Al di sopra della legge / Poliziotti violenti

Quando, nel finale de Gli intoccabili, Eliot Ness, l’eroe, scaraventa l’azzimato e odioso gangster giù dal tetto del tribunale, alzi la mano chi non ha intimamente goduto. È impossibile - emotivamente, istintivamente, visceralmente - condannarlo per quel gesto. E il magnifico film di Brian De Palma, scritto da David Mamet, uno dei capisaldi del periodo (The Untouchables, 1987) non fa niente per problematizzare l’accaduto, anzi. Il gangster è mostrato come particolarmente crudele ed esecrabile: ha pure assassinato l’amatissimo vecchio poliziotto impersonato da Sean Connery. A interpretare Eliot Ness, il coraggioso agente federale che ha giurato di fermare Al Capone, è Kevin Costner, con il suo volto da eroe tutto d’un pezzo: non batte ciglio dopo aver deliberatamente, non accidentalmente, punito il criminale così, extra legem. E noi con lui.  

 

Gli intoccabili, 1987.


In queste settimane, l’America e il resto del mondo si sono svegliati di fronte a immagini profondamente disturbanti. L’uccisione di George Floyd ha riacceso i riflettori sul gigantesco problema della brutalità - razzialmente orientata - endemica alle forze dell’ordine statunitensi. Ma, al di là dell’orrore dell’episodio in sé, ancora più potenti e insidiosi sono due elementi strutturali emersi. Da un lato, ci siamo improvvisamente resi conto degli effetti della progressiva militarizzazione della polizia, tra blindati, droni, lacrimogeni, cariche; mentre agenti in assetto antisommossa hanno occupato le strade e sovente impedito, con dubbia legalità, persino il diritto costituzionale dei cittadini a manifestare pacificamente il proprio dissenso. Dall’altro, è esploso in piena evidenza un vero e proprio cultural divide tra coloro che denunciano la deriva funzionale della polizia americana (e non solo americana) verso modelli autoritari e illiberali e quanti invece la difendono acriticamente come scudo e baluardo contro i pericoli di un mondo fattosi disordinato, spaventoso. 

 

Quel che interessa, qui, non è tanto la rappresentazione della brutalità e della violenza della polizia, anche nelle sue motivazioni o nei suoi risvolti razziali: un tema finalmente più affrontato culturalmente negli ultimi anni, si pensi al quasi voyeuristico Detroit di Kathryn Bigelow (2017), o a serie belle e struggenti come Seven Seconds (2018) e When They See Us (2020), capaci di raccontare le implicazioni e le conseguenze di un sistema profondamente ingiusto e discriminatorio. Quella che qui si vuole proporre è piuttosto una riflessione su come la cultura pop dell’ultimo mezzo secolo abbia non solo romanzato le funzioni di sicurezza pubblica ma costantemente esaltato la figura del poliziotto che non gioca secondo le regole. Tonnellate di show televisivi e di film di consumo ci hanno raccontato come eroi positivi quei difensori della legge che si considerano, e agiscono, al di sopra della legge. Ci hanno spinto a parteggiare per loro. Nel far questo hanno prodotto, va detto, eccellenti esempi di intrattenimento; al contempo, però, ci hanno progressivamente anestetizzato rispetto al problema dell’esercizio della violenza, una delle funzioni più delicate demandate allo Stato. Favorendo involontariamente un progressivo slittamento culturale dei limiti di ciò che consideriamo eticamente accettabile, verso un utilitarismo spinto: il fine ha sempre più messo in secondo piano i mezzi. E ci hanno via via reso indifferenti, se non compiacenti, rispetto all’idea della militarizzazione dei corpi di polizia.

 

Il fenomeno nasce mezzo secolo fa, e si afferma subito grazie ad alcuni grandi successi che diventeranno classici. I due personaggi più celebri vengono creati nello stesso anno, il 1971: l’ispettore Callaghan interpretato da Clint Eastwood e il detective Jimmy “Popeye” Doyle cui presta il volto Gene Hackman nella saga de Il braccio violento della legge. Ma un antesignano “alto” di questi poliziotti sprezzanti delle regole lo troviamo già in L’infernale Quinlan (Touch of Evil, 1958), martoriato capolavoro dell’immenso Orson Welles. Il personaggio che Welles crea e interpreta, il capitano di polizia Hank Quinlan, non esita a contraffare prove non per incastrare innocenti ma per assicurare alla giustizia coloro che ritiene colpevoli. È il “cattivo” del film, ma un finale beffardo rivela come il vecchio e corrotto poliziotto abbia avuto per un’ultima volta ragione. 

È interessante ricordare come l’Italia si faccia trovare prontissima a cavalcare l’onda, forse anche per il clima di tensione sociale degli anni. Nel nostro Paese, il sottogenere prende anche un nome: poliziottesco. Titoli come La polizia ringrazia di Steno del 1972 e La polizia incrimina, la legge assolve di Enzo G. Castellari del 1973 codificano il modello, che sarà ulteriormente popolarizzato tra il ‘75 e il ‘76 dalla trilogia del Commissario Betti (Roma violenta, Napoli violenta, Italia a mano armata).  

 

Miami Vice, 1984-89.


Gli esempi si moltiplicano a partire dagli anni ‘80 quando, accanto al cinema, la televisione inizia ad assumere con sempre maggiore forza il ruolo di produttore autonomo di contenuti altamente serializzati con cui poi si affermerà definitivamente alla fine del millennio e nei primi decenni del nuovo secolo. In ordine cronologico, e limitandoci a citare esempi così noti da non richiedere contestualizzazioni o spiegazioni, vale la pena ricordare alcuni titoli. 

Miami Vice, serie poliziesca ambientata a Miami che nella sua lunga corsa (1984-1989) e con una parabola progressivamente più cupa avrebbe popolarizzato in tv tanto la figura di poliziotti molto disinvolti quanto un’idea ahinoi duratura di Italian style nell’abbigliamento. 

Nel 1987 nasce la saga cinematografica di Arma Letale (Lethal Weapon), diretta da Richard Donner e interpretata da Mel Gibson e Danny Glover, con il primo a tratteggiare un poliziotto aggressivo, violento, costantemente ipereccitato; e naturalmente assai benvoluto dal pubblico, che ne segue le avventure attraverso 4 film, fino al 1998. 

Discorso analogo possiamo fare per l’ancora più ampio franchise di Die Hard, con l’irresistibile Bruce Willis nei panni del popolarissimo poliziotto John McClane: dal capostipite Trappola di cristallo del 1988 al quinto e ultimo sbiadito capitolo del 2013, per un quarto di secolo, l’eroe dovrà affrontare orde di terroristi che minacciano la tranquillità sua, della sua famiglia, di New York. Lo farà menando, sparando, facendo saltare in aria, uccidendo in mille modi creativi gli orridi cattivi.  

Il fronte terroristico è inevitabilmente uno degli scenari in cui risulta più agevole costruire la caratterizzazione di un eroe che, in nome di un bene superiore, è costretto e persino moralmente legittimato a ricorrere a metodi altrimenti esecrabili. L’agente dell’antiterrorismo Jack Bauer di 24, enorme successo targato Fox e andato in onda in America dal 2001 al 2010 (prima serie a rispettare scrupolosamente le tre unità aristoteliche di tempo, luogo e azione, dato che ogni stagione, composta di 24 episodi, racconta in tempo reale una vicenda che si dipana nell’arco di una sola giornata) non arretra di fronte a nulla: torture e uccisioni efferatissime sono strumenti legittimi anche per i “buoni”. In palio c’è un bene troppo grande per stare a cavillare; e inoltre, l’immedesimazione appassionata di Kiefer Sutherland nel ruolo rende l'empatia col pubblico inevitabile. 

 

True Detective, 2014.


Tornando alla polizia, meritano una citazione altri prodotti ben rappresentativi del fenomeno. In tv, a cavallo dei millenni, NYPD Blue (1993-2005): cruda, realistica, con protagonisti dai modi spicci, nevrotici che portano i propri disturbi nel lavoro. 

Del film Training Day (2001) la cosa forse più memorabile è il lapidario consiglio che il cinico detective cui dà il volto Denzel Washington offre al giovane e ingenuo poliziotto interpretato da Ethan Hawke: “Se vuoi proteggere la pecora, devi cacciare il lupo. E ci vuole un lupo per cacciare un lupo”. Il messaggio è chiaro. 

Peggio ancora accade in The Shield (2002-2008), serie che ha al centro quattro detective totalmente corrotti: nel primo episodio il poliziotto che è stato inserito nella squadra per smascherarne i crimini viene ucciso a sangue freddo dal protagonista dello show, il detective Vic Mackey. La mutuazione di condotta e finanche codici dei criminali che si combattono è veramente accettabile? 

Fa un po’ caso a sé, infine, True Detective (in onda dal 2014), la serie che ha più di ogni altra contribuito a ridefinire in termini culturali e persino filosofici la figura dell’investigatore nel nostro tempo. Le sue stagioni antologiche (tre quelle fin qui trasmesse) mostrano poliziotti che sono disposti a tutto pur di risolvere i casi su cui indagano. Un’ossessione li consuma; i loro metodi non sono poi molto diversi da quelli dei criminali cui danno la caccia. Nella prima memorabile stagione, i due detective interpretati da Matthew McConaughey e Woody Harrelson picchiano un sospettato, torturano un testimone, falsificano prove, fanno irruzioni non autorizzate, giustiziano un efferato criminale. Eppure, naturalmente, sono i buoni, gli eroi della storia.  

 

E poi? Poi ci sono le evoluzioni, o involuzioni, parossistiche. Ne cito due, enormi sia per il loro impatto socioculturale che per ciò che rivelano: i franchise di RoboCop e The Punisher

RoboCop è il celeberrimo film del 1987 diretto da Paul Verhoeven: un successo globale, che darà vita a una saga ipertrofica di pellicole, videogame, adattamenti tv, fumetti, remake. Qui il poliziotto non viene solo liberato dai vincoli delle regole e delle leggi, ma pure dai limiti fisiologici umani: un corpo cyborg corazzato, potenziato da innesti tecnologici, capace di svolgere da solo il lavoro di un’intera squadra d’assalto, animato da un’implacabile sete di giustizia - e di vendetta, concetti che non saltuariamente coincidono nella costruzione della psiche degli eroi americani. L’immagine del poliziotto-cyborg è una di quelle entrate prepotentemente a far parte dell’immaginario contemporaneo, contribuendo non poco al processo di spersonalizzazione degli uomini in divisa. Nascosti e protetti da maschere, armature, elmi, corpetti gli agenti scivolano quasi naturalmente verso dinamiche più militari che civili.

 

The Punisher, cioè il Punitore, nasce invece come fumetto, negli anni ‘70, per poi farsi film, serie tv, videogame, con una produzione costante e anche recentissima. Frank Castle è un veterano di guerra ossessionato dall’uccisione della propria famiglia da parte della mafia; ora, la sua unica ragione di vita è punire tutti i criminali su cui riesce a mettere le mani. Ricorrendo a qualsiasi mezzo, compresi i più cruenti, illeciti e inumani. Un antieroe ante litteram, precursore di quella che diventerà un’ondata inarrestabile di protagonisti profondamente problematici. 

 

The Punisher (logo).


Blue Lives Matter (logo).


The Punisher è un caso straordinario di contaminazione tra finzione e realtà. Rivelatrice per il quadro che sto provando ad affrescare è infatti la formidabile controversia riguardante l’adozione dell’iconico simbolo del Punitore (un teschio bianco dai tratti crudeli, quasi alieni) da parte di poliziotti, militari, persino movimenti politici. Nei primi anni 2000, con la guerra in Iraq, il simbolo appare ripetutamente su mezzi e strumenti dei soldati USA (ne parla estesamente Chris Kyle, il Navy SEAL autore dell’autobiografia di enorme successo American Sniper, divenuta poi film per la regia di Clint Eastwood). Dalle forze di occupazione americane il logo passa ai nuovi corpi militari e di polizia iracheni. E, negli USA, viene adottato da un numero crescente di poliziotti. Nel 2004, a Milwaukee, alcuni agenti danno vita a un gruppo di giustizieri battezzato The Punishers, con richiami all’eroe Marvel nell’abbigliamento. 

 

Nel 2014 nasce, in risposta al Black Lives Matter, il movimento Blue Lives Matter (“Blue” in America identifica i poliziotti, come nelle vecchie serie Hill Street Blues o NYPD Blue): sovente il movimento utilizzerà nella propria comunicazione visiva il teschio del Punitore. Nel 2017, prima in Kentucky e poi nello stato di New York, il logo viene aggiunto alle auto ufficiali della polizia locale, suscitando enorme indignazione ma anche, nei mesi successivi, venendo ripetutamente adottato come segno di solidarietà di corpo dai poliziotti di varie parti degli USA. Sean Hannity, popolare volto di una delle più seguite (e più faziosamente pro-Trump) trasmissioni di Fox News, ha indossato in tv la spilla con l’inquietante teschio. Una delle trasformazioni più mirabili del simbolo avviene con la sua politicizzazione: nella variegata galassia web dei sostenitori dell’attuale Presidente USA, spicca il filone degli oggetti di merchandising con il logo di “Punisher Trump” (cioè il teschio del Punitore con sopra la bionda e iconica zazzera presidenziale), secondo la lettura per cui The Donald starebbe finalmente punendo per i loro crimini tutti i bersagli abituali della propaganda conservatrice. E a poco sono valsi gli interventi dello stesso creatore del personaggio, Gerry Conway: ormai, il suo antieroe è divenuto simbolo di qualcosa che non avrebbe mai voluto rappresentasse. Non la testimonianza agghiacciante del collasso di un sistema sociale e di giustizia, ma la rivendicazione orgogliosa della liceità dell’uso di ogni mezzo, lecito o illecito, in nome di un’idea - largamente pervertita e autoritaria - di Ordine.  

 

Una delle citazioni letterarie più influenti nel racconto seriale del nostro tempo la troviamo in Westworld, il fascinoso e complessissimo show creato da Jonathan Nolan e Lisa Joy: racconta di un futuro in cui l’umanità ha creato forme di Intelligenza Artificiale reali, e le ha usate per popolare un parco-divertimenti in cui i ricchi possono sfogare pulsioni e fantasie sadiche represse. “These violent delights have violent ends”: questi piaceri violenti hanno una fine violenta. La dice Peter Abernathy, che nella sua precedente “vita” era stato un professore, alla figlia Dolores. La ripete Robert Ford, il creatore del parco e dei suoi hosts, i robot senzienti imprigionati in un costante e mortificante loop di servitù. E saranno proprio gli androidi a farla propria, quasi come un grido di rivoluzione - o di giustizia. 

 

Westworld.


La frase viene da Shakespeare, dalla sesta scena del secondo atto del Romeo e Giulietta. La dice frate Lorenzo, e se andiamo avanti di qualche parola è ancora più calzante: “Questi piaceri violenti hanno una fine violenta e muoiono nel loro trionfo, come il fuoco e la polvere da sparo, che il primo bacio distrugge”. Frate Lorenzo non si limita a criticare gli eccessi di passioni incontrollate, esplosive, che tutto consumano. Ha anche un consiglio: “Therefore love moderately”, “Perciò amate moderatamente”. È quasi una raccomandazione agli spettatori di allora, e a quelli di oggi. A noi, consumatori di un intrattenimento la cui produzione alimentiamo col nostro vorace appetito. E che non possiamo dirci incolpevoli: ciò di cui decretiamo il successo avrà più probabilità di essere replicato da un sistema di produzione di contenuti che non a caso chiamiamo industria dello spettacolo, show business

 

Insomma: va bene amare i prodotti della pop culture, va bene trarne piacere. Ma attenzione: il nostro piacere non è privo di conseguenze, e in specie i nostri piaceri violenti. Ciò che mostreremo di amare avrà più probabilità non solo di essere replicato - ma di diventare una cornice cognitiva di riferimento. Capacissima di uscire dallo schermo per cui l’avevamo inventata e dove pensavamo sarebbe rimasta confinata. E di entrare nel nostro mondo, trasformandosi in istanze sociali, aspettative, richieste, e infine scelte politiche. 

La straordinaria popolarità della figura del poliziotto al di sopra della legge, dell’eroe che piega le regole per un supposto bene superiore, di una polizia intesa come scudo non solo sociale ma quasi morale nei confronti dei mali e delle minacce del mondo ha plausibilmente contribuito alla passività con cui abbiamo accettato una progressiva militarizzazione delle forze dell’ordine. 

O persino all’entusiasmo con cui lo abbiamo richiesto. E alla tolleranza verso gli abusi di potere, che sempre più ci sono apparsi normali, inevitabili, parte del gioco. 

Curiosamente, è successo ciò che accade con i robot di Westworld: creati per il nostro piacere e destinati a restare confinati in un violentissimo parco divertimenti, finiscono per uscirne e invadere il nostro mondo. Venendo a cercarci, a perseguitarci, a punirci per il nostro strabordante e irredimibile sadismo. 

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