pronta però per essere accolta dalle seducenti luci dei riflettori. Il punto di vista altalena freneticamente fra i personaggi e le prospettive sono multiple; il risultato è un letale miscuglio di imperdonabile sadismo e struggente umanità in un mondo in cui troneggia la sartriana asserzione: “l’enfer c’est les autres”. Irriverente sperimentatore stilistico, Pascoletti, rifacendosi alla struttura della tragedia antica, dà vita a un coro di voci virtuali non riconducibili al singolo, ma a un sistema in cui nessuno è responsabile delle proprie azioni e affermazioni, in cui l’autodistruzione sembra davvero l’unica via di fuga. “Perché mai dei figli di papà dovrebbero uccidersi con della merda buona per senzatetto e tossici? È come se distruggersi sia l’unica rivolta rimasta per esprimere ciò che le nuove leggi hanno represso fino alla rimozione collettiva. O magari erano dei viziati di merda di cui nessuno sentirà davvero la mancanza, chissà”.

 

 

I tre romanzi sono diversi per stile e tematiche, ma tutte e tre le storie sono avvolte da una particolare (e contemporanea) nebbia che disorienta costantemente i personaggi: la confusione. Che riguardi l’ambiguità sessuale, la strada professionale da intraprendere o l’identificazione di un vero colpevole, il ruolo della confusione è sempre centrale. I personaggi annaspano in una realtà in cui i confini non sono tracciabili e dove non esiste valore o certezza etica.  Bene e male non si possono delineare, non esiste spartiacque tra infanzia ed età adulta, la sessualità è motivo di ansia, è specchio di paure e irrisolutezza. Tutto è aleatorio e casuale; verità e stabilità si ricercano nella folla, nell’opinione pubblica, nel sentito dire e nel coro di voci anonime che popolano il web. Carlo e Fabio vivono nel timore della non-accettazione, Gaia conduce un’esistenza che non si era aspettata (quale vita si era immaginata però, dal momento che non fa emergere né forti passioni né concreti desideri?) e ne I giorni della nepente l’etica si fonda sulle opinioni espresse dal profilo FB con più followers. Quella descritta è l’epoca in cui si è quasi definitivamente abbattuta la religione con il libero arbitrio, ma allo stesso tempo si è sradicata la libertà con il “dover essere”; figlio della moda, della rete, della morte di un dio che un tempo avrebbe accolto in paradiso anche l’esistenza più insulsa. Rasa al suolo l’idea di un’idilliaca eternità, vige sovrano il binomio “ora e subito” che richiede di arraffare, impadronirsi, acquistare e possedere tutto; non è importante cosa, l’importante è che sia nel minor tempo possibile. La società osservata attraverso il filtro di questi romanzi, è come se necessitasse da parte dell’uomo di ri-alienarsi in una qualche nuova forma di entità o organismo superiore, per non dire trascendente, in modo da potersi nuovamente liberare dal potere devastante delle proprie azioni. È stato scelto il successo, il denaro, il già citato “dover essere”. Non sono le sacre scritture a giustificare il raggiungimento di tali scopi bensì le leggi del consenso popolare e della moda, che non essendo dogmatiche, ma in continuo movimento, hanno gettato l’uomo nella più totale e soffocante confusione. Balzac il suo tempo lo descriveva con monumentali cicli di narrazioni, oggi si è tornati all’opera del frammento; non in accezione romantica, dove tra aforismi e trame all’apparenza dissonanti si cela lo zusammenhang (la strada segreta e cifrata che permette una lettura unitaria del testo), ma a romanzi che restano sospesi e confusi insieme ai loro personaggi. La persona non è più riflessa nell'ambiente, ma in quello che si dice di lei, in quello che possiede, nell’immagine che dà. Che il tutto sia rapidamente mutevole, è secondario. Lo scrittore, non più illuminato da qualche forma di verità, è colui che per primo si immerge nella confusione senza voler fornire al lettore alcuna possibilità di decifrazione del mondo. L’autore è autobiografico, iper-soggettivo, forse anch’esso vittima del coro anonimo e smisuratamente potente che giorno per giorno soffoca anche la più timida volontà di indipendenza intellettuale.

 

 

I libri:

Michele Bentivoglio, Un’estate breve, edizioni e/o 2015, pp. 184, € 15,00

Ginevra Lamberti, La questione più che altro, Nottetempo 2015, pp. 203, € 13,00

Matteo Pascoletti, I giorni della nepente, Effequ 2015, pp. 201, € 13,00

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